PERSONE CHE HANNO LETTO O CURIOSATO

mercoledì 28 dicembre 2011

"Freedom, oh freedom...". Sull'America delle mille regole (e delle libertà)

Sono due le cose, opposte fra loro, che immagina chi non è mai stato negli Usa: da una parte che sia “il Paese più libero del mondo”, come amano definirlo gli americani e i loro Presidenti; dall’altra che l'America sia il centro - anzi, l’Impero - del Male, (come pensa ancora qualcuno) che limita con leggi e regolamenti ogni libertà personale di chi vi abita e ovviamente anche dei turisti che vi si recano. 

Oddio, effettivamente fin all'arrivo in aeroporto sarete circondati da cartelli che vietano questo o quel comportamento, che spiegano con indicazioni multilingue e disegni regole e leggi. Ma si tratta in realtà soprattutto di regole di buon senso facili da osservare.
La cosa straordinaria è che noi italiani ci distinguiamo nel trasgredirle una ad una, queste regole. Di qualsivoglia tipo. E non appena sbarcati dall'aereo.
Vi sono cartelli che scrivono con evidenza - anche con disegni - che è vietato l'uso dei telefonini prima del controllo passaporti? Ebbene: voi vedrete che gli unici che accenderanno il telefono cellulare ancora dentro l'aereo, o negli anonimi corridoi dell'aeroporto, saranno gli italiani (e gli spagnoli...): e proprio passando sotto i cartelli che ne segnalano il divieto d'uso, per motivi di sicurezza aerea, in riferimento alle possibili interferenze che le onde radio dei telefonini possono esercitare nei confronti dei meccanismi elettronici degli aerei che stanno per decollare o atterrare a pochi metri da voi.
E' che l'italiano si chiede perché mai vi sia questa regola stramba. E, ovviamente, la vìola, un po' "a prescindere", un po' perché non ne comprende il motivo. E poi bisogna telefonare subito a mamma, no?

Non parliamo poi delle code.
In America gli italiani li riconosceremo, anche da lontano, tante volte: perché commenteranno tutto ad alta voce, o perché, appunto, saranno gli unici che cercheranno sempre di "fare i furbi" mentre sono in coda. Code che in Italia - come mi ha fatto giustamente notare l'amico Simone su Facebook - sono "ad imbuto", con qualcuno che passa sempre, involontariamente o meno, davanti a qualcun altro, spintonando una volta l'uno, una volta l'altro, costantemente violando quella "distanza di prossimità" sacra negli Usa e in Italia sconosciuta. 
Negli States, invece, sono, appunto, "file": con le persone che, ordinatamente e pazientemente, aspetteranno una dietro l'altra, ognuna ad adeguata distanza; e questo alla cassa di un negozio, ad uno sportello bancomat, davanti al pulmino dei gelati.

La concezione di vita "italiana" si esprime però al meglio quando siamo alla guida sulle strade americane. Ecco, anche qui il consiglio che mi è stato dato (e che, ovviamente, non ho osservato fino alla seconda bastonata, cioè alla seconda multa) era semplicissimo: "Tu limitati ad osservare le indicazioni stradali e a rispettare i limiti di velocità. Basta che fai come fanno tutti gli altri...". 
Semplice no? Certo! 
E secondo voi io ho ascoltato questo consiglio? Ovviamente no.

Il suggerimento che do sempre a tutti coloro che si apprestano a guidare per la prima volta negli States è di mettersi bene in testa di rispettare “alla lettera” (ribadisco, “alla lettera”) il codice della strada illustrato dai suoi cartelli stradali. Esatto: proprio quelle robe lì che in Italia quasi manco guardiamo di sfuggita. 
In America non vige alcuna interpretazione elastica delle norme, e le possibilità di aprire poi un dibattito su di esse con il poliziotto o lo sceriffo di turno che vi contesterà qualche vostro comportamento scorretto - nell’italica ipotesi di raggiungere con lui un amichevole compromesso con annessa stretta di mano e via di scampo - sono pressoché nulle. Sempre ammesso che siate in grado di sostenere un briciolo di conversazione con un poliziotto che, oltre ad essere infuriato con voi, parlerà con accenti che spesso possono rendere davvero incomprensibile il suo inglese.

D'altronde, già la segnaletica stradale americana appare quanto meno esplicita. 
In Italia i cartelli che indicano i limiti di velocità, per esempio, sono lì, tristi e solitari a bordo strada. 
In Francia, invece, il cartello è spesso accompagnato da un verbo, più che altro una esortazione: "Rappel", c'è scritto, "Ricorda".  Così come in Spagna, dove anche qui spesso i cartelli stradali sono accompagnati da un malinconico "Recuerda"
L’America, invece, è un Paese che va per le spicce e ha una lingua che permette poi una maggiore, e assai più efficace, capacità di sintesi. Negli Stati Uniti, dunque i cartelli stradali sono spesso accompagnati da un monito che a noi italiani, abituati come siamo a cercare di farla sempre franca, risulta vagamente minaccioso. “It’s the law!”, c’è scritto, “E’ la legge!”. Proprio così, a volte anche con quel punto esclamativo, che rende il messaggio (come dire...) assai più "convincente".
                              
"Tieni la destra e sorpassa a sinistra"
"E' la legge"
Marco e Lorena - fedeli lettori di Reno, in Nevada - mi segnalano un cartello stradale, dalla consueta straordinaria sintesi, che si trova spesso sulle strade della California: 
"Click-it or ticket": "Allacciala o multa". Con specificato anche l'importo: "Da 80 a 91 dollari". 
Ma in California ci sono contee che fanno pagare anche 142 dollari di multa, a chi non allaccia la cintura di sicurezza in auto.  

Non ho verificato di persona, ma ho letto che lungo le strade dell’Illinois si legge ogni tanto un cartello con l’ancor più esplicita frase: “Riga dritto! E’ la legge dell’Illinois!”: che è un po’ come far intravedere, a chi guida, le sbarre del carcere, o il patibolo con il cappio. 
Ma se è pur vero che in ALCUNI Stati americani (che sono assolutamente indipendenti tra loro e che dunque possono legiferare come vogliono a prescindere da ciò che pensa il Presidente Usa) vige l'orrenda e inumana pena capitale, è pur vero che spesso alcuni italiani - che giungono negli Usa con il loro bel bagaglio di condizionamenti (anche) ideologici - pensano che gli Stati Uniti siano il luogo dove si rischi l'iniezione letale ad ogni angolo.
Come evidentemente pensava seriamente la sorella di una amica, che alla vigilia della partenza di quest'ultima per il suo primo viaggio americano le raccomandò di “non sedersi mai per terra o sui gradini perché a New York per questo c'è l'arresto”. Non ho minimamente idea dove quella persona avesse letto o sentito una cosa del genere, ma vi assicuro che era assolutamente convinta che la realtà e "l’atmosfera" negli Stati Uniti fossero quelle.

Come dico ad ogni scettico, fra i pesanti bagagli che io stesso mi portai dall’Italia nel mio primo viaggio negli States, il più pesante era forse quello che conteneva proprio stereotipi e preconcetti. In realtà, dopo un po’ di giorni, mi resi conto che gli Usa sono un Paese molto più complesso di quello che pensavo, dove chiunque può fare e dire quello che vuole. 
Troveremo davanti alla Casa Bianca cocciuti contestatori fianco a fianco di sostenitori del Presidente. E, quel che ci stupirà di più, è che conviveranno su quei marciapiedi senza alcuna frizione fra loro.

Ancor più stupore potrà probabilmente provocarvi la notizia della condanna delle figlie gemelle del presidente Bush, allora nemmeno ventenni, perché guidavano dopo aver bevuto grazie ad un documento falso che si erano fatte su internet.
Furono condannate (le figlie del Presidente americano!) ad effettuare otto ore di lavori socialmente utili e a seguire un corso sugli effetti nocivi dell'alcol.
Forse se avessero detto che erano le nipoti di Mubarak...

Dopo esserci stato la prima volta ho capito che la cosa più semplice, negli Stati Uniti, è osservare la legge.
E, incredibile, mi sono accorto che la osservano tutti e che a nessuno vengono rotti i coglioni (pardon!).

Vittime prime di questa rigidità, sono però i fumatori (italiani e spagnoli, visto che quelli americani conoscono e rispettano normalmente le regole).
Se volete perdere il vizio del fumo fatevi un bel viaggio negli States: il costo sarà compensato da ciò che non spenderete più, in un anno senza sigarette.
Per i fumatori, gli Usa sono davvero un inferno: li vedrete durante l'orario di lavoro con la sigaretta in mano fuori dagli edifici (sotto il sole torrido estivo o nel gelo invernale) naturalmente mantenendo dagli stessi la distanza "di legge": 20 piedi (6 metri), o anche 15 piedi (4,5 m.), da ogni entrata, uscita, finestra aperta o bocca d'aspirazione dell'aria condizionata, come potete leggere nel cartello qui sotto:

                                                  

Difficile, quasi impossibile, far capire al fumatore italiano che sono norme che si devono osservare, sia per il rispetto di tutti, sia perché altrimenti ci si imbatte in una sicura multa. E guardate che negli Usa le multe per la non osservanza della lege antifumo la fanno davvero. 

E' che, talvolta, il divieto di fumare è esteso anche all'aria aperta: ai parchi pubblici (cittadini e non), per esempio, ma anche ai semplici "giardinetti", o a quelle aree, anche non recintate, con sedie e tavolini.

Qualche mese fa mi trovai a fare da paciere fra un italiano ottuso e un poliziotto che voleva multarlo visto che il concittadino fumava passando per Washington Sq, senza aver visto un cartello come questo:

Pur non essendo un fumatore, devo dire però che mi fanno una certa pena i tabagisti negli aeroporti americani, relegati come sono nelle aree a loro riservate, e che a volte consistono in un cubo trasparente ingiallito dalla nicotina, con l'aria interna irrespirabile nonostante l'aspiratore.

Così come mi ha fatto un po' pena questo signore da me fotografato sul molo di Santa Monica, in California, nell'apposita striminzita "smoking area" (quella colonnina alla sua sinistra è il posacenere...).
Avete capito bene: chi passeggia da quelle parti, può fumare SOLTANTO all'interno del perimetro evidenziato dal rettangolo a terra!


Di fumare in spiaggia non se ne parla nemmeno.
Da qualche anno il divieto è entrato in vigore in California e via via esteso in tutti i litorali degli altri Stati. 
Prima di entrare in spiaggia, ecco tutte le informazioni utili ai bagnanti: temperatura dell'aria, temperatura dell'acqua, ora del tramonto, profondità dell'acqua per i surfisti... D'altronde lo avete capito, ormai, se leggete queste pagine: gli americani sono precisi. 


A proposito, le spiagge sono quasi TUTTE libere, senza stabilimenti balneari a pagamento (fatta eccezione per alcune cittadine di lussuoso turismo, come, per esempio, Malibù, in California, dove però esistono chilometriche e pulitissime spiagge libere), con toilette pubbliche gratuite, e senza le italiche e ridicole restrizioni per raggiungere il mare.



Sono necessarie regole, che peraltro rispettano tutti. Come queste:        

(Ho scoperto che la bandiera a scacchi gialla e nera indica che sono operativi bagnini, ma non in tutte le spiagge e in quel tratto, e dunque se non ci si sente sicuri è meglio andare a fare il bagno nei pressi della postazione dei "lifeguard", come quella di tre foto sopra). 
A proposito di sigarette e alcolici, è bene fare attenzione, perché negli Usa non è come in Italia, dove i controlli sono quasi inesistenti: qui i Cops ci sono, e anche con appositi mezzi da spiaggia!

Strano Paese l'America... 
Mentre i poliziotti girano per la spiaggia di Santa Monica, magari proprio a controllare che nessuno fumi, poco più in là, sulla "passeggiata lungomare", ecco una ragazza che pubblicizza uno studio medico che rilascia ricette per l'uso più o meno terapeutico della marijuana.

Nel caso, i genitori sospettosi e poco inclini al dialogo con i figli, possono sempre andare al supermercato e acquistare - fra una pila Duracell e una confezione di Band-Aid - il kit casalingo per dare una "controllatina" (lo so, è una cosa orribile...) ai propri figli:

Per soli 16,99 dollari, il genitore ansioso e malfidato può così verificare se il figliolo fa uso di marijuana, anfetamina e metanfetamina, ecstasy, cocaina, oppiacei vari, financo a dodici sostanze illecite differenti.

E se non si può fumare in nessun giardino o parco americano, in compenso si può stare sdraiati tranquilli (qui siamo a Central Park, a New York) a prendere il sole in costume da bagno. Senza che nessuno rompa...

Semmai i poliziotti - formato monumentale, ovvio... -, la domenica a Central Park sono impegnati in cose più serie: come per esempio cercare di beccare fra le migliaia di persone in giro, qualche latitante ricercato (ma senza chiedere documenti a casaccio, ché negli Usa è vietato!).



Davvero strano Paese, l'America.

Così strano, che nessuno - tranne me e voi, ovviamente - si stupisce se si incrocia per strada qualcuno che se ne va in giro - e mi è capitato di vederne più di uno di questi soggetti - indossando bellamente un costume da Uomo Ragno. 
Magari mentre fa la coda per un hamburger (eccheccazzo, anche Spiderman dovrà pur magnà, no?). 

                       
Oppure mentre si sposta tranquillo in metropolitana (aveva esaurito i suoi poteri, evidentemente!). E non era Carnevale...
Confesso che quando incontrai uno Spiderman nella subway di New York non osai fare la foto. E allora un filmato simile l'ho rubato dalla rete.

                                    

Negli Stati Uniti ognuno - se non fa del male a qualcun altro o vìola la legge - può fare quel che vuole e vestirsi come vuole.
O anche non vestirsi: come questa giovane donna alla quale veniva fatto il "body painting" in pieno giorno a Washington sq, a Manhattan

o quest'altra, che durante la notte dedicata alla moda andava in giro con amiche così:


Insomma, come ho sottolineato all'inizio, gli Stati Uniti sono un Paese molto più complesso di quanto possa credere chi si reca lì la prima volta...

Direi che questo lungo racconto americano posso concluderlo con due cose che più mi hanno lasciato sbalordito, quando le vidi sulle strade degli States: due cartelli incontrati per strada, il primo mentre attraversavo un paesino della Pennsylvania. 

Non credevo ai miei occhi: e infatti inchiodai, scesi dall'auto e feci subito la foto.


"Pedone cieco nei paraggi".
Così come fermai l'auto quando, in South Dakota, vidi e fotografai un cartello come questo sotto (la foto l'ho presa dal web, visto che la mia è ancora in diapositiva; mi perdoni l'autore):

"Zona frequentata da bambino sordo"

Due cartelli stradali che mi fecero pensare molto, e che mi lasciarono letteralmente senza parole... 
E a voi? 

© dario celli. Tutti i diritti sono riservati

giovedì 22 dicembre 2011

Venite a vivere con me il Natale negli States?

Magica.
New York, per me, è magica di per sé, ma a Natale lo diventa ancor di più, se possibile...
Diciamo che New York, nel periodo natalizio, è straordinaria per i bambini, ma lo è - a mio parere - ancor di più per gli adulti.
E non sto parlando solo di shopping! (Signore e signorine, vedevo i vostri occhi che luccicavano, sapete?)

Il negozio Cartier sulla Fifth Av.
 Il giardino pensile della Trump Tower e il negozio Vuitton sulla Fifth Av.























           
                                  






Le luci, le decorazioni, le vetrine, l'atmosfera: tutto a New York, in questo periodo, appare davvero unico.

  L'atrio del Time Warner Center a Columbus Circle
                                                                
Come davvero unico, inimmaginabile, è il gelo che cala direttamente dal Polo Nord e che arriva quasi senza ostacoli fin nella baja di New York (città che sarà anche all'altezza di Napoli, ma che d'inverno sembra la Groenlandia...).
Viali di Central Park

La pista di ghiaccio di Central Park






























Ogni anno, attesissimo, c'è l'albero di Natale del Rockefeller Center, un abete rosso quest'anno di 74 piedi, 23 metri, illuminato da 30mila luci a basso consumo. Ai suoi piedi la pista del ghiaccio, che d'estate si trasforma in piazzetta con tavolini e sedie.


E è inutile dire che c'è chi esagera, anche in questo campo...


Fontana sulla Sixth Ave.

E' davvero, quella di questi giorni a New York, un'atmosfera che risveglia ed elettrizza il bambino che c'è in noi.


Ma ciò che si vede nelle città è niente rispetto a ciò che riescono a fare coloro che abitano fuori dei grandi centri.
Nei paesini le famiglie fanno a gara per decorare al meglio la loro villetta:
Ma ci sono interi paesini americani che "si scatenano", in fatto di decorazioni natalizie.
Ecco cosa succede, ogni anno, a Rochester (Minnesota) nella Main st.
(Le immagini dei due filmati che seguono, non sono mie... Cliccare sul simbolo You Tube per poterli vedere ingranditi)



Accanto alle decorazioni natalizie "normali" delle case private c'è chi c'è chi esagera...
Guardate cosa riescono a fare alcuni matti...




Il nostro breve viaggio di Natale è finito.


Auguro a tutti i miei compagni di viaggio, a tutti voi che leggete queste pagine, di passare delle tranquille, serene, feste di pace.




© dario celli

Quando a NY vi rimangono pochi centesimi nella tessera della Metro...

Succede, alla fine di un soggiorno, che ci rimanga in tasca una tessera della Metro magari con pochi centesimi avanzati.


C'è chi la porta via per ricordo (i turisti, forse) qualcun altro - la maggior parte dei Newyorkesi - finora semplicemente la gettava nei rifiuti.

Ora l'Mta - la società che gestisce la Metro di New York - ha deciso di prendere in esame seriamente l'idea di tre studenti della New York University, Stepan Boltalin, Genevieve Hoffman e Paul May, ai quali è venuto in mente come non sprecare tutto questo ben di Dio, visto che ammonterebbe addirittura a milioni di dollari il valore del denaro presente, a colpi di pochi centesimi, nelle centinaia di migliaia - se non milioni! - di Metrocard quasi esaurite che vengono gettate nei rifiuti ogni anno.  (Basta pensare che ogni giorno frequentano le 24 linee di metropolitana newyorkesi qualcosa come cinque milioni di passeggeri...).

L'iniziativa si chiama "MetroChange".
D'ora in poi basterà strisciare in un lettore "MetroChange" la nostra Metrocard usata e praticamente finita, per verificare così a quanto ammonta il valore ancora contenuto. Valore che può essere lasciato in beneficenza se si schiaccia l'apposito tasto.

L'ammontare complessivo viene mensilmente devoluto ad una associazione caritatevole, mentre la scheda - ormai esaurita - verrà riciclata.

La proposta dei tre ragazzi (che hanno ideato e realizzato il prototipo nei laboratori della New York University, appunto) è di installare le "MetroChange" innanzitutto nelle stazioni della Subway degli aeroporti di NY, alla Grand Central - la stazione dei treni - e in quelle dei pulman che lasciano Manhattan.

Ecco il loro spot:



P.S.: Per la verità, qualcuno ha avuto anche altre idee in merito al possibile riciclaggio ecologico delle tessere dell'Mta:



A me non dispiace nemmeno questa...
Che ne dite? ;-)


© dario celli

martedì 20 dicembre 2011

Andare incontro a Manhattan, volando, di notte...

Ok, l'ho scritto che queste pagine sarebbero state occupate soprattutto da "cose" (riflessioni, testimonianze, esperienze, progetti...) americane. Utili a chi non c'è mai stato e ci vorrebbe andare, o a chi sa che ci andrà presto. D'altronde, in questi anni, ho raccolto molto  materiale che mi piacerebbe condividere con voi.


Il fatto di essere riuscito a scaricare qui i filmati che ho fatto (con una semplice macchina fotografica o con il telefonino, dunque chiedo scusa della qualità...) mi induce a riparlarvi di Roosevelt Island.


E' uno di quei posti quasi "segreti" di New York, praticamente sconosciuta ai turisti. Eppure magica e molto facilmente raggiungibile. 




Si tratta di quella lingua di terra che vedete qui sopra, nel bel mezzo dell'East River (il fiume di destra di Manhattan), tra il lussuoso Upper East Side - il quartiere ad est di Central Park - e il Queens, un'altro dei "quartieri" di New York, dall'altra parte del fiume. 


L'isola è quasi invisibile ai più, visto che quando si passa dall'altra parte viene sorvolata dall'enorme "Queensboro Bridge", ponte a due piani che congiunge Manhattan al Queens, alla terraferma. 


Non c'è alcun svincolo, dal ponte: dunque a Roosevelt Island ci si può arrivare solo attraverso la metropolitana (linea F, che passa sotto il fiume, fermata omonima) o grazie ad una funivia (che si prende con un biglietto della metro o, ovviamente, con l'abbonamento metro) che in americano si dice "tramway" e la cui stazione a Manhattan si trova, appunto, in Tramway Plaza, sulla 59th strada all'angolo con la Second Av.   


Roosevelt Island è un incredibile angolo di pace, se si pensa che ci si trova a New York.
In una sua parte si trovano alcuni ospedali (maternità, per anziani o lungodegenti); nell'altra, eleganti condomini e negozi che si affacciano sui grattacieli di Manhattan. Lì, ad una fermata di metro.
Non ci sono praticamente auto sull'isola, che si percorre tranquillamente a piedi in un'oretta. In giro solo le auto degli ospedali: dunque niente traffico. La gente (e i bambini) gira in bicicletta e passeggia percorrendo una pista pedonale con panchine che la percorre in tutto il perimetro.
Nel silenzio, Roosevelt Island vi offre un panorama unico, con Manhattan che si presenta imponente, con i suoi grattacieli (quello che vedrete a sinistra è il Palazzo di Vetro dell'Onu) e il suo rumore.


Guardate se non è davvero un angolo unico di New York: da qui si può vedere quanto sia enorme l'East River che lambisce l'isola dalle due parti, e quanto sia tempestosa la sua corrente (a sud, pochi chilometri più in giù, c'è l'Oceano Atlantico!) tagliata da navi enormi.


(Istruzioni per una migliore visione: se cliccate sul simbolo "You Tube" potete azionare la funzione "visione a schermo intero"). 


Vi circolano pochissime auto - quelle degli ospedali o dei negozi - anche perché non c'è nessun ponte che collega Roosevelt Island con Manhattan o la terraferma.
Quanto davvero sembra lontana Manhattan, che pure è lì di fronte, con il Palazzo dell'Onu e la guglia del Chrisler che spunta in mezzo agli altri grattacieli.


Siamo arrivati nell'isola con la metro e ce ne torniamo quasi fossimo in mongolfiera o in aereo, prendendo la funivia (anzi, il "Tramway") con il biglietto della metro.


Dopo aver costeggiato l'enorme (e a due piani) "Queensboro Bridge", Manhattan ci accoglie secondo dopo secondo splendida, con le sue luci, le sue auto e il suo suono... 



© dario celli

domenica 18 dicembre 2011

La storia di Salvatore Esposito. "Born to run"

BORN TO RUN

“Appena scesi dall’aereo io e mia moglie ci guardavamo intorno smarriti. Non avevamo mai visto un aeroporto così grande, con tutti quegli aerei, con tutta quella gente che andava e veniva, di razze diverse, con la loro pelle di colori diversi. Per la prima volta nella nostra vita sentivamo di essere veramente stranieri. Me lo ricordo come fosse oggi: i nostri amici che ci aspettavano avevano uno di quei macchinoni americani che non finivano più. Ci avviammo allora verso quella che sarebbe diventata la nostra nuova casa e attraversammo varie zone periferiche. C’erano ciminiere, capannoni bui, case che erano poco più che baracche. Fuori era ormai sera: io mi guardavo intorno e vedendo quelle casette un po’ malconce mi dicevo: ‘Ma che abbiamo fatto, dove siamo finiti…?’ Insomma, io mi aspettavo l’America già lì, fuori dall’aeroporto”.

Salvatore Esposito è napoletano e fa il cuoco–pizzaiolo a New York. Esposito, proprio come il Raffaele che nel 1890 inventò la pizza Margherita. E lui alla pizza napoletana ci tiene. Usa solo prodotti italiani, freschi di importazione: i pomodori San Marzano, la mozzarella di bufala, l’olio d’oliva, e la pizza la fa secondo i dettami dell’Associazione “Vera pizza napoletana” di cui è socio d’oltreoceano. Nato nel ’50, ha fatto due anni di scuola superiore all’Alessandro Volta di Napoli, fino a quando la passione per la cucina non lo ha completamente conquistato. Ha iniziato a fare il cuoco e il pizzaiolo a 23 anni.
           Un bel locale, quello dove lavora: alle porte del Village, sulla East 20 st, tutto praticamente è in mano sua. Esposito sta in cucina, fa il regista. Con lui un ragazzo messicano, al quale sta insegnando la cucina italiana. Davanti al forno a legna un pizzaiolo, anche lui messicano. In sala, sei ragazzi italiani, che girano come matti fra un tavolo e l’altro. I primi clienti arrivano verso le 11 del mattino: si inizia a mangiare presto a New York. E così la cucina gira fino alle due del pomeriggio. Tre ore di pausa e poi alle cinque iniziano ad arrivare quelli che vogliono cenare. E lui non si ferma fino almeno a mezzanotte. La musica diffusa nel locale fa da colonna sonora al suo racconto. Ritorna indietro, all’inizio del ’96, quando mai avrebbe pensato di emigrare in America.
Lavoravo presso un ristorante–pizzeria di Napoli: avevo un lavoro fisso, un buon stipendio. Portavo a casa tre milioni e mezzo di lire. In teoria non potevo lamentarmi. Tutto procedeva normalmente. Ma era una normalità ‘difficile’. Sono le piccole cose che a lungo andare ti stancano. Napoli è senza dubbio una città molto bella, ma è molto difficile viverci; è bella per i turisti, che vanno lì in vacanza e ci soggiornano per poco tempo, ma viverci è un’altra cosa. Soprattutto a causa di certi ambienti… Io e mia moglie eravamo abbastanza stanchi di quello che succedeva nella nostra città. A volte mi sentivo come un forzato. Non è che abbia avuto personalmente problemi con la malavita, però fastidi sì. Ogni tanto, per esempio, al ristorante dovevo chiudere gli occhi. Ogni tanto veniva una tavolata di gente, mangiava e se ne andava senza pagare. Io, quando entravano, glielo vedevo scritto in fronte che quelli non avrebbero chiesto il conto. Poi c’era chi passava a fare le ‘collette’ per le famiglie dei carcerati. E’ vero che lì io ero solo un dipendente, ma a chi è una persona corretta sono cose che danno fastidio. E’ come se un estraneo entrasse a casa tua e facesse da padrone. Ingoiavo e sopportavo”.
-       Ma non ha mai pensato di denunciare quella gente?
Sospira, alza gli occhi al cielo. “Certo, avrei potuto rincorrerli per strada, dir loro che si erano ‘dimenticati’ il conto, avrei potuto chiamare la polizia, ma poi, non neghiamolo, sarebbero successi altri problemi. Lasciavo perdere; pensavo: ‘vabbe’, in fondo hanno solo mangiato gratis’; era, diciamo, la soluzione migliore. Ma dentro scoppiavo di rabbia, mi veniva da dare i pugni al muro.  E’ una reazione normale, credo no?, a meno che uno non decida di entrare in quei giri… e non era certamente mia intenzione diventare amico di quella gente. Finché una mattina…”
 “Era la fine di febbraio del ’96. Mattina presto. Stava per fare l’alba e ovviamente ero a casa. Suona il telefono. ‘Chi sarà a quest’ora…’ dico a mia moglie. Era la cugina di un mio amico di Napoli, che telefonava dall’America. Aveva una pizzeria nel New Jersey. Senza troppi preamboli mi raccontò che voleva sviluppare questa pizzeria anche come ristorante italiano, perché qui la cucina italiana va molto, piace molto il nostro cibo, il nostro modo tradizionale di cucinarlo, olio di oliva, cucina pulita, genuina… E insomma, così come se niente fosse mi chiese se non avevo mai pensato di venire a lavorare qui in America”.
- Lei non era mai stato negli Stati Uniti?
“Ma figuriamoci…! Parlammo al telefono, mi spiegò un po’ i suoi progetti di sviluppo, il lavoro che avrei potuto fare, le condizioni economiche e finanziarie che si potevano ottenere qui con la mia professione: diciamo che mi ha un po’ aperto la mente di cosa era l’America”.
-       Quando lei posò il ricevitore, cosa ha  pensato? 
“Ho sospirato. Non so, è come se per me fosse stata una liberazione. Per la prima volta ho iniziato a pensare non all’indomani, al solito tran-tran,  ma al futuro. In pochi secondi mi sono venuti mille pensieri per la testa. Sì: ho pensato che forse avevo davanti un futuro migliore. Ho pensato di aver ricevuto, con quella telefonata, una possibilità di vivere il mio futuro, il futuro mio e di mia moglie, quel che restava della nostra vita, in modo diverso, in una dimensione diversa. Guardi, non ho pensato tanto ai soldi, alla possibilità di vivere in modo più agiato; subito ho pensato che avremmo potuto vivere in modo più calmo, che avremmo potuto avere una vita più tranquilla, insomma… più… più normale. Sono rimasto lì, in silenzio.  Pensavo, pensavo… L’America… Chi ci aveva mai pensato… Ne ho parlato immediatamente con mia moglie”.
“Che non mi disse di no, non mi chiese se ero diventato matto. Anzi, subito abbiamo vagliato varie possibilità, abbiamo pensato che magari inizialmente potevo partire prima io, per vedere come andavano le cose”.
-       Ma un momento di smarrimento, di confusione, di paura, non l’avete avuto?
“Be’, sì c’è stato… Ma mi ricordo che intanto ne abbiamo parlato quasi come se fosse stato un discorso che avevamo sempre fatto. Ci siamo chiesti ‘Che facciamo, continuiamo così o vogliamo vedere l’altra faccia della medaglia?’. In quei giorni, lo può immaginare, era il nostro pensiero fisso. Io andavo a lavorare e per strada ci pensavo,  in pizzeria facevo la pasta e ci pensavo, mettevo le pizze in forno e ci pensavo… Ci pensavo e cercavo di valutare i pro e i contro, i vantaggi e gli svantaggi. Ma in quel momento vedevo solo i vantaggi, vedevo il mio futuro tutto rosa. Pensavo, ‘Peggio di così mica potrà andare, no? Male che vada sarà sempre meglio…’. E allora ci siamo detti ‘Ok, siamo noi due, non abbiamo figli, siamo più liberi nel fare una scelta così difficile. Andiamo e vediamo’. Abbiamo proprio detto così: ‘Partiamo, stiamo per un certo periodo e poi vediamo’”.
-       Insomma, l’avete presa così, come se fosse una proposta normale, come se si trattasse di andare lavorare a Roma o a Milano…
“Sì, sembra strano ma è così”.
-       Ma con gli altri suoi famigliari non ne ha parlato?
“Sì, ma solo dopo che avevamo già deciso io e mia moglie. I miei fratelli non hanno avuto problemi: mi hanno detto ‘Se tu pensi che la cosa sia bene per te, vai’”.
-       Eravate mai stati all’estero?
“Guardi, non avevamo nemmeno il passaporto. Io ero stato in Germania tre mesi, a lavorare, e tornando già allora rimuginavo sulle differenze, sul modo di vita diverso, su quello che significava vivere in un Paese europeo e vivere invece a Napoli. Mia moglie invece era stata in Francia, da dei parenti, ma niente di più. Abbiamo subito fatto le pratiche per il passaporto”. 
-       Se lo ricorda il giorno in cui è partito?
Sorride, ci pensa un istante: “Era un 17, il 17 aprile '96, un mercoledì. Mia moglie portava con sé tutti i nostri risparmi; cinque milioni di lire”.
-       E quando ha chiuso la porta di casa?
“Mah, la porta dentro di me l’avevo chiusa già da un pezzo. Quello di quel giorno era solo un gesto. Giravo la chiave in una serratura e basta. Lo so, è strano dirlo, forse è brutto, ma non ho provato nessun dispiacere, nessun pentimento. Quel giorno le mie sensazioni erano tutte proiettate verso il futuro. Quello che avevamo davanti non poteva che essere meglio di ciò che avevamo avuto fino ad allora”.
-       Paure, dubbi, ansie?
“No, niente. Facemmo scalo a Roma, e anzi, le posso dire che quando arrivammo a Fiumicino già mi sentivo leggero, più giovane, respiravo a pieni polmoni e dentro mi sentivo come un senso di libertà. Mai in quelle ore, quando ormai eravamo in viaggio, durante il lungo volo per l’America, mai io e mia moglie ci siamo detti: ‘Madonna, cosa stiamo facendo, avremmo fatto bene o no…?’ Mai. Forse perché sapevamo di aver fatto una scelta giusta”.
“Poi siamo arrivati. Siamo atterrati a Newark. Siamo scesi dall’aereo e io e mia moglie ci guardavamo intorno smarriti. Non avevamo mai visto un aeroporto così grande, con tutti quegli aerei, con tutta quella gente che andava e veniva, con tutta quella gente diversa fra loro, con la loro pelle di colori diversi… Ci sentivamo come due persone perdute. Ecco, per la prima volta vivevamo direttamente la sensazione di sentirci estranei ad un mondo, veramente stranieri. Quando ci siamo trovati di fronte alla polizia di frontiera americana, per esempio… Quasi eravamo intimoriti. Noi non parlavamo una parola di inglese, e quello capiva pochissimo l’italiano. Mi ricordo che alla fine ci ha chiesto ‘Tourist?’ e io risposi solo ‘Yes, tourist.’. Abbiamo ritirato i bagagli e poi abbiamo trovato ad aspettarci le persone con le quali avrei lavorato”.
“Me lo ricordo come fosse oggi: avevano uno di quei macchinoni americani che non finiscono più. Ci avviammo così verso Sea Bright, il posto dove c’era la pizzeria, dove c’era la nostra nuova casa, e in quella mezz’oretta ci trovammo a passare attraverso varie zone periferiche, abbastanza orribili. C’erano ciminiere, capannoni bui, abitazioni fatiscenti. Noi eravamo sporchi del viaggio, stanchi morti, fuori era ormai sera, io mi guardavo intorno e vedendo quelle casette un po’ malconce mi dicevo: ‘Ma che cos’è qua, cosa abbiamo fatto, dove siamo finiti?’ Io mi aspettavo l’America già lì, fuori dall’aeroporto. Per consolarmi mi dicevo ‘Abbi pazienza, non sarà mica tutta così, l’America’. Guardavo mia moglie con la coda dell’occhio e capii che lei pensava le stesse cose”.
“Arrivati a casa di questi amici mi tranquillizzai. Era una bella casetta di italo-americani. Ecco, mi ricordo che mi colpì la loro casa, la classica bella casetta americana, di legno, a due piani, con un bel giardino, i fiori, tutte pulite quelle casette, una a fianco dell’altra, ognuna con il suo giardino, con le bandiere americane alla porta. Andai in cucina a bere e ricordo ancora adesso che rimasi sbalordito dal loro frigorifero, così grande, a due ante,  con l’acqua raffreddata e i cubetti di ghiaccio che uscivano da due sportellini. Poi, finalmente, la sera io e mia moglie restammo soli. Entrati in camera, chiudemmo la porta e non dicemmo una parola. Ci guardammo negli occhi e ci abbracciammo. Siamo stati così, stretti l’uno all’altro non so per quanto. Ci siamo solo detti ‘Forza, dai: qui staremo bene, vedrai’”.
“Per due settimane io e mia moglie siamo stati in relax facendo i turisti. Girammo un po’ il New Jersey e un giorno venimmo anche qui, a New York, perché i nostri amici volevano farci vedere a tutti i costi la famosa Piccola Italia, la Little Italy. Ecco, quel giorno io e mia moglie avemmo la stessa sensazione. Quel giorno, vedendo la Little Italy di New York tutti e due avemmo chiaro in testa quello che non volevamo: quel giorno rivedemmo quello che avevamo lasciato in Italia. E non ci stava bene. Io venendo in America volevo qualcosa di nuovo, di diverso. E’ strano: per loro è stato un piacere passare un giorno a Little Italy, ma per me e per mia moglie è stato come fare un salto indietro. Non è quella la mia America. Non ci sono più passato, da lì, dalla Piccola Italia. Non ne sento il bisogno. Ho voluto distaccarmi da un certo mondo e non voglio più rivederlo”.
“Poi è venuto il momento di iniziare il lavoro. Stava iniziando l’estate e il locale avrebbe aperto da lì a poco. Ci mettemmo d’accordo per lo stipendio: avrei preso 700 dollari la settimana, l’equivalente più o meno di 5 milioni di lire al mese. Preparammo un menù italiano adattandolo un po’ ai gusti americani e aprimmo”.
-       Se lo ricorda il primo piatto che ha cucinato qui in America?
Ride, fa sì con la testa: “Sì, erano spaghetti, spaghetti al pomodoro. Spiai i clienti per vedere la loro reazione e andò tutto a gonfie vele. Giorno dopo giorno vedevo che chi veniva a mangiare nel ristorante usciva soddisfatto: insomma, piaceva quello che cucinavo. Ogni tanto c’era qualcuno che voleva conoscermi per farmi i complimenti, ma io, per prima cosa, volevo sapere se era di origine italiana o no. Perché erano i giudizi degli americani ‘non italiani’ ad interessarmi, soprattutto. Allora cercavo di vincere la timidezza e uscivo, e questi giù a farmi le congratulazioni  in americano che non capivo niente. Ero un po’ in soggezione, e poi tutti quei complimenti mi stupivano: non mi era mai successo nulla di simile”.
“Tutto bene, dunque, fino a quando terminò la stagione estiva. A quel punto io e mia moglie iniziammo a non sentirci più a nostro agio. La gente ritornava nelle grandi città e a Sea Bright rimasero solo i suoi 1693 abitanti, come è scritto nel cartello stradale all’inizio della cittadina. L’ambiente iniziava a starmi stretto. Fu in quel periodo che cercai una persona di New York, il cui numero di telefono mi ero portato dall’Italia. Era un italo–americano amico di mio fratello. Io non lo conoscevo, ma quando mi sentì fu cordialissimo e invitò subito me e mia moglie a casa sua. Ci andammo il primo lunedì che venne, il lunedì era infatti il mio giorno libero. Rivedemmo così meglio New York e questa volta l’impatto fu folgorante. Già fuori dalla stazione, tutta quella gente per la strada che camminava… A noi pareva che corressero tutti, chi di qua, chi di là. Prendemmo un taxi e sembravamo due bambini davanti ad una vetrina di giocattoli: quasi ci venne  male al collo a stare sempre con il naso all’insù per guardare i grattacieli. Facevamo a gara per vedere quello più alto. Arrivati a casa di questa persona, ci presentammo e dieci minuti dopo ci disse ‘Ma perché non vi trasferite qui a New York? Vedrete, vi troverete bene, voi che arrivate da una grande città come Napoli’. Io in cuor mio avevo già deciso in taxi, ancora prima di parlargli. ‘Vedrai, non avrai difficoltà a trovare lavoro, qui, mi disse”.
“Aveva ragione, quel giorno stesso mi mise in contatto con un suo amico ristoratore che fra gli altri aveva un ristorante a Downtown, proprio tra le ‘Torri gemelle’ e ‘Wall Street’. Il lunedì successivo tornammo a New York per conoscerlo direttamente, e lo stesso giorno definimmo i termini del mio nuovo lavoro. Ci accordammo per uno stipendio di 800 dollari la settimana, per cinque giorni alla settimana. Vuol dire quasi sei milioni di lire al mese. Ci trasferimmo qui a New York alla fine di agosto. L’appartamento lo trovammo subito, tramite una agenzia. Risposi per un annuncio e scoprii che il mio padrone di casa era di origine italiana, un siciliano, si chiama Caiola. Quando andai nel suo ufficio sulla 63a lui mi squadrò dalla testa ai piedi. Stava seduto in quella stanzona tutta vetri, in una poltrona papale e mi disse: ‘Ma perché vuole regalare all’agenzia 1000 dollari per la mediazione… Io ho un altro appartamento in questo palazzo, al 4° piano, che non ho affidato all’agenzia…’ Lo andammo a vedere subito: in pratica era una bedroom, una grossa monocamera. Con mia moglie gli chiedemmo quanto voleva per l’affitto e lui ci disse 1300 dollari. Alla fine ci fece lo sconto di 50 dollari. Volle solo una mensilità d’anticipo. Non ci sembrava vero, a Napoli per un appartamento in affitto a volte bisogna dare anche 10 milioni a perdere…”.
“Comunque ero a New York, avevo una casa, avevo un lavoro… Arrivò presto il mio primo giorno. Rimasi esterrefatto  quando alla fine del pranzo venni chiamato a gran voce da tutta la sala: venni accolto con un applauso che non finiva più. Mi volevano stringere la mano. Ero impacciato, impietrito dall’emozione, avrei voluto scomparire. In fondo io ero solo un pizzaiolo, un cuoco napoletano”.
“Anche lì ebbi grandi soddisfazioni, ma io volevo esprimermi più liberamente in cucina. Il mio datore di lavoro era nel businness della ristorazione qui a New York e dunque voleva impormi lui come fare i piatti. Va bene adattarli ai gusti di qui, ma per me era una cucina troppo ‘imbastardita’. Comunque non potevo lamentarmi, pensavo sempre alla mia pizzeria di Napoli, a quello che passavo soltanto sei mesi prima. Ogni mattina però compravo America Oggi, il quotidiano italiano qui di New York e mi leggevo tutti gli annunci economici. Un giorno di novembre leggo un’inserzione in cui si cercava uno chef italiano per un ristorante che avrebbe aperto da lì ai mesi successivi. Telefonai, chiesi un colloquio e mi trovai di fronte un ragazzo poco più che trentenne che aveva già un coffe–shop qui a Manhattan”.
“Non parlava italiano e allora un suo dipendente ci fece da interprete. Mi strinse la mano e subito mi disse in inglese: ‘Chiamami pure Bred’. Disse che lui avrebbe aperto un vero e proprio ristorante–pizzeria sulla 20a, all’inizio del Village, e che aveva bisogno di un buon chef italiano che sapesse però fare anche la pizza, così come lui l’aveva mangiata a Napoli da Brandi o al Trianon. Mi raccontò che voleva fare un ristorante di classe ma con il forno a legna, ‘proprio come quelli di Napoli’ mi disse. Parlammo un po’ delle mie esperienze e delle reciproche esigenze: io subito dissi che sentivo innanzitutto il bisogno di esprimermi in cucina da italiano, volevo un menù italiano cucinato con prodotti italiani e genuini. Lui non fece obiezioni e ci salutammo. Il colloquio durò poco, fu abbastanza sbrigativo. Un po’ troppo, forse, e io rimasi un po’ perplesso. Qualche giorno dopo, però, me lo vidi arrivare in cucina nel ristorante dove lavoravo. Mi disse che era già venuto un’altra volta di nascosto, aveva ordinato un dentice all’acqua pazza e che era soddisfatto per come cucinavo”.
“Fu così che mi propose di fare una prova qui, nel suo ristorante ancora da finire, per cucinargli un po’ di piatti. La cucina funzionava già perfettamente e io quel lunedì di novembre gli feci un piatto di ‘penne all’arrabbiata’, un ‘rigatone alla siciliana’, con pomodoro fresco mozzarella e melanzane, e uno ‘spaghetto al pomodoro’: due o tre cose così, con quello che trovai quella mattina nel supermercato qui vicino. Lui guardava il piatto, lo annusava, assaggiava la pasta e masticava piano piano. E non diceva una parola. Un’altra forchettata, un altro assaggio e ancora silenzio. Quando si decise a parlare, anche quella volta non andò troppo per le lunghe: ‘Per me  non ci sono problemi, mi piace la tua cucina - mi disse -  puoi lavorare per me se vuoi, e sul menu stai tranquillo, ti do carta bianca’”.
-       Insomma, aveva trovato già un altro lavoro…
“Sì, anche se ci fu qualche problema per l’accordo economico. Si spaventò un po’ per la mia richiesta, anche perché, mi spiegò, non aveva idea di come avrebbe girato il locale. Gli proposi un compromesso: io avrei ridimensionato un po’ le mie richieste economiche in cambio della sua sponsorizzazione per la mia ‘Green card’. Poi, dopo un po’, avremmo rivisto il mio stipendio. Ci mettemmo d’accordo sulla cifra: 4500 dollari al mese, e a quel punto lui mi disse che potevo considerarmi ufficialmente lo chef del suo locale”.
-       Lei ora guadagna più o meno otto milioni di lire al mese: ma si rende conto che nel giro di 10 mesi ha più che raddoppiato il suo stipendio?
“Se è solo per questo io mi rendo conto che posso guadagnare anche di più. Io non guardo indietro, voglio guardare avanti”.
-       Vedo che ha assunto subito la mentalità americana…
“Non lo so, lei dice?”
-       E così arriva il giorno dell’inaugurazione di questo locale…
“Prima successe una cosa che non dimenticherò mai…”
-       Cioè?
Si ferma, i suoi occhi si chiudono, la sua voce trema. “Il giorno in cui hanno finito i lavori e gli operai hanno consegnato le chiavi a Bred,  lui si è girato verso di me e me ne ha dato una copia. Io rimasi di stucco. In Italia, forse, è una cosa che non sarebbe mai successa. Sì, è vero, lui fino ad allora mi aveva sempre detto di aver fiducia in me, ma quel gesto valeva più di mille parole. Il “businness” era suo, ma io capii che avevo veramente la sua completa fiducia e che avevo tutto sulle mie spalle”.
-       Il locale quando lo inauguraste?
“Era il 15 dicembre del ’96. Per noi fu una normale giornata di lavoro, perché in realtà il ristorante  girava già da qualche giorno. Lui aveva invitato spesso, nei giorni precedenti, suoi amici per far assaggiare loro i piatti, per avere pareri. Loro venivano volentieri e mangiavano, mangiavano, tanto era gratis! Ma non posso dire che il giorno dell’inaugurazione fu un giorno come un altro. Ero teso, sentivo il peso dell’enorme responsabilità. Ma quando vidi che la gente dopo la pizza, dopo un primo, ordinava anche il secondo, mi rilassai. Anche qui, sa, capita ogni giorno qualcuno che chieda di conoscere il cuoco. E’ una cosa che fa sempre piacere. L’altro giorno, poi, una signora seduta proprio a questo tavolo mi ha fermato e mi ha chiesto in inglese se ero io lo chef. Alla mia risposta positiva lei si mise ad applaudirmi, così, di fronte a tutti. Sono rimasto pietrificato dall’imbarazzo e dal piacere… Riceviamo anche telefonate di clienti che vogliono avere le ricette dei nostri piatti”.
-       E’ un lavoro che le dà soddisfazioni…
“Sì, ma è duro, durissimo. In America si guadagna, ma si lavora forte, sa? Attualmente ho libero solo il lunch della domenica. Per il resto lavoro sempre, dalle 10 del mattino alla sera tardi, anche fino a mezzanotte, sette giorni su sette”.
-       Ferie?
“Niente, per ora. Da quando sono in America niente ferie”.
-       Ma non è curioso di conoscerla, questa America, di girarla un po’?
“Sì, certo, ma per ora non c’è il tempo. Mi è stato detto che la provincia americana è molto diversa da New York, dove la gente che incroci neanche ti degna di uno sguardo; ma finché non trovo qualcuno che possa far andare avanti la cucina quando io non ci sono, io da qui non posso allontanarmi nemmeno mezza giornata. Ora ho un ragazzo che sta facendo un po’ di rodaggio… ma è ancora presto perché mi sostituisca”.
“No, un paio di giorni di vacanza li ho fatti, per la verità. E’ successo dopo alcuni mesi dall’apertura: il locale doveva chiudere due giorni per lavori, e poi c’erano delle feste di mezzo. Così Bred mi si presentò davanti con due biglietti aerei per Miami Beach e con un buono per un albergo… Ma devo dire che ho passato più tempo in albergo a riposarmi, che in giro a vedere Miami”.
-       E’ più tornato in Italia?
“No, sono due anni e mezzo che manco. Io ora devo aspettare la ‘Green card’. Mia moglie invece è tornata ogni tre mesi, visto che per ora lei ha il visto turistico…”
-       E che cosa le dice sua moglie dell’Italia?
“Le prime volte non vedeva l’ora di andarci, in Italia, era piena di nostalgia, con la voglia di vedere i parenti, gli amici. Man mano, però anche le sue sensazioni sono cambiate. Ora è stanca di andare avanti e indietro. Sono due volte che mi dice ‘Là non cambia niente, è sempre tutto uguale, o peggio… Quel nostro amico è in difficoltà, l’altro campa sempre al limite…’”
-       E lei, invece, nostalgia non la sente?
“No, nessuna. Provi un po’ lei a riflettere sul perché… Vede, qui è tutto diverso da quello che ho lasciato. Non parlo tanto del fattore finanziario; io parlo della vita, della… (come si dice?), della qualità della vita. Io qui non conoscerò il mio vicino di casa, ma qui mi sento libero, libero di fare quello che voglio senza essere giudicato, senza che nessuno mi dia fastidio. Io qui ho trovato quello che volevo. E cosa è che volevo di tanto strano? Volevo lavorare in grazia di Dio e vivere la mia vita normalmente, in grazia di Dio, senza avere fastidi da altre persone. Io qui sto così. Sto bene. E’ una vita normale. E’ quella che volevo. Lavoro, sono contento del mio lavoro, torno a casa finalmente tranquillo, ho una moglie che anche lei finalmente è tranquilla. Quando riesco a tornare presto a casa ceniamo insieme, guardiamo la Tv o ci facciamo una passeggiata guardando i grattacieli, andiamo a letto e la mattina torno al lavoro. E ho un padrone che mi paga per il mio lavoro, guadagno quello che mi merito lavorando sodo e riesco a mettere un po’ di soldi da parte. Una vita tranquilla, una vita normale. La domenica mattina andiamo al Central Park, oppure mia moglie mi porta a vedere questi Mall, ’sti grandi magazzini che in Italia manco si immaginano… Speriamo che le cose là si possano mettere a posto.  Perché il nostro è un bel Paese, ed è un peccato che vada avanti così. Però…”
-       Però?
“Però non è facile vivere una vita tranquilla, normale, in Italia”.
-       Senta, Salvatore, lei conosce la canzone che sta trasmettendo ora la radio?
“No, chi la canta?”
-          E’ una canzone di Bruce Springsteen e si intitola “Born to run”, che vuol dire “Nato per correre”. Mi sembra che questa sia una colonna sonora perfetta, per lei. La sua sì che è stata una corsa, e che corsa! A febbraio del ’96 fa il pizzaiolo a Napoli; riceve una offerta di lavoro in America e ad aprile si trasferisce nel New Jersey. Sta lì fino ad agosto, fino a quando, cioè, trova un altro lavoro questa volta nel cuore del quartiere finanziario di New York; trova casa rispondendo ad un annuncio. Insoddisfatto del lavoro risponde ad un’altra inserzione e così a novembre ne trova un altro. Se lei non è nato per correre…
“Guardi, per una vita migliore io corro e correrei ancora, anche perché deve tenere conto che non ho vent’anni, non ne ho nemmeno 30; ne ho 49 quindi devo fare in fretta. Quando uno inizia una nuova vita a 47 anni deve correre forte. So che non ho tanto tempo davanti per fare nuove cose. Corro, certo, ma per raggiungere l’obiettivo della sicurezza, della serenità. Qual è il mio obiettivo finale? Il sogno di tutti i dipendenti: aprire qualcosa di mio, una piccola pizzeria, un ristorantino”.
-       Lei ha trovato l’America, venendo qui in America…
“Forse sì. Rispetto a quello che avevo, certamente”.
-       Nessun problema, qui?
“Solo uno: st’inglese, che non mi riesce a far entrare ’n ta capa. E’ vero che sto sempre in cucina, però…”.
-       Ha mai pensato di tornare indietro?
“No, mai! Ma che, scherza? Quando gli italo–americani mi chiedono ‘Allora? Che ne pensi dell’America, ti piace?’ Io rispondo, cacchio, se mi piace! Potevate dirmelo 20 anni fa che era così… Mia moglie, per esempio, ridendo dice: ‘Il nostro prossimo appartamento sarà sulla Madison, vedrai… Altro che Little Italy’. Sembra lo dica per scherzo, ma so che dentro, lei, lo pensa sul serio. E inizio a crederlo anch’io”.
Arrivano i primi clienti del giorno, e lui va in cucina a preparare l’acqua di “Mummara”. E’ l’acqua di Napoli, dal retrogusto vagamente ferroso, che sgorga da una sorgente vicino a Piedigrotta e con la quale una volta gli acquaioli ambulanti facevano limonate fresche e granite. Alle sue pizze, fatte con ingredienti rigorosamente italiani, mancava solo una cosa: l’acqua di Napoli, appunto. Tutti i napoletani dicono che il segreto della pizza di Napoli è nell’acqua? Anche Salvatore Esposito ne è convinto, e così, come un alchimista medioevale, appena arrivato nel suo nuovo locale è stato settimane a miscelare acque minerali italiane per tentare di crearne una con il sapore il più possibile simile a quello che usciva dai rubinetti del suo quartiere. E’ il suo segreto: mezza bottiglia di una acqua minerale italiana gassata e mezza di un’acqua naturale di un’altra marca, sempre italiana. Ed ecco la sua “Acqua di Mummara” pronta per l’impasto. 
-       Senta, Salvatore, pensa che tornerà mai a vivere in Italia?
“Sì, credo di sì… non so… Un giorno… forse. Intanto per tornare indietro dovrebbero offrirmi uno stipendio adeguato e soprattutto una vita normale, una vita migliore. Il che per ora mi sembra impossibile. Ma se torneremo, e lo dico con il cuore che mi piange, non torneremo a vivere a Napoli. Lì è troppo difficile, non ce la si fa. La sento un po’ ingrata l’Italia, Napoli… Non ci hanno voluto, non hanno fatto nulla per trattenerci, anzi, sembra che abbiano fatto di tutto per allontanarci. Tornare? Non so, sento di avere ancora tante cose da fare”.
“Forse ha ragione quel cantante di prima. Come diceva? ‘Nato per correre’? Già… evidentemente anche io sono nato per correre”.


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