PERSONE CHE HANNO LETTO O CURIOSATO

martedì 31 gennaio 2012

Perché ci si lascia il cuore...

Questa è un'altra di quelle domande alle quali non so rispondere...
Dipende poi, certo, da quanti anni si hanno.
Dipende poi, certo, da quello che si fa in Italia e da come ci si vive, da come ci si sta...


Ma non ho mai saputo spiegare bene perché ci si lascia il cuore a New York, perché quando si torna dagli Usa spesso non si è più gli stessi.
Me lo chiedevo, senza dare e darmi alcuna risposta, nell'ultimo lacerante intervento che scrissi prima di lasciarla per l'ennesima volta (http://dariocelli.blogspot.com/2011/12/28-su-una-new-york-autunnale-su-don.html).
E non so ancora darvi una risposta...


A chi non è mai stato là mi permetto di consigliare di rileggere quelle mie righe, e dopo di guardare il breve film qui sotto.
Forse sembreranno immagini un po' "da cartolina", ma sono vere, reali. 
Fotografate da Francesca D'Urbano che a New York è stata per uno stage, proprio l'anno scorso in questo periodo, "Only 90 days", "Solo 90 giorni". 
Ma la cui vita - come lei stessa mi ha raccontato - dopo quei novanta fottutissimi giorni, è rimasta segnata.





lunedì 30 gennaio 2012

New York, gli Stati Uniti, sono anche questo...

L'appuntamento con il "West Indian-American Day Carnival" (la festa dell'orgoglio afro-caraibico-sudamericano) è uno dei più attesi dell'estate.
Si svolge ogni anno a Brooklyn in occasione del "Labor Day", la Festa del Lavoro, che negli Usa non cade il 1° maggio ma il primo lunedì del mese di settembre (così si fa "ponte"!).

Nata nel 1920 ad Harlem, il fulcro della festa è un'immensa parata che dura dal mattino alla sera, con centinaia di carri, migliaia di persone che sfilano più o meno in costume, e milioni di persone che assistono a quello che è davvero "uno spettacolo" in tutti i sensi.

Che sarebbe stata una bolgia infernale (con un costante profumo di cibo che veniva cotto/fritto/braciolato lungo le strade) e che i timpani sarebbero stati messi a dura prova, mi era stato preannunciato: ma che mi sarei trovato in mezzo a qualcosa come 3 milioni e mezzo di persone, davvero questo non l'avrei mai immaginato.

Della sfilata con le centinaia di carri dei newyorkesi dei Caraibi, del Centro e del sud America, dell'Africa nera, io ne ho ripreso solo un frammento, qualche minuto, che vedrete fra qualche riga; ma non per questo meno (come dire...) antropologicamente "interessante".
Vi prego di notare i poliziotti che seguono questo spezzone di corteo e quel gigante afroamericano. 


Mi verrebbe quasi da dire che i veri protagonisti della giornata, a parte la musica e i costumi, sono i "glutei" (di ogni tipo e dimensione...) e gli "ammiccamenti" sessuali.

Oddio, nemmeno poi tanto "ammiccanti", come possiamo vedere in questa "galleria" montata ad hoc da una casa di produzione di ny...
:-)

Già: New York, gli Stati Uniti, sono anche questo...

© dario celli

sabato 28 gennaio 2012

On the road...

"Sal, dobbiamo andare e non fermarci più finché non arriviamo..."
...

E poi c'è la strada.
La strada, e gli Stati Uniti: due elementi indissolubili.
 
Sì, lo so: direte che anche in Italia, in Europa, questo lo è. Ma davvero le strade, in America, sono servite per "unire", per "superare", per "raggiungere"..
Un po' come ai tempi degli antichi romani, quando partendo da Roma si poteva arrivare fino in Gallia. E poi ancora più in su, in Britannia.

Io credo che, fra le tante ragioni, quell'irrazionale sensazione di libertà che si sente quando si è negli Stati Uniti, sia provocata anche dagli "spazi americani". Difficili da descrivere. 
E anche dalle sue Highway (le autostrade), dalle sue Interstate (le autostrade che attraversano i vari Stati americani) e dalle sue semplici ma spesso molto affascinanti State Road, le strade di ogni singolo Stato.
 
Quando mi si chiede "come sono gli Stati Uniti?" , io prima di tutto suggerisco di pensare ad una cartina d'Europa "gommosa", e di immaginare di tirarla, prima verticalmente e poi orizzontalmente, in modo che tutto ciò che è dentro l'Europa - le pianure, le montagne, le vallate, i laghi, i fiumi e le strade - si ingrandisca, si allarghi, si allunghi.

Tutto, fiumi compresi.
Può sembrare incredibile, ma quello che vedete qui sopra è ciò ho fotografato ad una mezz'oretta dai grattaceli di Manhattan e da Central Park; grattacieli che si vedono ancora, lontano, di sfondo. 

Si tratta del fiume Hudson, che qualche chilometro più a sud lambirà New York, prima di gettarsi nell'Oceano Atlantico: appare gigantesco, enorme. Anzi, lo è: basta osservare quanto minuscole sono, rispetto ad esso, le due imbarcazioni che in quel momento vi navigavano.

Chi non c'è mai stato, può forse immaginare in questo modo, gli "spazi americani": attraversati da strade grandi, larghe, lunghissime, a volte dritte come un fuso per centinaia di chilometri. 
Come quelle che abbiamo visto in decine di film.
Come questa, fotografata da me non molto lontano da New York.


Difficile raccontare con le parole cosa si prova quando si viaggia nelle sconfinate strade americane;
difficile descrivere "quegli spazi" e la diversa concezione che qui c'è dello "spazio", e ciò che si prova di fronte, in mezzo, ad esso. 

Sono sensazioni regalate dal cielo, che appare immenso, ma anche dalla terra. 
E da quanti ci abitano. 

Per capirlo, aiuta forse a sapere che se in Italia la densità abitativa è in media di 189 persone ogni chilometro quadrato.
Ecco, 
negli Stati Uniti nello stesso spazio ci vivono invece mediamente 23 persone. 


In Arizona, otto

In Wyoming, due...

Colorado
U.S. Route 285
Una sensazione che cresce sempre più mano a mano che ci si sposta da est ad ovest: basta guardare ancora una volta la cartina di sopra. Partendo dalla costa Atlantica, più si va verso il "west", più le città, i centri abitati, le strade si diradano. Perché i pionieri che arrivavano dall'Europa ad un certo punto si fermavano, lasciando però ancora spazio davanti a loro. 

Lo spazio... Una sensazione ben descritta già nel 1881 dal grande poeta americano Walt Whitman, nella sua "Song of open road", la "Ballata della strada aperta":
"Inalo grandi sorsate di spazio.
L'est e l'ovest sono miei, e il nord e il sud sono miei".

Ma se davvero volete "inalare grandi sorsate di spazio", prima di tutto chi si mette al volante negli Stati Uniti deve dimenticare la "guida all'italiana". Dunque se per caso avete il piede nervoso, rassegnatevi e datevi una calmata: sulle strade americane impera un’altra filosofia, e la nostra guida nevrotica - fatta di sorpassi, riprese, frenate, scalate di marcia, improvvise accelerazioni, freccia a sinistra e freccia a destra, ripetuto uso di abbaglianti, clacson unitamente ad imprecazioni varie - dimenticatela. 
Le strade, qui, sono grandi, e la fretta, su queste strade, non esiste.


"Sal, dobbiamo andare e non fermarci più finché non arriviamo..."
- Per andare dove, amico?
...

Hackberry, Arizona
Route 66

Come ho già scritto, la prima cosa che sbalordisce l'italiano alla guida sulle strade americane è che tutti osservano alla lettera la segnaletica stradale.
Il massimo della trasgressione dell'americano medio è superare di cinque miglia all'ora il limite.

Chi guida, attiva il "cruise control", lo fissa circa cinque miglia in più del limite e va tranquillo, mantenendo così costante la velocità anche per ore, grazie a questo marchingegno presente ormai nei modelli d'auto più recenti anche in Italia, ma difficile da utilizzare, viste le nostre strade. 

In America, è più semplice: strada dritta e via, si schiaccia il tastino di memorizzazione e così oltre alla gamba sinistra (che già non si utilizza visto che tutte le auto americane sono dotate di cambio automatico) si mette fuori uso anche la gamba destra, quella addetta all'acceleratore.

Visto che tutti vanno costantemente ed esattamente alla stessa velocità, si ha quasi l'impressione di star fermi pur viaggiando. Quasi come se noi e i nostri compagni di strada fossimo su un enorme tapis roulant: in movimento, ma immobili. I nostri reciproci, periodici e lenti sorpassi li faremo (e li subiremo) giusto per avere e dare la conferma che appunto tutti stiamo viaggiando.

(Questa proprio non mi ricordo dove l'ho fatta...)

A quella velocità, e con le enormi strade quasi sempre deserte, con una visibilità impensabile in Italia e con il vostro controllore di velocità fissato a 65 miglia, la guida diventa vero relax e si ricorderà con un leggero sorriso i soliti scemi che in Italia ci si incollano dietro lampeggiando i loro fari, o lo stress del continuo scalare e andar giù di frizione sulle curve a gomito delle nostre strette statali di montagna.
Arizona
Navajo Nation
Us Highway 160















Può sembrare incredibile, ma fino al dopoguerra la dotazione stradale degli Usa era a dir poco assai scarsa: basta pensare che fino agli anni '20 non c'era nessuna strada che da sola attraversasse tutti gli Stati Uniti, collegando l'est e l'ovest del Paese. I tempi per la nascita delle prime strade decenti e moderne (per l'epoca) maturarono solo nel 1925, quando il Congresso americano decise che era venuto il momento di "dotare il Paese di un sistema stradale razionale e moderno".

Fu in quegli anni che iniziò la costruzione della prima strada che avrebbe congiunto finalmente la sponda atlantica (anche se sarebbe partita da Chicago) con quella del Pacifico degli Stati Uniti.
Il suo nome, anzi, il suo numero, sarebbe stato "66"Esatto: sto parlando della mitica "Route 66", della quale prima o poi vi racconterò... 

Negli anni '20-'30 il territorio americano diventò dunque un brulicare di cantieri dove si costruivano strade "carrozzabili" asfaltate per collegare fra loro città e paesi. Erano strade che andavano tutte "da est a ovest" (quelle dal numero pari) e da "nord a sud" (quelle dal numero dispari). C'era sempre una strada principale che attraversava ogni centro abitato, la "Main street", appunto; e che sempre andava "da est a ovest". 
Era la strada "di passaggio", la strada principale attorno alla quale nascevano saloon, posti di ristoro, alberghetti prima e motel dopo, indispensabili per far riposare coloro che erano in strada da ore o da giorni...

L'altra grande svolta per le strade americane avvenne dopo la Seconda guerra mondiale, quando l'allora Presidente americano Dwigt David Eisenhower (che aveva comandato le forze alleate in Europa) tornò negli Usa dopo aver vinto la guerra. In Germania, raccontò, aveva provato ammirazione per le grandi autostrade costruite durante il nazismo. 
Eletto Presidente degli Usa, Eisenhower ritenne strategicamente indispensabile per gli Stati Uniti il varo del "National System of Interstate and Highways Defense", la "Rete nazionale di difesa autostradale interstatale" che aveva "l'obiettivo di collegare tutte le città americane con più di 50 mila abitanti da grandi e comode 'super strade' adatte a eventuali grandi evacuazioni" (per affrontare la tanto temuta invasione dell'Orso Russo), ma anche utile per veloci spostamenti di truppe terrestri o addirittura per permettere l'atterraggio e il decollo di aerei.

In pochi anni, così, negli Stati Uniti vennero costruite ben 41mila miglia di autostrade, a grandi carreggiate, che però tagliavano fuori i piccoli centri abitati e la loro vita. 
41 mila miglia: cioè quasi 66 mila chilometri di nuove strade!

Sono le meravigliose e tranquille Highway, che quando collegano differenti Stati prendono il nome di Interstate. 

Anche se ora si può tranquillamente viaggiare con il navigatore satellitare, non c'è nazione più facile da vedere in macchina senza la "paura" di perdersi. 
Basta avere un normale atlante stradale, ed ecco che si ha una bella veduta d'insieme indispensabile per poter fare eventuali deviazioni suggerite magari dal semplice nome di qualche località nelle vicinanze.
Come quando due anni fa diressi l'auto verso un paesino solo per l'"ispirazione" che ebbi dal suo nome letto sulla cartina: "Sugar Loaf", "Pan di zucchero".
Sembra o no finto, il suo ufficio postale? 



Era un normalissimo, ma delizioso, paesino della provincia americana, Sugar Loaf, fondato - come si legge nel cartello che abbiamo incontrato al suo ingresso - nel 1749, formato dalle tipiche villette monofamiliari americane con giardino.
Basta poi seguire la Main Street fino all'uscita del centro abitato, per incrociare cartelli che indicano con chiarezza la direzione che si deve prendere per arrivare a destinazione.

Al posto di segnalare il nome di una città, a meno che non siate in prossimità di questa, più spesso i cartelli stradali americani indicano "la direzione geografica" con il numero della strada che c'è nelle vicinanze. 

Tutto semplificato dal fatto che, negli Stati Uniti, le strade "pari" sono "orizzontali" (vanno cioè da est a ovest e viceversa), mentre quelle dispari sono "verticali" (vanno cioè da nord a sud).

I cartelli con lo scudo blu e striscia rossa superiore indicano una "Interstate", le autostrade a più corsie che "aggirano" le cittadine; quelli bianchi, invece, le statali che attraversano i centri abitati. Strade che poi ritornano ad essere comode vie a più corsie per carreggiata. 
Altra nota positiva, e che favorisce non poco risparmio: negli Usa le autostrade a pagamento sono rarissime e comunque la loro tariffa è davvero economica, roba di pochi dollari. Più facile, invece, incontrare (con stupore, per noi italiani) i ponti "a pedaggio"...

Dopo un certo numero di chilometri, tutte le Interstate hanno uscite ampiamente segnalate, dove si possono trovare distributori di benzina, ristoranti aperti 24 ore (con la "M" di Mac Donald's che svetta) e motel per riposarsi.
E ripartire.

E' però prendendo una strada statale che si può vivere l'atmosfera autentica della grande provincia americana, dove (ve ne accorgerete facendo una passeggiata a piedi lungo la Main st) la gente saluta con un sorriso e un cenno lo "straniero" che passa.
 
Certo, se da una parte sulle strade americane si viaggia senza stress, un po' di impazienza viene provocata dai limiti di velocità, ai nostri occhi francamente un po' assurdi.
 
Se vi sembrano pochi le 65 miglia all'ora di limite delle autostrade (si tratta, in effetti, di 104 km all'ora! e non mi è mai capitato di percorrere strade il cui limite è di 70 miglia o addirittura di 75 miglia all'ora, che pare pur esistano), che dire allora dei limiti ancora più bassi, come quelli di 50 mph, che significano meno di 80 km all'ora?

E si tratta di limiti imposti al di fuori dei centri abitati: perché nelle cittadine americane questo si abbassa anche a 25 miglia all'ora (40 km all'ora) o 20 (32 km all'ora).

Limiti che, nei pressi di una scuola e all'orario di entrata e uscita (segnalato magari dal semaforo giallo intermittente acceso) possono scendere ancora di più, rasentando, davvero il "passo d'uomo".
(Con il giallo lampeggiante
velocità massima 15 miglia all'ora, 24 km ora)
Fatta la "processione" e attraversato il nostro bel paesino (rispettando rigidamente, ripeto, i limiti, perché negli Usa non c'è via di scampo e le multe - con conseguente convocazione dal locale giudice - fioccano), normalmente all'inizio e alla fine della Main St troveremo anche qui catene di ristoranti dove mangiare e motel dove dormire, nel caso in cui non si sia trovato nulla di più caratteristico, nel frattempo. 
 
Motel familiari - con insegne ancora fantasiose, come negli anni '50 - o aderenti a catene internazionali.
Comunque adatti a tutte le tasche...
 
Usciti dai piccoli centri, ecco che si ripresentano i cartelli che indicano le strade per andare lontano: verso ovest, verso il Pacifico, o verso l'est, in direzione Atlantico.
Oppure verso il sud, dove c'è il Messico o verso il nord, direzione Canada.

Beh, certo che questo che ho trovato in rete, a prima vista appare davvero un pochettino complicato...
      
 
Strani incontri si fanno sulle strade americane.
Davvero non è raro, per esempio, in Pennsylvania incontrare cartelli come questo:
Perché infatti non è raro, da queste parti, dover pazientemente incolonnarsi dietro all'unico mezzo di trasporto che gli americani di religione Amish si consentono... 

Sì: così come è affascinante percorrere per ore con la radio accesa le grandi Interstate americane diretti chissà dove, altrettanto lo è passare attraverso i centri abitati fatti di villette...
... di fronte ad una delle quali magari qualcuno ha allestito il suo "garage sale", la vendita di mobili o oggetti sgomberati dal solaio o dal garage di casa e dei quali ci si vuole liberare (guadagnandoci su anche qualcosa...).


Poi verrà l'ora di riprendere la più vicina Interstate, accendere la radio, fissare la velocità 5 miglia sopra il limite, per farci portare chissà dove.

Ma certamente ancora più lontano...


"Sal, dobbiamo andare e non fermarci più finché non arriviamo..."
- Per andare dove, amico?
"Non lo so, ma dobbiamo andare..."
(Jack Karouac, On the road).



 
© dario celli. Tutti di diritti sono riservati

venerdì 27 gennaio 2012

Tremila grazie!

La cosa un po' mi inorgoglisce e un po' mi imbarazza: in queste ore il mio blog - in due mesi, da quando ha cambiato "casa" arrivando qui su Blogspot - ha superato i tremila contatti.
(E non fate i maligni, i miei ingressi sono esclusi dal conteggio!) 
:-)


Volevo ringraziarvi. Ringraziare tutti voi.
Tutti voi che leggete con regolarità, o quasi, queste righe.
Ringraziare voi che mi spingete quotidianamente a scrivere, che mi date suggerimenti, che pubblicizzate queste pagine (continuate pure a pubblicizzarle! Non mi offendo!).


Sono solo racconti, questi.
Cose che ho visto e che de/scrivo, "divertendomi" a scrivere.


Così come mi diverte (e stupisce) che Aria Fritta abbia lettori addirittura in tutto il mondo.


Permettetemi di ringraziare, allora, intanto quelli più lontani: quelli che sono capitati qui dall'Australia, dalla Cina, dalla Thailandia, dall'India, dall'Argentina, dal Brasile...


Poi i più vicini, quelli dalla Russia, dall'Ucraina, dalla Spagna, dalla Germania, dalla Gran Bretagna, dalla Francia.
E poi, ovviamente, gli "amici" americani...
Siete, voi che abitate negli Usa, che "temo" di più.


Infine i vicinissimi: le centinaia (!) di lettori italiani che leggono ogni giorno queste righe per curiosità, per sapere e magari qualcuno anche solo per sognare.
Nella speranza che il vostro sognare vi aiuti poi a "programmare"...


Alcuni di voi li conosco, ma la maggior parte dei lettori sono a me sconosciuti.
E confesso che questo fatto mi emoziona un po'.


A tutti dico di perdonare gli eventuali errori di grammatica che "scappano": sentitevi pure tutti liberi di commentare (c'è un apposito spazio sotto ogni intervento!), e di chiedere, e di "bombardare il quartier generale"
Per me, i vostri giudizi, le vostre opinioni, i vostri suggerimenti, sono importantissimi.


Voi siete la ragione del mio scrivere.
Grazie.




P.S.: E se qualcuno ha voglia di raccontarmi la "sua storia americana" (ma non solo...) mi scriva.

giovedì 26 gennaio 2012

"Domani me ne vado. Mi trasferisco in America"

Giordano ha 27 anni.
Giordano, domani, parte. 
Lascia l'Italia.


Giordano, domani, si trasferisce negli Stati Uniti.


Geometra ("Ho fatto una fatica per diventarlo...") Giordano abita vicino a Varese. 
Anche se abita in Lombardia, la sua è una famiglia di emigrati: la madre siciliana, il padre napoletano. E come quasi tutte le famiglie meridionali, Giordano ha parenti emigrati all'estero. E come molte famiglie meridionali, uno dei suoi zii da alcuni decenni vive negli Stati Uniti.


Parlare oggi con Giordano, significa parlare con una persona, un giovane, pieno di sensazioni in conflitto fra loro: euforia, paura, entusiasmo, preoccupazione, incertezza.
E rabbia.


Quando mi racconta la sua storia, quasi non sa da dove iniziare. 
Capisco che la sua è la storia di un giovane italiano qualunque: la scuola, poi tanti piccoli lavori, tanta precarietà, qualche concorso, tanti curricula inviati. Nessuna risposta, o quasi.
Ha iniziato presto, a lavorare, lui: andava ancora all'istituto tecnico per geometri. Al mattino, scuola; al pomeriggio lavoro.
Poi poco per volta il lavoro chiese spazio alla scuola: e allora per agguantare il tanto agognato diploma, Giordano si iscrisse alle scuole serali.
Già: in Italia esistono ancora le scuole serali...


Ha fatto di tutto, Giordano, in questi anni.
"Di tutto: il manovale edile, l'addetto alle pulizie, il geometra in una agenzia immobiliare. Ho fatto anche il vigile del fuoco, la guardia giurata e il militare in Marina. Ho anche avuto un piccolo negozio e per un certo periodo ho vivacchiato facendo creazioni artistiche artigianali.
Ma niente.
Erano tutti lavori provvisori, a termine, precari.
Ho inviato il mio curriculum dovunque pensassi di poter essere utile: ma anche qui, niente...".
L'ultimo qualche mese fa: "Sì, e poi o deciso di fermarmi: l'ho inviato ad una azienda di raccolta  smaltimento rifiuti che cercava geometri. Ma anche qui, niente. Nemmeno mi hanno risposto, quelli".


Come quasi tutti i giovani, dopo il diploma Giordano ha fatto anche il suo bel concorso pubblico: "Superato con il punteggio di 90/100. Ma questi ci hanno messi nel dimenticatoio...".


Giordano è arrabbiato.
E' arrabbiato come lo può essere un qualunque ragazzo che a 27 anni non capisce quale possa essere la sua strada. Anche perché le vede tutte sbarrate, lui, le sue strade.
"Me ne vado perché sono arcistufo, guarda. Non ce la faccio più. Io voglio vivere. Vivere una vita normale. Soprattutto una vita normale con uno straccio di futuro", mi dice.


In verità, una fortuna, lui, ce l'ha: ha uno zio negli Stati Uniti, in New Jersey, che partito dall'Italia come tutti gli italiani "in braghe di tela", ora ha una piccola azienda.
"Sì, l'ho sentito: mi ha detto 'vieni e vedremo. Se hai voglia di metterti in gioco e di farti il culo ce la farai, qui'".


Racconta che ci è già stato, negli Usa: "Sì, due volte, un mesetto ogni volta. E sùbito mi sono accorto che lì è davvero un altro mondo..."
E quando gli dico che anche lì non è che se la passino molto bene mi risponde di getto: "A parte che da un anno e mezzo le cose iniziano ad andare meglio, non è certo una crisi come quella italiana. Ma tu ci sei mai stato in America??".


Sorrido, lo lascio sfogare: "Guarda: quello è un altro Paese. Se le cose vanno male, là sanno come rialzarsi. E' come se te lo insegnassero fin da bambino. Qui in Italia, invece, le cose non cambiano mai. Io credo che le cose qui in Italia non cambieranno mai... Io, qui, mi sento stretto, mi sento rinchiuso in una scatola, senza possibilità di esprimermi. Da bravo artista là mi inventerò qualcosa: magari riuscirò a farmi assumere da qualche parte".


Una decisione, la sua, maturata poco per volta: durante le telefonate che la sua famiglia fa per le feste con lo zio in America, ogni volta che prende atto che nessuno nemmeno risponde all'invio del suo curriculum, ogni volta che parla dell'argomento "lavoro" con gli amici, ognuna delle due volte che è stato negli Stati Uniti, ogni volta che suo zio è venuto in Italia, ogni volta che ha letto di ragazzi che se ne vanno dall'Italia, ogni volta che parla di "futuro" con la sua ragazza.
Già, la sua ragazza, Sara... Gli chiedo come l'ha presa e cosa gli ha detto della decisione.
"Mi vuole un gran bene, lei. Sa che saremo lontani, ma mi ha sempre spinto a seguire i sogni. E poi, i miei sogni sono anche i suoi, ora. Sappiamo che ci vedremo fra qualche mese, quando lei verrà in America a trovarmi".


Faccio "l'avvocato del diavolo" e gli chiedo come pensa di fare come il "visto"... Mi interrompe, raccontandomi che è stato fortunato. Forse è proprio vero che "la fortuna aiuta gli audaci".
"Già: ho fatto domanda per avere il 'B1-B2' (il visto che permette di stare per sei mesi negli Usa per "turismo o per affari", NdA), ho raccolto tutta la documentazione che era prescritta, che poi per quanto riguardava me consisteva sostanzialmente soltanto nella documentazione finanziaria della mia famiglia (certificato di proprietà della casa ed estratto conto del conto di suo padre, NdA) visto che sono disoccupato".
Salto sulla sedia: "Ma no che non ho detto che sono senza lavoro! Ho detto che andavo a trovare mio zio! Insomma, faccio la domanda on-line, così come previsto, e quelli mi fissano a cinque giorni dopo l'appuntamento per il colloquio con il console. Cinque giorni! Capisci?!?! Ho fatto la foto, tutti i documenti che richiedevano, ho pagato i 112 €uro della tassa consolare, e quella mattina mi sono messo in coda nel gelo milanese (e chiedo scusa, a Sara che mi ha accompagnato...) e poi mi hanno fatto entrare.
Guarda, già là dentro sembrava un altro mondo...".


Già, lo ricordo benissimo quel momento, quando anch'io chiesi il visto: tutto pulito, tutto moderno, televisori alle pareti che mandavano in diretta la Cnn, gli interruttori (e persino le maniglie delle porte) "americani", la cortesia delle impiegate e quella del console.
"Qualche domanda cortese sulla mia famiglia, sulla casa di proprietà, e mentre io me la facevo sotto mi ha sorriso e mi ha detto di passare a prendere il passaporto con il visto stampato.
Così me ne posso stare negli Usa per sei mesi, con la possibilità di estenderlo per altri sei. E mentre ero lì vedevo persone alle quali la domanda di visto era stata respinta per vari motivi: perché la documentazione non era regolare, o perché non completa...
Quando sono uscito, dopo aver conquistato il visto, mi sembrava di aver conquistato l'America".
In questi ultimo mese ha fatto "ripasso" più volte la settimana con alcuni suoi amici madrelingua americani, Giordano, per "rafforzare" il suo inglese. 


E ha venduto tutto quello che aveva di suo: "Guarda, sinceramente avevo poco... E poi non volevo pesare sui miei: mio padre fa fatica a pagare il mutuo, figuriamoci! Come potevo chiedere soldi a loro? Il computer l'ho venduto per ricavare i soldi del biglietto; poi ho venduto un po' di cose che avevo nella mia camera... Insomma, alla fine ci ho ricavato più o meno 300 euro. Meglio di niente, sono quasi 400 dollari". 


Voglio capire meglio il suo stato d'animo, le sue sensazioni: "Cosa vuoi che ti dica, non ti nego che ho paura. Sento un po' un vuoto se comincio a guardarmi indietro, misto alla sensazione di delusione, la sensazione di essere stato come tradito dal Paese in cui credevo tanto. Ed è questo che mi dà la spinta per farlo, questo benedetto salto nel vuoto!
Sono arrabbiato e deluso per il fatto che devo cercare altrove ciò che il mio Paese non ha saputo offrirmi. Sì, anche tanta rabbia: ma sicuramente starò meglio e non mi mancheranno certo personaggi dello spessore dei nostri politici.
Voglio smammare da questo Paese vecchio, con una mentalità altrettanto vecchia. Mi fa rabbia perché il MIO, e scrivilo in maiuscolo, il MIO Paese mi ha sempre ostacolato, non mi ha mai minimamente aiutato. Mi ha cercato solo quando c'era da pagare. Per il resto niente...".


"Io ho pure dato tre anni della mia vita allo Stato... E pensa un po'... Proprio ieri, sì, ieri - mi dice alzando il tono della voce e scandendo le parole - dopo un anno che avevo fatto il concorso per entrare nei Carabinieri mi hanno risposto. E mi hanno detto che l'avevo passato..."
Ho capito bene?
Hai fatto il concorso per fare il Carabiniere e l'hai passato? gli chiedo.
"Sì, ma io avevo già fatto il colloquio con il consolato, avevo già comprato il biglietto. L'ho considerato un segno del destino. Li ringrazio pure del fatto che non me l'abbiano inviata prima la risposta, altrimenti non so... Credo sarei stato obbligato ad accettare. Avrei dovuto fare servizio militare volontario per quattro anni, e poi sarei potuto entrare nei Carabinieri. Per cosa?
Per un posto "sicuro", pagato 900 euro al mese, per essere trattato di merda o da gente 'fissata' o da gente 'senza sogni', per fare oltretutto quello che non volevo e voglio fare.
Guarda, io odio le gerarchie, odio le guerre... Faccio fatica ad amare questo Stato che non mi ha dato niente.
Mio padre, per esempio: è dovuto emigrare, lasciare la sua terra per lavorare come un mulo per una vita, a casa lavora solo lui e ora quasi non riesce a pagare il mutuo della casa, quella casa che ha sempre considerato la conquista della sua vita".
Mi sa che i tuoi non l'hanno digerita bene, queste due tue decisioni...
"Quasi non mi importa, se devo essere sincero. Voglio provarci, ho questa possibilità e voglio sfruttarla, viverla. Voglio dire di fronte ai miei amici 'Oh, io voglio di più. Io ci provo. Io voglio, devo, rifarmi una vita'.
Se penso alla vita che ha fatto mio padre mi viene da piangere... Io non voglio fare la stessa fine e non voglio che la mia futura famiglia passi quello che ho passato io... E scusami dello sfogo..."


Sorrido, pensando a cosa riserva, a volte, il destino...
"Sì, è buffo, il destino. E' un casino la vita. Ma ho voglia di viverla, non voglio chiudermi in una caserma, 'SignorSì, SignorNo'... Io voglio vivere. Non esiste: questa volta non mi fregano. Devo fare di meglio, so che ne ho le capacità: voglio offrire qualcosa di meglio alla mia ragazza, e ai nostri futuri bambini..."
Cosa dice lei del concorso che hai vinto?
"E' rimasta un po' in silenzio, mi ha guardato negli occhi con una espressione un po' incerta e poi mi ha detto: 'Mah, meglio provare andare là'.
Guarda, so benissimo che là, in America, la vita è mica facile, ma 'sbattimento per sbattimento' preferisco farmelo negli Usa. Io ora sono 'troppo carico', sono carico di voglia di fare, di vivere. Certo, me la faccio anche un po' sotto perché so che là dovrò praticamente partire da zero.
Forse mio zio un lavoretto me lo trova, lui mi sta aspettando, forse lui ha i contatti e l'esperienza affinché io possa aprirmi una attività. Ma so per certo che dal primo istante mi devo rimboccare le maniche..."
E i tuoi amici? Che ti dicono?
"Dicono che mi invidiano. Parecchio. Stasera faremo la cena tutti insieme e poi domani, via...".


Mi dice che nella fortuna non ci ha mai creduto, ma che crede nelle sue possibilità, che è "strapieno di idee" e che non finirà come in Italia, dove nessuno lo ha finora ascoltato, dove quando voleva affittare un negozio gli hanno detto di "no" perché aveva poco più di 20 anni ed era troppo giovane.
Mi parla di "un Paese che ti preclude ogni possibilità e che ti tappa la bocca", "di un Paese di boccaloni che crede a chi dice che i ristoranti e gli aerei sono pieni...".


Poi mi saluta.
Ci sono gli amici che lo aspettano, per la festa di "addio". 
Ma soprattutto domattina c'è l'aereo che lo porterà a New York.


Mi dice che mi vuol fare un regalo, mi dice di guardarlo.
E' un file di You Tube.
Mi scrive: "Lo guardo a ripetizione in questi giorni... Ma anche se non arriverò là in nave, il mio viaggio è come il loro. 
Come le loro emozioni.
Che sono le mie..."




© dario celli

sabato 21 gennaio 2012

Finalmente...

(Istruzioni per la lettura: avviare prima l'audio e usarlo come sottofondo...)


Era un po' che quei due si lanciavano occhiate. Ma si sa, noi uomini siamo un po' tonti, a volte. O ci buttiamo subito - combinando spesso disastri... - o aspettiamo un segno divino che ci dica "Dai, che cazzo aspetti? Prendile la mano!".
Quella volta il miracolo avvenne, e lui - che aveva quello strano nome africano, "Barack Hussein", - chiese a lei, che più semplicemente si chiamava Michelle, di ballare.

Sarà stato un caso, ma la canzone che suonava in quel momento dal jukebox si intitolava proprio "At last!", "Finalmente!".
E mi piace pensare che lei, la giovane e bellissima Michelle,  quando Barack si decise a stringerla a sé, pensò proprio "Oh, finalmente!"...

Fu la loro canzone, quella, la canzone che segnò sempre tutte le tappe della loro vita.
"At last!" la ballarono quando lui si laureò: lui, tipico esempio di ragazzo a rischio  ("pericolante", l'avrebbe definito in Italia san Giovanni Bosco) allevato in giro per il mondo da una madre rimasta soltanto ragazza dopo che il suo uomo, uno studente che sognava di cambiare l'Africa, era tornato là per salvare il suo Paese, e dove morì in un incidente stradale, troppo presto.

La ballarono poi alla festa per la laurea di lui, "At last!", la ballarono alla festa del loro matrimonio, la ballarono quando venne eletto senatore dell'Illinois, così come la ballarono la sera in cui il Partito Democratico - era il 28 agosto 2008 - decise che sarebbe stato lui, Barack Hussein Obama, a cercare di far tornare i democratici alla Casa Bianca.

E ogni volta risuonavano nell'aria, nei loro cuori, quelle note e quella parola: "Finalmente!"...

Dopo ogni elezione e dopo la cerimonia del giuramento, per tradizione il neo eletto Presidente degli Stati Uniti, deve "aprire" le feste danzanti che a Washington vengono organizzate in suo onore. 
Dieci, furono, quella sera del 10 gennaio del 2009: quella degli abitanti di Washington (biglietto d'ingresso, 25 dollari, ovviamente andati a ruba...), quella organizzata dai giovani della città, quella degli Stati dove Obama era nato e stato eletto (Hawaii e Illinois),  quella degli abitanti del "Mid-Atlantic" (gli Stati atlantici vicini), degli abitanti del "Midwest", quelli del "West", del "South", quella degli attivisti del Partito Democratico, quella dello Stato Maggiore della Difesa e infine quella dei reduci di guerra. 

Indossava un elegante smoking, il Presidente Barack Obama quella sera, il primo da lui acquistato nella sua vita. 
Era un "Hart Schaffner Marx" (Marx!) confezionato in una fabbrica di Chicago, la sua città, e "i cui operai siano aderenti al sindacato, mi raccomando", chiese esplicitamente lui.

E ogni volta che la coppia Presidenziale entrava nel salone di una delle dieci feste organizzate quella sera, l'orchestra interrompeva all'istante la musica, e i violini subito suonavano le prime note di "At last!", perché così aveva voluto Michelle. 
Che veniva immediatamente invitata al centro della pista - lasciata libera da tutti, in quel momento - da un elegantissimo Barak.
Mi piace pensare che, ogni volta, lei gli sussurrasse dolcemente all'orecchio "At last!", "Finalmente!", mentre iniziavano a sentirsi le parole:

"Il cielo lassù è blu
e il mio cuore ha avuto fortuna 
la notte in cui ti ho guardato...
Ho trovato un sogno a cui potevo parlare,
un sogno che posso chiamare mio...
E tu hai sorriso,
hai sorriso,
e l'incantesimo è avvenuto.
Eccoci qui, in Paradiso.
E tu sei mio.
At last...
Finalmente..."

"At last!" è una canzone cantata da Etta Jamesmorta ieri nella sua casa di Riverside, Los Angeles, California, per una grave forma di leucemia che l'aveva colpita da tempo. 
Avrebbe compiuto 74 anni fra quattro giorni.
Democratica convinta, negli ultimi momenti di lucidità aveva dato il suo sostegno simbolico ad "Occupy Wall Street" - il movimento degli "indignados" Usa - e aveva detto che avrebbe voluto arrivare alla festa per la rielezione di Barack H. Obama, pronta questa volta lei, a cantare "At last!".

Perché si era un po' incazzata, Jamesetta Hawkins (il suo vero nome) quando sentì come Beyoncé storpiò  la sua "At last!" ad una delle feste dell'insediamento di Obama.
Ma in fondo nessuno ricorda quella versione.

Tutti abbiamo invece nella mente, e nel cuore, quella che lei incise nel lontano 1961, proprio l'anno in cui alle Hawaii, dall'amore fra una ragazza bianca americana e uno squattrinato studente venuto dall'Africa, nasceva un piccolo al quale venne dato il nome "Barack Hussein".

Che a quella sua canzone, in fondo, deve tutto.

© dario celli