PERSONE CHE HANNO LETTO O CURIOSATO

venerdì 16 dicembre 2016

Alfredo, l'eroe per caso

Peccato non avere una loro foto. 
Ma tanto so che Domenico e Maria Rosaria erano due ragazzi come tanti della loro età. 
Belli, bellissimi, con il loro sguardo rivolto verso il futuro. 
Così come di futuro era tanto affamato il loro stomaco. 

Lui era di Carpinone, provincia di Isernia, paesino molisano qui sotto indicato dal puntatore rosso, e che oggi ha nemmeno 1200 abitanti. 
La sua Maria Rosaria abitava, invece, poco lontano, in un comune ancora più piccolo: Pesche
Che di abitanti (oggi) ne ha la metà: 666, per la precisione.

Ma non credo che a fine '800 questi paesini molisani fossero molto più popolati.

E' la "solita storia", cari amici di Aria Fritta.
La solita storia "amara". 
"Amara terra mia...", cantava Domenico Modugno...

Possiamo facilmente immaginare quanto dovessero essere anni amari e difficili, quelli: di grande miseria per la maggioranza degli italiani.
E la vita durava così poco, allora. 

Insomma, è ugualmente facile immaginare che il nostro Domenico, dopo essersi fatto (a piedi e di corsa...) un paio di centinaia di volte i sei chilometri che dividevano e dividono ancora oggi i due paesi, un giorno si stancò. 
E quel giorno, forse, decise che era venuto il momento di chiedere la mano di Maria Rosaria al padre di lei. 

Si sposarono in un giorno del mese dedicato alla Madonna e ai matrimoni i due ragazzi: era il 13 maggio 1906
Domenico Antenucci aveva 28 anni; lei, Maria Rosaria Garzini, era poco più che una ragazzina: 21 anni.  
Ma i parenti che in questi giorni mi stanno raccontando la loro storia non sono stati in grado di darmi molti altri particolari.
Comprensibile, visto che stiamo parlando di fatti accaduti 110 anni fa.

Per esempio, non sono in grado di dirvi se i due ragazzi - approfittando del trambusto e del piccolo trauma che provoca sempre l'annuncio di un imminente matrimonio - misero "sul piatto" anche la loro decisione di andarsene dal Molise. 
Partendo per l'America.
Non lo so.
So però che i registri dell'Immigrazione americana annotarono diligentemente l'arrivo a New York, sbarcato dalla nave Oceania, di "Antenucci Domenico, anni 33, residente a Carpinone, Italy"

Era il 25 gennaio del 1911. 

Con lui doveva esserci anche Maria Rosaria: anche se spulciando quei registri io non ho trovato traccia del suo nome. L'avrà mica nascosta nel bagaglio, santo cielo? 

No, molto probabilmente sarà arrivata in America dopo, Maria Rosaria.  
Ma non lo so.

Come immaginate, allora non c'erano molte possibilità per scambiarsi notizie quando in mezzo c'è un oceano come l'Atlantico. 
Solo qualche lettera, quando andava bene una volta l'anno, con, nella busta, qualche fotografia e forse un po' di soldi.
E il classico "Come state, al paese?"

So, però, che la loro storia d'amore non durò molto, purtroppo: Maria Rosaria, infatti, morì presto. 
In America, e proprio poco dopo aver dato alla luce il primo figlio: Alfredo. 
Registrato, all'anagrafe, americana, ovviamente, come Alfred. 
Ma difficilmente un uomo, a quel tempo, se la sentiva di tirare su un figlio da solo. Fu così che mentre Alfredo cresceva, Domenico si risposò con una compaesana di sua moglie, Maddalena.

Come immaginerete, il piccolo Alfred Antenucci iniziò a lavorare presto. Facendo quello che gli italiani in America, a quel tempo, sapevano fare meglio: un lavoro di mani, il falegname, il carpentiere, il muratore.
Per una vita.
Per tutta la vita. 

Muratore e iscritto al sindacato: Alfred, infatti, aderì subito all'AFL-CIO, l'American Federation of Labour and Congress Industrial Organizations, il più importante sindacato degli Stati Uniti, che oggi conta 12 milioni e 700 mila iscritti. Una federazione di 54 sindacati di categoria. 
Alfred, mattone dopo mattone, carriola dopo carriola, cazzuola di calce dopo cazzuola di calce, dopo essere sceso dai ponteggi e andato in pensione arrivò ad essere dirigente la sezione locale del Carpentiers Union, del Sindacato Carpentieri del paese dov'era nato e cresciuto: Garfield Heigh, periferia di Cleveland, in Ohio…

Aveva due mani "grosse così", il nostro Alfredo, d'altronde erano due mani da gran lavoratore: due "padelle" così tozze e dure che se ti davano anche solo un buffetto ti trovavi come niente steso a terra. 
E anche se essendo alto "5 piedi e due pollici" un gigante non era (si tratta di poco meno di un metro e sessanta), Alfredo era possente, forte della sua stazza molto "italiana".

Eccolo qui, il nostro Alfred Antenucci.


Che il 30 marzo del 1981, era nella capitale Washington DC per un congresso del sindacato.

In realtà, quel giorno, era prevista una pausa dei lavori.

Al mattino, il congresso avrebbe avuto come ospite nientemeno che il Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, fresco di nomina, essendosi insediato alla Casa Bianca poco più di tre mesi prima, che avrebbe fatto un breve discorso ai delegati.
E per il pomeriggio, approfittando della sospensione dei lavori, Alfred e alcuni suoi compagni avevano deciso di farsi una bella partita a golf.
Ma, dannazione, proprio quella mattina pioveva.

Il nostro amico, così, ascoltò prima per bene il discorso del Presidente, poi uscì fuori dalla sala convegni dell'albergo per scrutare ancora il cielo.
Che però non prometteva nessun sviluppo migliore. 
Aveva tempo da perdere... 

E dunque, mentre era fuori con il naso all'insù, Alfred, con la sua bella coppola in testa e un maglione giallo canarino, mentre c'era si fermò all'angolo per vedere l'uscita di Reagan, ovviamente circondato dagli agenti dei servizi segreti e della sua scorta personale.

Accanto ad Alfred, ma lui non ci aveva fatto troppo caso, un giovanotto che avrà avuto poco più di 20 anni.

Ed è esattamente in quel momento che Alfred Antenucci, figlio degli emigranti italiani Domenico Antenucci e Maria Rosaria Garzini, entrò nella Storia degli Stati Uniti.

Tutto accadde nel giro di pochi secondi: un racconto che questa volta, cari amici di Aria Fritta, possiamo vedere attraverso le numerose immagini scattate dai fotografi presenti.

La prima immagine, la vedete qui sotto, è quella del Presidente Reagan che saluta la folla. 
Con, pochi metri alla sua sinistra, due persone a terra e una chinata verso loro.


La foto venne scattata proprio nell'istante in cui il giovane vicino al nostro Alfredo iniziò a fare fuoco con una pistola: una calibro 22, piccola e facile da nascondere.
Si chiamava, si sarebbe saputo dopo, John Hinckley jr, texano 25enne con problemi mentali. 

Immediatamente, dopo i primi due colpi, il sindacalista Alfred Antenucci scagliò, con tutta la forza che aveva, le sue mani d'acciaio unite sul collo del giovane attentatore, dietro, alla base della nuca. 
Per poi, approfittando del suo stordimento, piombargli addosso come una furia. Lo vedete qui sotto, con la maglia color canarino e, da buon italiano, la coppola in testa.

L'attentatore, però, in due secondi (anzi, per la precisione in un secondo e sette centesimi) riuscì a svuotare, sparando, l'intero caricatore da 6 colpi.

Furono, è facile intuirlo, frazioni di secondo concitate.
I primi due proiettili che John Hinckley sparò, ferirono l'addetto stampa di Reagan e Jerry Parr, agente del Secret Service, l'agenzia federale che ha il compito di proteggere la vita del Presidente;

il proiettile destinato a Reagan finì invece contro una finestra del lato opposto della strada;

il quarto proiettile ferì un altro agente del Secret Service;

il quinto rimbalzò contro un vetro antiproiettile dell’auto;

mentre il sesto ed ultimo proiettile - dopo aver rimbalzato contro la carrozzeria blindata della vettura presidenziale - colpì Ronald Reagan sotto l’ascella, perforandogli un polmone e fermandosi a 25 millimetri dal suo cuore.

Un miracolo che salvò il Presidente degli Stati Uniti.

Quando il Presidente Reagan, ferito, venne portato via in fretta e furia, John Hickley era già stato neutralizzato dal nostro amico Alfredo, che - come un lottatore di "sumo" - letteralmente lo schiacciava sotto il peso dei suoi 100 abbondanti chili.

Ma il poliziotto, lì accanto, non capì immediatamente la situazione.

Temendo, raccontano le cronache dell'epoca, che Alfred Antenucci fosse o un complice, o volesse uccidere a sua volta l'attentatore (così come accadde nel 1963 con Lee Harvey Oswald, l'assassino di John F. Kennedy), l'agente se la prese anche con il nostro amico Alfredo, immobilizzando a sua volta e colpendolo più volte.

"Decisi in una frazione di secondo - raccontò poi Alfred Antenucci ai giornali -: non potevo permettere che qualcuno uccidesse davanti ai miei occhi il Presidente degli Stati Uniti. Gli diedi un durissimo colpo di karate sul collo e quello barcollò e cadde a terra, anche se continuando a sparare"disse dal letto del Georgetown University Hospital dove venne ricoverato due ore dopo il fatto.

Perché lui, 68 anni, due ore dopo iniziò a sentire forti dolori al petto: tutta quella situazione con il duro intervento dei poliziotti presenti (per certi versi giustificato, vista la concitazione di quei momenti) gli provocò, infatti, seri danni al cuore, già sotto stress per il suo notevole sovrappeso.
                                 

Rimase in ospedale dieci giorni, Alfred, dove il Presidente gli inviò un paio di gemelli d'oro con lo stemma della Casa Bianca.
In quei giorni di aprile del 1981, fu intervistato da tutti i giornali americani, da tutte le televisioni.
Era diventato la persona più importante d'America, il nostro Alfredo.
Dopo il Presidente degli Stati Uniti, ovviamente... 
Ma le sue condizioni di salute non tornarono più quelle di prima.

Nel settembre di quell'anno, nel corso di un convegno a Chicago, il Presidente Reagan incontrò Maria Antenucci, la figlia del nostro eroe. La quale tornò a casa con una sua foto ricordo autografata:
"Ad Alfred Antenucci, con i migliori auguri e apprezzamenti.
Il Presidente degli Stati Uniti d'America, Ronald Wilson Reagan".

Poi, finalmente, alcuni mesi dopo l'attentato, l'atteso incontro di persona: pochi minuti, il tempo di una stretta di mano e di un abbraccio nel corso di una cerimonia ufficiale.
Ma lo capiva benissimo, il nostro Alfredo: era di fronte al Comandante in Capo, ed era comprensibile che lui non avesse troppo tempo da dedicargli.
Ma quale onore fu trovarsi faccia a faccia del Presidente degli Stati Uniti, che lo ringraziava commosso per quel suo provvidenziale intervento.

L'attentatore - John W. Hinckley jr, laureato, figlio dei ricchi proprietari della compagnia petrolifera texana Hinckley Oil Company che aveva assorbito una catena di distributori Amoco negli Usa, cantautore con missione fallita ad Hollywood - durante il processo disse che aveva deciso di sparare al Presidente degli Stati Uniti per far colpo sull'attrice Jodie Foster, che non aveva mai degnato di risposta nessuna delle numerose e appassionate lettere che le aveva inviato.

Jodie Foster della quale lui era innamorato.
Follemente, appunto.
"La mia è stata la più grande offerta d'amore nella storia del mondo", volle che fosse messo a verbale durante il processo.

Nel quale fu assolto per infermità mentale, ma condannato a vivere "per un periodo congruo" al St. Elizabeth Hospital, il manicomio criminale di Washington DC.


Questa è l'ultima foto resa pubblica, scattata nel 2003 quando gli fu concesso di andare a trovare la madre in ospedale.



John W. Hinckley jr, dal manicomio criminale ne uscì solo qualche mese fa, il 10 settembre 2016
Dopo 35 anni di ricovero ininterrotto, le autorità sanitarie scrissero che il suo corso di "riabilitazione penale e mentale" era da considerarsi completato.
Libero, sì ma con alcune rigide restrizioni: l'obbligo di vivere nell'abitazione con la madre, il divieto di parlare con i giornalisti e quello di allontanarsi per più di 50 chilometri dalla sua abitazione. 

Jerry Parr, l'agente dei servizi segreti guardia del corpo di Reagan rimasto ferito nell'attentato, andò in pensione quattro  anni dopo la sparatoria.
Congedatosi, divenne Pastore Protestante.


Racconta che decise di diventare un agente della scorta del Presidente dopo aver visto, da ragazzo, "Code of the Secret Service", "Il codice del Servizi Segreti", film del '39 interpretato proprio da Ronald Reagan quando faceva l'attore ("Il peggior film che io abbia mai interpretato", disse poi il Presidente).

Nel 1984, la cittadina di Garfield Heights, periferia di Cleveland, Ohio, premiò Alfred Antenucci consegnandogli simbolicamente le chiavi della città
Appena in tempo, perché in realtà lui non si riprese più dal giorno in cui fu l'eroe sulle prime pagine di tutti i giornali americani.
I danni al cuore continuarono e peggiorarono. 
Finché se lo portarono via il 13 maggio 1984.

Esattamente 78 anni dopo il giorno del matrimonio dei suoi genitori.


Tutti i ricordi, le lettere, gli attestati, le decine di onorificenze e le centinaia di lettere che ha ricevuto in vita, vengono ora gelosamente conservati nella sua casa di Cleveland dalla figlia Maria, la quale vive nel timore che l'eroico incontro di suo padre con la Storia americana venga, con gli anni, dimenticato.

Fra questi c'è anche il riconoscimento della Niaf, l'importante associazione degli italo-americani. 
Che arrivò postumo, però.
E un po' le dispiace che questo le sia stato consegnato dieci anni dopo la morte del padre Alfredo. Con lei che non smette di pensare a come lui sarebbe stato onorato, e orgoglioso, e felice, se quel riconoscimento lui l'avesse ricevuto quando era ancora vivo...

E pensate come si sarebbe sentito alla notizia che il suo nome era stato inserito nell'elenco delle onorificenze che il Congresso attribuisce a chi ha compiuto azioni eroiche per gli Stati Uniti d'America!
Lui, il suo papà eroe. 

Di Alfredo Antenucci, in Italia, pochissimi conoscano la storia. E questo, a Maria, dispiace non poco.
Fra i ricordi che la figlia conserva gelosamente e con orgoglio, le lettere che Reagan scrisse a suo padre Alfredo e alla famiglia; e il messaggio di cordoglio che il Presidente e la moglie Nancy le inviarono quando suo padre morì.

Fa sfondo, il dispiacere di un invito a cena alla Casa Bianca promesso e sempre sfumato, così come il mai avvenuto concorso delle spese mediche sostenute da lei e dalla famiglia per i ricoveri in ospedale di Alfredo.

La sua città, Garfield Heights, ha però deciso di ricordarlo per sempre intitolandogli una via che corre parallela all'Interstate 480, e che attraversa una bella zona di villette, negozi, supermercati, scuole, ristoranti, non lontana a tre grandi parchi con popolati da scoiattoli, conigli selvatici e cerbiatti.

E lo ricorda anche con una targa, esposta all'interno del locale museo cittadino.
Nel 2004, la figlia Maria e il figlio Domenic sono stati in Italia, a Pesche, da dove erano partiti, 93 anni prima i loro nonni Domenico e Maria Rosaria: ricevettero la "cittadinanza onoraria".


Ecco qui, amici di Aria Fritta: raccontando questa piccola storia - la storia di Alfredo Antenucci, piccolo italiano dalle grandi mani di lavoratore - ho voluto rendergli onore.

E cercato di rendere giustizia - almeno un po'... - alla memoria di questo (nostro) "eroe per caso".


© dario celli. Tutti i diritti sono riservati

martedì 8 novembre 2016

giovedì 3 novembre 2016

I tre minuti di Gabriela

Lo scorso 30 aprile, evidentemente, dormivo.
E non mi sono accorto di un grande avvenimento accaduto al varco di frontiera americo-messicano di Friendship Park, a San Diego.

O meglio, a Cerritos, sobborgo di San Diego, California. A ridosso del confine (anzi, "sul confine") con il Messico.
Un punto dove il confine fra Stati Uniti d'America e Messico è netto.


Netto e labile, data la presenza del mare.
Ma sempre costantemente sorvegliato.


Comunque, incredibilmente, un punto di incontro, nonostante la cancellata di ferro che separa il povero Messico con i benestanti Stati Uniti.
Un punto che ogni domenica è luogo di pic-nic fra chi è riuscito a emigrare negli Usa e fra i loro parenti rimasti ancora in Messico.
Come ho già raccontato si tratta di un luogo - di un confine - quasi unico al mondo, dove si può assistere a scene che definire "commoventi" è riduttivo...


















Qui si incontra chi ha raggiunto il suo sogno (americano) e chi, invece, è ancora in Messico.
In attesa del momento migliore per raggiungere il congiunto che è "dall'altra parte", con un lavoro, una casa, un futuro per la famiglia...


Ma da questa primavera, da queste parti si respira un'aria diversa: il tutto grazie ad una Ong che si chiama "Border Angels", "Angeli della frontiera", organizzazione americana che si batte per una più aperta politica sull'immigrazione.


Il 30 aprile scorso, in occasione de "El dia del Nino", "La giornata dell'infanzia" questa Ong ha organizzato una iniziativa che si chiama "Aprire le porte della speranza". Che sembra una frase di Papa Francesco, mentre è di san Giovanni Bosco. 
Ma forse è solo un caso.

Insomma: in accordo fra le due parti - le autorità di confine statunitensi e quelle messicane - per la terza volta negli ultimi quattro anni le porte sono state aperte, permettendo a cinque famiglie separate dall'emigrazione di incontrarsi.


Anche se solo per tre minuti.
"Tre" minuti "tre"

Ecco il momento in cui la porta viene aperta.








Tutto era, ovviamente, perfettamente organizzato: gli operatori dell'Ong erano in maglietta rossa.
Gli immigrati ormai "americani" - selezionati dall'Ong - indossavano una maglietta azzurra.
I loro congiunti messicani, una bianca...

Amici di Aria Fritta: cliccate la freccia qui sotto, al centro dell'immagine.
Per un minuto e 23 secondi non c'è davvero bisogno di dire altro.


Gabriela Esparza vedeva quasi ogni domenica i suoi parenti, ma, finora, sempre con quella maledetta rete che li separava.
Questa volta invece ha potuto stringere e abbracciare madre e sorella, noncurante del fango putrido del Tijuana River che le ha imbrattato scarpe e pantaloni.
"Abbiamo praticamente solo pianto dall'istante in cui ci siamo viste a quando ci siamo salutate. 
L'ultima volta che avevo abbracciato i miei avevo 16 anni.
Ora sono madre.
Non riesco a credere a quello che mi è accaduto...".

Quando, bambina, arrivò clandestinamente negli Usa, Gabriela beneficiò di un "ordine esecutivo" firmato dal Presidente Barak H. Obama che offrì protezione per gli immigrati illegali minorenni.

Lo so, "tre minuti tre" possono apparire una "tortura": ma Il fondatore dell'Ong zittisce immediatamente chi intende fare polemica.
"So bene che queste persone avrebbero dovuto avere diritto a più tempo - ha detto Enrique Morones, direttore dell'Ong "Border Angels" -. Personalmente il mio sogno è che non esistano barriere e recinzioni. Ma io non voglio usare questo evento per fare polemiche e tanti discorsi. 
Mi basta pensare che favoriamo un momento speciale per dimostrare che l'amore non ha confini".

Insomma, come c'era scritto a caratteri cubitali lungo il confine, "Abbracci, non muri".






Con la massima serenità e senza polemica, dedico questo racconto a Donald Trump e a quei "galantuomini" del Ku Klux Klan che hanno indicato di votarlo.

Senza dimenticare i loro simpatizzanti italiani o coloro che, in Italia, hanno il coraggio di affermare che fra Trump e Hillary Rodham Clinton non vi siano differenze.




© dario celli. Tutti i diritti sono riservati