Peccato non avere una loro
foto.
Ma tanto so che Domenico e
Maria Rosaria erano due ragazzi come tanti della loro età.
Belli, bellissimi, con il loro sguardo rivolto verso il futuro.
Così come di futuro era tanto affamato il loro stomaco.
Belli, bellissimi, con il loro sguardo rivolto verso il futuro.
Così come di futuro era tanto affamato il loro stomaco.
Lui era di Carpinone, provincia di
Isernia, paesino molisano qui sotto indicato dal puntatore rosso, e che oggi ha
nemmeno 1200 abitanti.
La sua Maria Rosaria abitava,
invece, poco lontano, in un comune ancora più piccolo: Pesche.
Che di abitanti (oggi) ne ha
la metà: 666, per la precisione.
E' la "solita
storia", cari amici di Aria Fritta.
La solita storia
"amara".
"Amara terra
mia...", cantava Domenico Modugno...
Possiamo facilmente
immaginare quanto dovessero essere anni amari e difficili, quelli: di
grande miseria per la maggioranza degli italiani.
E la vita durava così poco,
allora.
Insomma, è ugualmente
facile immaginare che il nostro Domenico, dopo essersi fatto (a piedi e di
corsa...) un paio di centinaia di volte i sei chilometri che dividevano e
dividono ancora oggi i due paesi, un giorno si stancò.
E quel giorno,
forse, decise che era venuto il momento di chiedere la mano di Maria
Rosaria al padre di lei.
Si sposarono in un giorno del
mese dedicato alla Madonna e ai matrimoni i due ragazzi: era il 13
maggio 1906.
Domenico Antenucci
aveva 28 anni; lei, Maria Rosaria Garzini, era poco più che una
ragazzina: 21 anni.
Ma i parenti che in questi giorni mi stanno
raccontando la loro storia non sono stati in grado di darmi molti altri
particolari.
Comprensibile, visto che
stiamo parlando di fatti accaduti 110 anni fa.
Per esempio, non sono in
grado di dirvi se i due ragazzi - approfittando del trambusto e del piccolo
trauma che provoca sempre l'annuncio di un imminente matrimonio - misero
"sul piatto" anche la loro decisione di andarsene dal Molise.
Partendo per l'America.
Partendo per l'America.
Non lo so.
So però che i registri
dell'Immigrazione americana annotarono diligentemente l'arrivo a New York,
sbarcato dalla nave Oceania, di "Antenucci Domenico, anni 33, residente
a Carpinone, Italy".
Era il 25 gennaio del
1911.
Con lui doveva esserci anche
Maria Rosaria: anche se spulciando quei registri io non ho trovato traccia del
suo nome. L'avrà mica nascosta nel bagaglio, santo cielo?
No, molto probabilmente sarà
arrivata in America dopo, Maria Rosaria.
Ma non lo so.
Come immaginate, allora non
c'erano molte possibilità per scambiarsi notizie quando in mezzo c'è un oceano
come l'Atlantico.
Solo qualche
lettera, quando andava bene una volta l'anno, con, nella busta,
qualche fotografia e forse un po' di soldi.
E il classico "Come
state, al paese?".
So, però, che la loro storia
d'amore non durò molto, purtroppo: Maria Rosaria, infatti, morì presto.
In America, e proprio
poco dopo aver dato alla luce il primo figlio: Alfredo.
Registrato, all'anagrafe, americana,
ovviamente, come Alfred.
Ma difficilmente un uomo, a quel tempo, se la
sentiva di tirare su un figlio da solo. Fu così che mentre Alfredo cresceva,
Domenico si risposò con una compaesana di sua moglie, Maddalena.
Come immaginerete, il
piccolo Alfred Antenucci iniziò a lavorare presto. Facendo quello che gli
italiani in America, a quel tempo, sapevano fare meglio: un lavoro di
mani, il falegname, il carpentiere, il muratore.
Per una vita.
Per tutta la vita.
Muratore e iscritto al
sindacato: Alfred, infatti, aderì subito all'AFL-CIO, l'American
Federation of Labour and Congress Industrial Organizations, il più
importante sindacato degli Stati Uniti, che oggi conta 12 milioni e 700 mila
iscritti. Una federazione di 54 sindacati di categoria.
Alfred, mattone dopo mattone,
carriola dopo carriola, cazzuola di calce dopo cazzuola di calce, dopo essere
sceso dai ponteggi e andato in pensione arrivò ad essere dirigente la sezione
locale del Carpentiers Union, del Sindacato Carpentieri del
paese dov'era nato e cresciuto: Garfield Heigh, periferia di
Cleveland, in Ohio…
Aveva due mani "grosse
così", il nostro Alfredo, d'altronde erano due mani da gran
lavoratore: due "padelle" così tozze e dure che se ti davano anche
solo un buffetto ti trovavi come niente steso a terra.
E anche se essendo alto
"5 piedi e due pollici" un gigante non era (si tratta
di poco meno di un metro e sessanta), Alfredo era possente,
forte della sua stazza molto "italiana".
Eccolo qui, il
nostro Alfred Antenucci.
Che il 30 marzo
del 1981, era nella capitale Washington DC per un congresso del sindacato.
In realtà, quel giorno,
era prevista una pausa dei lavori.
Al mattino, il congresso
avrebbe avuto come ospite nientemeno che il Presidente degli Stati Uniti Ronald
Reagan, fresco di nomina, essendosi insediato alla Casa Bianca poco più di
tre mesi prima, che avrebbe fatto un breve discorso ai delegati.
E per il
pomeriggio, approfittando della sospensione dei lavori, Alfred e alcuni
suoi compagni avevano deciso di farsi una bella partita a golf.
Ma, dannazione, proprio
quella mattina pioveva.
Il nostro amico, così,
ascoltò prima per bene il discorso del Presidente, poi uscì fuori
dalla sala convegni dell'albergo per scrutare ancora il cielo.
Che però non prometteva
nessun sviluppo migliore.
Aveva tempo da
perdere...
E dunque, mentre era fuori
con il naso all'insù, Alfred, con la sua bella coppola in testa e un maglione
giallo canarino, mentre c'era si fermò all'angolo per vedere l'uscita
di Reagan, ovviamente circondato dagli agenti dei servizi segreti e della
sua scorta personale.
Accanto ad Alfred, ma lui non
ci aveva fatto troppo caso, un giovanotto che avrà avuto poco più di 20
anni.
Ed è esattamente in quel momento che
Alfred Antenucci, figlio degli emigranti italiani Domenico Antenucci e
Maria Rosaria Garzini, entrò nella Storia degli Stati Uniti.
Tutto accadde nel giro di
pochi secondi: un racconto che questa volta, cari amici di Aria
Fritta, possiamo vedere attraverso le numerose immagini scattate
dai fotografi presenti.
La prima immagine, la vedete qui sotto, è quella del Presidente Reagan che saluta la folla.
Con, pochi metri alla sua sinistra, due persone a terra e una chinata verso loro.
La foto venne
scattata proprio nell'istante in cui il giovane vicino al nostro Alfredo
iniziò a fare fuoco con una pistola: una calibro 22, piccola e facile da
nascondere.
Si chiamava, si sarebbe
saputo dopo, John Hinckley jr, texano 25enne con problemi mentali.
Immediatamente, dopo i primi
due colpi, il sindacalista Alfred Antenucci scagliò, con tutta la forza
che aveva, le sue mani d'acciaio unite sul collo del giovane attentatore, dietro, alla
base della nuca.
Per poi, approfittando del suo stordimento, piombargli addosso
come una furia. Lo vedete qui sotto, con la maglia color canarino e, da buon italiano, la coppola in testa.
L'attentatore, però, in due
secondi (anzi, per la precisione in un secondo e sette centesimi) riuscì a svuotare,
sparando, l'intero caricatore da 6
colpi.
Furono, è facile intuirlo,
frazioni di secondo concitate.
I primi due proiettili che
John Hinckley sparò, ferirono l'addetto stampa di Reagan e Jerry Parr,
agente del Secret Service, l'agenzia federale che ha
il compito di proteggere la vita del Presidente;
il proiettile destinato a
Reagan finì invece contro una finestra del lato opposto della strada;
il quarto proiettile ferì un
altro agente del Secret Service;
il quinto rimbalzò contro un
vetro antiproiettile dell’auto;
mentre il sesto ed ultimo
proiettile - dopo aver rimbalzato contro la carrozzeria blindata della
vettura presidenziale - colpì Ronald Reagan sotto l’ascella,
perforandogli un polmone e fermandosi a 25 millimetri dal suo
cuore.
Un miracolo che salvò il Presidente degli Stati Uniti.
Quando il Presidente Reagan,
ferito, venne portato via in fretta e furia, John Hickley era già stato
neutralizzato dal nostro amico Alfredo, che - come un lottatore di "sumo" - letteralmente lo schiacciava
sotto il peso dei suoi 100 abbondanti chili.
Ma il poliziotto, lì
accanto, non capì immediatamente la situazione.
Temendo, raccontano le
cronache dell'epoca, che Alfred Antenucci fosse o un complice, o volesse
uccidere a sua volta l'attentatore (così come accadde nel 1963 con Lee Harvey
Oswald, l'assassino di John F. Kennedy), l'agente se la prese anche
con il nostro amico Alfredo, immobilizzando a sua volta e colpendolo più volte.
"Decisi in una frazione di
secondo - raccontò poi Alfred
Antenucci ai giornali -: non potevo permettere che qualcuno
uccidesse davanti ai miei occhi il Presidente degli Stati Uniti. Gli diedi
un durissimo colpo di karate sul collo e quello barcollò e cadde a
terra, anche se continuando a sparare", disse dal letto del Georgetown
University Hospital dove venne ricoverato due ore dopo il fatto.
Perché lui, 68 anni, due ore
dopo iniziò a sentire forti dolori al petto: tutta quella situazione con il
duro intervento dei poliziotti presenti (per certi versi
giustificato, vista la concitazione di quei momenti) gli provocò, infatti,
seri danni al cuore, già sotto stress per il suo notevole sovrappeso.
Rimase in ospedale dieci
giorni, Alfred, dove il Presidente gli inviò un paio di gemelli d'oro con lo
stemma della Casa Bianca.
In quei giorni di aprile del 1981, fu intervistato da tutti i giornali americani, da tutte le televisioni.
Era diventato la persona più importante d'America, il nostro Alfredo.
Dopo il Presidente degli Stati Uniti, ovviamente...
Ma le sue condizioni di salute non tornarono più quelle di prima.
Nel settembre di quell'anno,
nel corso di un convegno a Chicago, il Presidente Reagan incontrò Maria
Antenucci, la figlia del nostro eroe. La quale tornò a casa con una sua
foto ricordo autografata:
"Ad Alfred Antenucci, con i migliori auguri e apprezzamenti.
"Ad Alfred Antenucci, con i migliori auguri e apprezzamenti.
Il Presidente degli Stati Uniti d'America, Ronald
Wilson Reagan".
Poi, finalmente, alcuni mesi dopo
l'attentato, l'atteso incontro di persona: pochi minuti, il tempo di
una stretta di mano e di un abbraccio nel corso di una cerimonia ufficiale.
Ma lo capiva benissimo, il nostro
Alfredo: era di fronte al Comandante in Capo, ed era comprensibile che lui non
avesse troppo tempo da dedicargli.
Ma quale onore fu trovarsi faccia
a faccia del Presidente degli Stati Uniti, che lo ringraziava commosso per quel
suo provvidenziale intervento.
L'attentatore - John W.
Hinckley jr, laureato, figlio dei ricchi proprietari della compagnia
petrolifera texana Hinckley Oil Company che aveva assorbito una catena di distributori Amoco negli Usa, cantautore con missione fallita ad Hollywood -
durante il processo disse che aveva deciso di sparare al Presidente degli Stati
Uniti per far colpo sull'attrice Jodie Foster, che non aveva mai degnato di
risposta nessuna delle numerose e appassionate lettere che le aveva inviato.
Jodie Foster della quale lui era
innamorato.
Follemente, appunto.
"La
mia è stata la più grande offerta d'amore nella storia del mondo", volle che fosse messo a verbale durante il processo.
Nel quale fu assolto per
infermità mentale, ma condannato a vivere "per un periodo congruo" al St. Elizabeth Hospital, il manicomio criminale di Washington DC.
Questa è l'ultima foto resa
pubblica, scattata nel 2003 quando gli fu concesso di andare a trovare la madre
in ospedale.
John W. Hinckley jr, dal manicomio criminale ne uscì solo qualche
mese fa, il 10 settembre 2016.
Dopo 35 anni di ricovero
ininterrotto, le autorità sanitarie scrissero che il suo corso
di "riabilitazione penale e mentale" era da
considerarsi completato.
Libero, sì ma con alcune rigide restrizioni: l'obbligo di vivere nell'abitazione con la madre, il divieto di
parlare con i giornalisti e quello di allontanarsi per più di 50
chilometri dalla sua abitazione.
Jerry Parr, l'agente dei
servizi segreti guardia del corpo di Reagan rimasto ferito nell'attentato, andò
in pensione quattro anni dopo la sparatoria.
Congedatosi, divenne Pastore
Protestante.
Racconta che decise di
diventare un agente della scorta del Presidente dopo aver visto, da
ragazzo, "Code of the Secret Service", "Il codice del Servizi Segreti",
film del '39 interpretato proprio da Ronald Reagan quando faceva l'attore
("Il peggior film che io abbia
mai interpretato", disse poi il Presidente).
Nel 1984, la cittadina
di Garfield Heights, periferia di
Cleveland, Ohio, premiò Alfred Antenucci consegnandogli
simbolicamente le chiavi della città.
Appena in tempo, perché in
realtà lui non si riprese più dal giorno in cui fu l'eroe sulle prime pagine di
tutti i giornali americani.
I danni al cuore continuarono
e peggiorarono.
Finché se lo portarono via il 13 maggio 1984.
Esattamente 78 anni dopo il
giorno del matrimonio dei suoi genitori.
Tutti i ricordi, le lettere,
gli attestati, le decine di onorificenze e le centinaia di lettere che ha
ricevuto in vita, vengono ora gelosamente conservati nella sua casa di
Cleveland dalla figlia Maria, la quale vive nel timore che l'eroico incontro di
suo padre con la Storia americana venga, con gli anni, dimenticato.
Fra questi c'è anche il riconoscimento della Niaf,
l'importante associazione degli italo-americani.
Che arrivò postumo, però.
E un po' le dispiace che
questo le sia stato consegnato dieci anni dopo la morte del padre Alfredo. Con
lei che non smette di pensare a come lui sarebbe stato onorato, e orgoglioso, e felice, se
quel riconoscimento lui l'avesse ricevuto quando era ancora vivo...
E pensate come si sarebbe sentito alla notizia che il suo nome era stato inserito nell'elenco delle onorificenze che il Congresso
attribuisce a chi ha compiuto azioni eroiche per gli Stati Uniti d'America!
Lui, il suo papà eroe.
Di Alfredo Antenucci, in
Italia, pochissimi conoscano la storia. E questo, a Maria, dispiace non poco.
Fra i ricordi che la figlia
conserva gelosamente e con orgoglio, le lettere che Reagan scrisse a suo
padre Alfredo e alla famiglia; e il messaggio di cordoglio che il
Presidente e la moglie Nancy le inviarono quando suo padre morì.
Fa sfondo, il dispiacere di
un invito a cena alla Casa Bianca promesso e sempre sfumato, così come il mai
avvenuto concorso delle spese mediche sostenute da lei e dalla famiglia per i
ricoveri in ospedale di Alfredo.
La sua città, Garfield Heights, ha però deciso di
ricordarlo per sempre intitolandogli una via che corre parallela all'Interstate
480, e che attraversa una bella zona di villette, negozi, supermercati, scuole,
ristoranti, non lontana a tre grandi parchi con popolati da scoiattoli, conigli
selvatici e cerbiatti.
E lo ricorda anche con una
targa, esposta all'interno del locale museo cittadino.
Nel 2004, la figlia Maria e
il figlio Domenic sono stati in Italia, a Pesche, da dove erano partiti, 93
anni prima i loro nonni Domenico e Maria Rosaria: ricevettero la "cittadinanza onoraria".
Ecco qui, amici di Aria Fritta: raccontando questa
piccola storia - la storia di
Alfredo Antenucci, piccolo italiano dalle grandi mani di lavoratore -
ho voluto rendergli onore.
E cercato di rendere
giustizia - almeno un po'... - alla memoria di questo (nostro) "eroe
per caso".
© dario celli. Tutti i diritti sono
riservati
non conoscevo questa storia
RispondiEliminaciao cristian
In effetti la conoscono davvero in pochi...
EliminaGrazie per avere letto, Cristian!
d.
Altra bella storia, thanks.
RispondiEliminaCome sempre, grazie a te!
Eliminad.
Ed adesso la conosco anche io! :-)
RispondiElimina;-)
Eliminad.
Bella storia, davvero. Anche io non la conoscevo e mi ha fatto molto piacere apprenderla dal tuo blog. Come al solito, i tuoi racconti sono molto interessanti. Al prossimo!
RispondiEliminaGrazie!
EliminaContinua a passare da queste parti, allora!
d.
Bellissima storia, raccontata in modo fantastico.
RispondiEliminaGrazie Dario!
Ma grazie a te per i complimenti!
Eliminad.
Come gli altri anche io non conoscevo questa storia e con il tuo bel racconto contribuiremo a fare in modo che non se ne perda la memoria. Di persone come Alfredo ce n'è sempre bisogno. Enzo.
RispondiElimina