PERSONE CHE HANNO LETTO O CURIOSATO

lunedì 30 luglio 2012

Il negozio di Jonah

Il 1788 è una data importante, per gli Stati Uniti d'America.  
Il primo gennaio di quell'anno, infatti, entrò in vigore la Costituzione, mentre in Europa, Re Luigi XVI - sentendo già gli scricchiolii del suo Regno - cercava di metterci una toppa convocando gli "Stati Generali", senza sapere che di lì a un anno una Rivoluzione avrebbe spazzato via lui e tutta la sua regale baracca.


Negli Usa, quell'anno, la città di Adamsville - Stato del Rhode Island, quasi sulla linea di confine con il Massachusetts - non esisteva ancora. Lì dov'è oggi, allora c'era soltanto una abitazione in legno bianco che ospitava un ufficio postale, attorno al quale poi, poco per volta, nacque l'intero paese che crebbe fino ad essere dichiarato "città" 16 anni dopo. 
L'ufficio postale era in realtà in un drugstore, una drogheria-alimentari, dove si poteva trovare un po' tutto: dal cibo alle vernici, dai vestiti alle medicine, dagli alcolici alle sementi, dalle torte ai giornali, fino a sigari e sigarette.


La cronaca non ci dice chi, nel 1788, aprì Gray's, né da chi venne gestito fino a quando, 91 anni dopo, fu rilevato dalla famiglia Waite. 
Quello che sappiamo, però, è che Gray's è il più antico negozio degli Stati Uniti d'America rimasto continuativamente in attività, e che dal 1879 sono stati sei i Waite, di padre in figlio, che si succedettero dietro al bancone. 
L'ultimo, o meglio il penultimo, è stato fino allo scorso mese Gryton, Gryton Waite. 
Foto in bianco e nero, o addirittura ancor più vecchie color seppia, mostrano i nonni e i bisnonni di Gryton, in posa dentro al negozio o sotto il portico.



















Gryton Waite è morto a 59 anni l'11 giugno, e il Gray's è dunque passato nelle mani del figlio Jonah, 21 anni, il settimo discendente.
Solo che Jonah è studente universitario e in autunno frequenterà come "senior" l'Università di Hartford, in Connecticut. Poi, in verità, ha altre mire professionali: studente alla facoltà di giornalismo, Giona vuole diventare cronista sportivo. "Ovviamente mi rendo conto dell'aspetto storico della questione, e io sono davvero il primo a voler tenere aperto il negozio che fu di mio padre, e prima di lui di mio nonno e di mio bisnonno e di tutti i miei avi. Ma temo che non sia un'opzione considerabile continuare a tenere aperto il negozio", ha detto a chi gli chiedeva se fosse vera la notizia.


Cosa ne sarà, dunque, dopo 224 anni del vecchio Gray's di Adamsville e della sua antica fontana di marmo dalla quale ancora oggi esce soda, non si sa. Che fine faranno le sue Rhode Island Johnny Cakes, specialità della casa che i bambini di Adamsville chiedevano da cento e più anni a gran voce, nemmeno... 
Così come i suoi oggetti di antiquariato accumulati nel tempo e la collezione di soprammobili.


Si sa però che Jonah ha deciso che oggi, domenica 29 luglio 2012, sarebbe stato l'ultimo giorno di vita del più vecchio negozio degli Stati Uniti d'America. Anche perché i conti, col tempo, tornavano sempre di meno,  soprattutto da quando i 3593 abitanti (fra i quali 31 ispanici, 8 asiatici, 7 nativi, 3 hawaiiani, e 2 afroamericani, dicono i precisi dati dell'ultimo censimento) hanno iniziato a comprare nel più moderno, e meglio fornito, supermercato in fondo alla Main Street di Adamsville. 







Per la verità una speranza ancora c'è: Jonah, infatti, non ha ancora deciso se affittare il negozio o vendere il negozio che fu di suo padre, e del padre di suo padre, e del... "Non lo so. Anche perché tutto quello che mi è accaduto lo sento più grande di me".

E' pur vero che in questi ultimi giorni - da quando si è sparsa la notizia che Jonah Waite aveva intenzione di chiudere il Gray's - i clienti sono aumentati: ma sono ritornati lì soprattutto per ricordare la loro infanzia, quando venivano a comprare due caramelle a un cent mentre il loro padre si prendeva un sigaro. Ma potrebbe essere solo un fenomeno passeggero, ha pensato Jonah. 
E poi resta sempre il problema dell'Università... 

















Quello che accadrà al più antico negozio degli Stati Uniti ancora non si sa: "Ancora non ho deciso cosa fare - ha detto Jonah a tutti coloro che in queste settimane gli hanno chiesto che fine farà Gray's - ma so che la mia sarà la decisione più giusta".













P.S.: se qualcuno di voi fosse interessato, l'indirizzo di Gray's è 4 Main Street, Adamsville, RI 02801, Usa.
Tel. +1 401 635 4566
© dario celli. Tutti i diritti sono riservati

domenica 29 luglio 2012

Giorgio e gli altri

Ho visto gente piangere, quella volta (bell'inizio, eh?)...

Ho visto labbra serrate, occhi chiusi, o spalancati, di uomini e donne, piangere in silenzio. 
Lacrime che scendevano sulle guance di chi era di qua, con me, fra il pubblico, e altre - forse più paradossalmente composte - che scendevano sulle gote di chi era al di là della transenna di legno.

L'appuntamento era per le 11, e data l'occasione avevo lasciato a casa l'abbigliamento casual che sceglievo per andare al corso di inglese che seguivo, optando per un più formale vestito grigio chiaro, camicia azzurra e cravatta rossa di Gucci già citata in queste pagine, quella che metto per le "grandi occasioni". (Vi risparmio - anzi, no... - i cinguettii delle mie compagne di classe giapponesi, nemmeno poi più tanto ragazzine, quando girando la cravatta con venerazione quasi fosse stata una reliquia di San Domenico Savio, videro la marca: "Oooohh... Uuuuhhh... Iiiiihhhh... Ghiuciiiiiiii!!").

Il permesso di entrata mi fu firmato da un dirigente del Department of City Planning di New York, Joseph J. Salvo, che non fece alcuna difficoltà quando gli chiesi se era possibile assistere alla cerimonia, che a Manhattan si svolge, se non sbaglio, ogni settimana. 
Ho ritrovato - e spiegherò più avanti il perché ho cercato gli appunti che presi allora (era il 1998) - il piccolo quaderno dove avevo annotato il suo indirizzo e il suo telefono.


E così, non poco emozionato, mi trovai dentro un'aula di tribunale, simile proprio a quelle che di vedono nei film. Anzi, uguale-ugualissima a quelle che si vedono nei telefilm della serie Law&Order, che infatti si gira proprio lì, in quel palazzo stile classico (piace tanto, agli americani, lo "stile classico greco-romano" per gli edifici pubblici) della parte bassa di Manhattan, dove si trovano vari uffici amministrativi di New York: la City Hall (il Municipio), l'ufficio delle tasse, della Polizia, i tribunali...
Ground Zero è lì, non molto lontano, al di là della Quinta strada.


Arrivai che mancavano pochi minuti all'inizio della cerimonia di naturalizzazione. Per tutti coloro che erano lì, era il "gran giorno". Tutti erano ai loro posti: chi da lì a poco sarebbe diventato finalmente american citizen, "cittadino americano", i loro parenti dietro alle transenne (in mezzo ai quali mi ero intrufolato io), i poliziotti, i funzionari del palazzo di Giustizia.
Poi, proprio come nei film, da una porta posta a fianco lo scranno del giudice uscì un impiegato che con vocione baritonale urlò qualcosa. All'istante tutti si alzarono in piedi e ammutolirono.

E' straordinaria la cerimonia di giuramento alla quale partecipano tutti coloro che chiedono la cittadinanza americana. Non è come è quella ho visto nei nostri Comuni per la cittadinanza italiana, cerimonia che è "singola", con gli immigrati che giurano uno ad uno di fronte soltanto al funzionario comunale e un paio di loro amici  testimoni. No, qui negli Usa (forse per ovvie questione di numeri) il giuramento è di gruppo: un centinaio o più di persone la volta.

Il breve discorso del giudice, sorridente ed informale, precede l'invece solenne cerimonia, durante la quale tutti i "neo cittadini" prestano il loro giuramento.

E così, quell'arcobaleno di facce alza la mano destra per giurare fedeltà alla Costituzione e alla loro nuova Nazione.
Gli Stati Uniti d'America.

Il testo del giuramento americano è un po' drastico, laddove recita che si "rinuncia e si abiura" qualsiasi nazione straniera e si giura di servire gli Usa nell'esercito, se necessario.
Il testo non dice, però, che sono previste un bel po' di eccezioni via via introdotte dai legislatori, e che la formula da recitare può essere modificata in rispetto delle tradizioni e della  fede religiosa di ognuno. E' sufficiente comunicarlo prima e, appunto, rimarrà agli atti; per esempio - com'è noto - laddove c'è "reciprocità legislativa" si può mantenere se lo si vuole anche la cittadinanza (e il passaporto) del Paese d'origine. 


E' un momento solenne, quello, che definire "serio" è riduttivo. Guardandomi intorno, mentre i neo cittadini recitavano la formula, mentre cantavano poi l'inno nazionale americano, mi rendevo conto che quello, davvero, per tutti era la svolta della vita, rincorsa per tanto tempo.

D'altronde c'è chi arriva a quel punto dopo tre anni di matrimonio con un cittadino americano, sì; ma la maggior parte giunge in quell'aula dopo i cinque anni di Green Card e, spesso, dopo anni di clandestinità.
Basta guardare le espressioni - gli occhi, le labbra - di chi in quel momento è lì, con la mano destra alzata o sul cuore, fissate in queste foto. 
Ecco, in quel momento ho pensato davvero che avrei voluto essere dentro ognuna di quelle persone: nel loro cervello per sapere cosa pensavano, nel loro cuore per ascoltare come batteva e cosa sentiva.





Poi, uno per volta, i nuovi cittadini americani sono stati chiamati da un funzionario per la firma dell'atto, e che ha consegnato loro una copia della Costituzione Americana e della Dichiarazione di Indipendenza, una bandierina degli Stati Uniti, il certificato di cittadinanza con il quale avrebbero potuto ritirare il nuovo passaporto, quello americano, e il "diploma" di cittadinanza che molti appendono poi in casa. "Congratulazioni: lei è diventato cittadino degli Stati Uniti d'America", viene detto loro prima del congedo.
E' un momento emozionante, che (a quel punto nel casino generale) viene immortalato da amici e parenti. Che hanno apposta una macchina fotografica per ricordarlo per sempre.





















Improvvisamente, nella confusione di chi viene festeggiato da parenti e amici fra foto e abbracci, mentre ancora è in svolgimento la chiamata, sento nominare un cognome italiano. Allungo il collo e vedo un signore anziano che va dalla funzionaria, ritira il tutto (bandierina compresa) e se ne va, stringendole la mano con un leggero cenno di inchino del capo. Lo seguo con lo sguardo, con la paura di perderlo fra la folla; poi vedo che si avvicina ad una signora bionda che lo stringe in un lungo abbraccio.
Prendo coraggio...

Mi racconta che lui è, anzi, era, italo-argentino: là arrivò bambino con i genitori, emigrati da Veneto. Con un buffo italiano, mezzo argentino e mezzo americano, mi dice che dopo aver vissuto una vita in Argentina,  diventato vedovo, durante una crociera ha conosciuto "questa bellissima donna americana"; che, sorridendo, mi presenta. Che corteggiò, mi disse, con "paziente sapienza italo-argentina".
E come può resistere, una donna americana seppur di una decina di anni più giovane, di fronte a cotanto fascino, a cotanta costanza e cotanta sapienza...

Si era trasferito a New York, lasciando in Argentina i suoi figli e i suoi nipoti, perché decise che era venuto il momento di ricominciare da zero quel che rimaneva della sua vita.
Lui e la sua donna si sposarono, e dunque dopo tre anni aveva acquisito il diritto di essere cittadino americano. 
Ed eccolo qui.

Ho messo sottosopra mezza casa, questa mattina per trovare, anzi, ritrovare, il suo nome e cognome. Sotto una montagna di mezzo metro di carta, ho incredibilmente visto il taccuino di quell'anno, con tutto il mio diario di viaggio del 1998. Fra le tante pagine, c'era anche quella dove avevo scritto l'indirizzo del giudice Joseph J. Salvo (quella che avete visto sopra...), ma non ho (ancora) capito dove diavolo io possa aver scritto quel giorno - visto che non c'è - l'indirizzo del signore italo-argentino.
Anzi, da quel momento italo-americano.

Perché dopo aver ascoltato la sua storia che mi raccontò tutto felice, gli chiesi anche se potevo fargli una foto, promettendo che gliela avrei inviata. 
Un ricordo per me e per lui. 
Una promessa che non sono riuscito a mantenere.
Mannaggia a me e al mio disordine: quando ci penso, non mi do pace. Dove diavolo sarà finito, quell'indirizzo... Difficile trovarlo, dopo tre traslochi.
E chissà se lui avrà mai pensato alla foto...

Mi è venuto in mente tutto questo l'altro giorno, quando ho ricevuto un breve messaggio dall'America del mio amico Giorgio.
Si tratta di quel breve messaggio che ho trascritto nel mio profilo di Facebook "fra virgolette", come si deve con le citazioni, ma che molti hanno equivocato, pensando che fosse un mio messaggio, che fossi io, il soggetto.

Due brevi righe che mi hanno fatto venire i brividi alla schiena, quando le ho lette:
"Ehi! Oggi, 26 luglio 2012, sono diventato cittadino degli Stati Uniti d'America!
Se penso che quando sono arrivato ero un clandestino...".

La sua straordinaria storia - la storia di una normalissima persona che ce l'ha fatta a raggiungere un sogno che sembrava impossibile - la potete leggere cliccando QUI

© dario celli. Tutti i diritti sono riservati

mercoledì 25 luglio 2012

Su un ragazzino che aveva la passione dei treni

C'era una volta un ragazzino che aveva una passione: adorava i treni.
Da bambini aveva avuto, sì, il classico trenino elettrico ma, diciamo, la sua passione era cresciuta soprattutto quando era diventato adolescente.
A quel tempo si "limitava" ai treni. Non era, infatti, mai salito su un aereo fino a quando non aveva compiuto 21 anni (mica come i ragazzi d'oggi, che l'aereo lo prendono anche a dieci anni, e magari da soli!).


La sua "prima volta" in aereo fu su un volo Milano-Mosca. Andò nell'allora Unione Sovietica grazie ad un viaggio ottenuto come ricompensa per alcuni lavori che ora verrebbero chiamati "socialmente utili" (si trattava di semplice riqualificazione di una parte di un parco pubblico), svolti nella sua città insieme ad altri ragazzi della sua età, vent'anni e giù di lì.
Quindici giorni di lavoro gratuito - solo rimborso spese per autobus e panino - in cambio di una settimana di viaggio in un Paese europeo.
Partì (era un volo sfigato, il Comune doveva risparmiare...) alle 4 del mattino da Milano Malpensa, su un aereo di qualche compagnia africana a bassissimo costo che faceva scalo in un aeroporto che allora era poco più che uno sputo.
Il volo partiva a quell'ora dopo essere arrivato da qualche Paese dell'Africa centrale: era quello che oggi si sarebbe chiamato un volo low cost (o forse high-risk) di una di quelle compagnie che se non fallite nel frattempo oggi sarà certamente inserita nella cosiddetta "lista nera" delle linee aeree internazionali tecnicamente poco affidabili. Del suo primo impatto con l'aeroporto, per la verità, ricorda poco o nulla: così come non ricorda nulla del volo, del decollo, dell'atterraggio, anche se quello era il suo primo volo.


Io adoro gli aeroporti.
Forse perché da bambino mio zio Alfio, il più giovane dei fratelli di mia mamma, ogni tanto la domenica mi veniva a prendere con la sua spider per portarmi a tutta velocità all'aeroporto di Caselle.
Si divertiva a superare ogni domenica un record: non sono sicuro, ma mi pare che il nostro fu 15 minuti. O 11. Sono certo: è da allora che ho iniziato ad adorare la velocità.
Non ricordo se entrammo mai, in aeroporto: non credo, forse una sola volta. Ma a me piacevano gli aerei, e a me bambino bastava guardare fuori dall'aeroporto gli aerei decollare.
Che andavano chissà dove.
Sicuramente lontano... 


Sì, vi confesso che adoro così tanto gli aeroporti,  che ogni tanto ci vado. E anche se non devo partire. Così, per passare un po' di tempo. C'è chi si fa i giri in centro e chi va in aeroporto. Ce c'è di strano?
Mi mette di buon umore, l'aeroporto. Poi, generalmente, la gente in aeroporto sorride, è sempre mediamente di buon umore se non euforica.
Magari è un po' agitata, ma sorride.
Un po' agitate, ieri, erano infatti due ragazze toscane che aspettavano un'amica per partire per le vacanze: il loro abbigliamento era già tipicamente "vacanziero". Erano agitate perché all'appuntamento mancava la terza compagna; e meno male che oggi ci sono i cellulari: "Ma dove diavolo sei?? Ma davanti a 'codesta', cosa?? Sotto? Sei sotto?? Ma mi spieghi perché sei agli arrivi se noi dobbiamo partire?".


In piena area partenze, in mezzo al casino e al via-vai dell'aeroporto di Fiumicino, vedo una coppia di asiatici seduta per terra. Davanti a loro la valigia di lui aperta: come se niente fosse quello si alza, si sfila i pantaloni (lì, di fronte a tutti), e proprio quando temevo l'arrivo del solerte funzionario di Polizia ecco che sotto spuntano un paio di bermuda.
A quel punto lui appallottola i pantaloni e li mette dentro alla valigia. Non conosco, ovviamente, il cinese (credo fossero cinesi...) ma posso tranquillamente dirvi cosa deve aver detto lei. Lo ha guardato con gli occhi sbarrati e scuotendo la testa mentre ripiegava per bene i pantaloni, con tono seccato e severo (un cazziatone femminile in cinese nel salone partenze dell'aeroporto di Fiumicino: capite che spettacoli gratuiti che si possono vedere, là?) deve avergli detto una cosa del tipo "Ma è possibile che tu non sappia piegare un paio di pantaloni in modo decente? Ti costava tanto piegarli e metterli dentro la loro custodia? Ma porcaccia la miseria!" (La mia esperienza umana unitamente all'intuito giornalistico mi porta ad essere certo, anzi, certissimo che il sunto del di lei cazziatone era esattamente questo, con lui che - devo dire con onestà - non mi è sembrato granché impressionato...).
Poco lontano un intero equipaggio del volo della China Eastern Airlain per Shanghai era messo a circolo e tutti (dicotutti, comandante, copilota e una decina fra hostess e stewart) erano in silenzio con il cellulare in mano a mandare sms. Ah, se solo avessi fatto la foto...


Adoro gli aeroporti: se ne vedono di tutti i colori, là. C'è chi dorme in posizioni da contorsionista sulle poltroncine in attesa del volo (il padre; mentre un bambino chiede: "Mamma, ma perché papà dorme tutto storto? E perché siamo arrivati quattro ore prima?"), o chi utilizza come cuscino quello strano aggeggio a forma di ferro di cavallo che si mette sul collo, sopra le spalle.


Fuori da un negozio dell'aeroporto, un ragazzino filippino spiega a madre e zia come funzionano i lucchetti a combinazione numerica che hanno appena comprato. La discussione, assai buffa, consiste nel numero da mettere, con l'undicenne o giù di lì che spiega loro che la combinazione "0000" è quella "default", iniziale, e che si può impostare qualunque numero a quattro cifre.
Non mi sono sembrate molto convinte, e si giravano e rigiravano le istruzioni fra le mani cercando di risolvere il rebus. Li ho lasciati sentendo il ragazzino che, un po' spazientito, in italiano rispondeva "Ma certo che sono sicuro!".


Una coppia sui trent'anni molto carina, chiacchiera mentre mangiano un pezzo di pizza. L'interesse di lui mi sembra evidente, quello di lei non saprei: si divertono così tanto, le donne, a far ballare i maschietti... Mi correggo: capisco qualche istante dopo che per lui non c'è niente da fare quando lei dice "No, Andrea è in volo con un ispettore...". Chiedendogli poi, con un filo di perfidia: "Ma tu eri in libreria per comprare un libro o per far passare il tempo?".
Non ho potuto ascoltare la risposta del poveretto...


Mi fanno un po' sorridere, poi, le donne che già in aeroporto si vestono come se fossero già arrivate a destinazione: non parlo di chi è in pantaloncini e maglietta, ma di due ragazze che giravano per l'aeroporto praticamente in pareo ed infradito. E' pur vero che sono giovani, ma come affronteranno l'aria condizionata degli aerei, non so...


Vicino a dove prendevo appunti (sarò stato certamente segnalato come elemento sospetto... o esistono anziani che vanno all'aeroporto per vedere gli aerei?) è arrivata poi un'allegra compagnia: età intorno ai 25 anni, sesso assortito (buona fortuna) con il loro numero - sono una decina di ragazzi - che mi induce a pensare che la loro vacanza sarà un inferno.
Sintomatico che il primo dissapore venga fuori già lì, alle sedie d'attesa dell'aeroporto, ancor prima di partire. Oggetto della (prima?) discussione, ovviamente, il cibo. I maschi - uno in particolare - hanno fame ("Io ho una fame boia, mi mangio 'sta valigia, fra un po'!") e propongono il Mc Donald's; le femmine propendono per un più frugale e salutare succo d'arancia "tanto mangeremo stasera, quando arriveremo".
Sono di Arezzo, e la discussione già degenera con una divisione del gruppo che si preannuncia grave: la ragazza con un cappello panama bianco in testa (a Fiumicino...), di andare al Mc Donald's proprio non ci pensa e guida le altre quattro al bar.


Due bambine minuscole trottano portandosi dietro due minuscoli trolley rosa, uno con Bambi e l'altra con Paperina, mentre tre donne sui trenta si siedono al mio fianco sfinite dando fondo al tubo di Pringles alla paprika appena comprato: "Eddai che siamo in vacanza!".
Una suora si è persa e si guarda intorno con aria un po' smarrita: è alla ricerca del percorso che porta al treno per Roma.


Lo so, non sono tanto a posto, ma starei delle ore qui ad osservare, a sentire, a capire, a rubare frasi, sensazioni. Suvvia, trattasi di cose innocue, in fondo...


Mentre sono lì con l'orecchio teso, sorrido pensando a quel ragazzino dell'inizio, quello che adorava i treni. Li adorava talmente tanto, che ogni tanto usciva di casa e passava un po' di tempo alla stazione di Porta Susa di Torino "a guardare i treni". Ora che ci penso, non doveva essere tanto ragazzino. Diciamo adolescente, và...
Una volta venne anche fermato da un poliziotto che, con aria severa e sospettosa, gli chiese "cosa stesse facendo lì".


Ricordo perfettamente che io gli risposi "Guardo i treni: è forse proibito?".
Sì, già ero un rompicoglioni allora...


Il poliziotto in questione era evidentemente di buon umore, perché mi lasciò perdere senza nemmeno chiedermi i documenti (allora avevo l'aspetto di un pericolosissimo sovversivo...): o più che altro deve avermi lasciato in pace "a guardare i treni" per pigrizia, per evitare di avere a che fare con un colossale scassapalle.   


Proprio mentre mi tornava in mente quel ricordo lontano, e mentre facevo un pezzo di strada con la suora che doveva andare al treno per Roma, lo sguardo mi è caduto sul tabellone dei voli in partenza, e proprio sulla riga che annunciava il volo Az 7604.
Ceck-in al banco 53G, terminal 5.
Partenza 8.45. 
Direzione, New York.
:-)
Potevo non sorridere di nuovo?

venerdì 20 luglio 2012

Il testamento di Val

Val Patterson abitava a Salt Lake City, nello Utah, capitale dei cristiani mormoni.
Dubito proprio che Val sia stato un seguace della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni. Forse da bambino...
Per la verità non so nemmeno dirvi se fosse un buon cristiano o se fosse ateo. Ma tendo più verso questa ultima ipotesi.
Posso però assicurarvi che in gioventù, prima che la malattia se ne impadronisse, era un gran bell'uomo: alto, fisico asciutto, sguardo ottimista e sorridente, tipico americano.
Così, infatti, lo mostrano le foto che di lui ho trovato in rete. So che Val è stato dipinto da chi lo conosceva come "ricercatore attento, docente disponibile, marito esemplare".
Vedere le sue immagini fa stringere il cuore: eccolo con la sua giovane e bella moglie, in una foto di qualche anno fa mentre erano in vacanza ai Caraibi.
Eccolo qui, quando aveva appena iniziato la sua carriera di ricercatore, bellissimo con quel suo sguardo sognatore e un po' hippy, incantato a pensare, forse, al futuro...
Ed infine eccolo accanto alla moglie, in quella che è forse la sua ultima immagine in vita, con lui sorridente, anche se quel maledetto tumore gli stava portando via la gola.
E la vita.
Dieci giorni fa, il 10 luglio, Val si è arreso e ha chiuso gli occhi per sempre. 
Ma da tempo aveva già scritto il necrologio che aveva affidato al Salt Lake Tribune, il più importante quotidiano della città.
Un testamento, più che un necrologio.
O meglio, una confessione, più che un testamento.
Una confessione di 60 righe precise.

"Ho avuto una vita piena e divertente. 
E' stato un onore, per me, essere amico di alcune persone davvero grandi. Vi ringrazio.
E' stato bellissimo, per me, giocare con il mio cane, i miei gatti, i miei pappagalli.
Ho visitato tutti i luoghi che ho sempre desiderato vedere; 
ho fatto tutti i lavori che ho sempre desiderato avere: ho fatto lo scienziato, mi sono occupato di elettronica, di chimica, di fisica;
ho fatto il meccanico d'auto, il falegname, l'artista, l'inventore, l'uomo d'affari, l'attore comico dilettante; 
sono stato marito, fratello, figlio;
ho imparato tutto ciò che volevo imparare; 
e mangiato tutto quello che volevo mangiare".

Ma...

"Ma ci sono cose che non avrei dovuto fare e che ora debbono essere dette", scrive ad un certo punto, a sorpresa, nel necrologio.

Va indietro con gli anni, Val, a quando era poco più che un ragazzo, quando era così come nella foto qui sotto, con quel suo sguardo scanzonato e un po' strafottente.
E arriva a confessare ciò che in vita non aveva mai detto, ciò che non aveva mai osato dire a nessuno.

"Sono io quello che nel giugno del 1971 ha rubato la cassaforte del Drive Inn View Motor (un cinema "drive-in" di Riverdale, Utah, nda). Avrei potuto continuare a tacere, ma ora voglio togliermi un peso dal cuore".

Poi, la confessione che avrà sbalordito tutti i suoi amici ma soprattutto, certamente, i suoi colleghi d'università e i suoi studenti: 

"Ora posso dirlo: non ho il 'Ph.D', non sono 'ricercatore'. 
O meglio, lo sono diventato per un banale errore, e non mio. 
Accadde quando andai, un giorno, a pagare la rata del mio prestito da studente di college. Quel giorno mi accorsi che l'impiegata mise la mia ricevuta nella cartellina sbagliata e due settimane dopo mi sono trovato nella buca delle lettere il diploma di dottorato di ricerca. 
Non ho nemmeno preso la laurea, ho avuto solo 3 anni di crediti universitari. E confesso che allora non sapevo nemmeno cosa significassero le lettere 'Ph.D'. 
Mi spiace per tutti gli ingegneri elettronici con i quali ho lavorato in questi anni, anche se devo ammettere che i miei lavori sono stati sempre apprezzati. 
Però sono sempre riuscito a farli ridere, al lavoro". 

E' un fiume in piena, Val Patterson, proprio come se si trovasse di fronte al confessore sul letto di morte: "Devo chiedere scusa a quel ranger del Parco di Yellostowne che è stato licenziato per colpa mia: sono stato io a buttare quelle pietre dentro all'Old Faithful (il più famoso geyser del Parco, nda), anche se poi ho saputo che qualche anno dopo è riuscito a farsi reintegrare.
Chiedo poi alla direzione di Disneyland e del SeaWorld di San Diego di annullare il 'divieto di entrata a vita' che mi riguarda. Ora non sono più un problema, per voi. 
Io e i miei amici siamo cresciuti negli anni migliori per gli Stati Uniti: c'era la musica migliore, le auto migliori, la benzina a buon mercato. Cercate di capirmi, a quei tempi la tv era terribilmente noiosa e così cercavamo di divertirci vivendo una vita vera e senza nuocere agli altri".

Poi Val si rivolge alla moglie Mary Jane:

"Il mio rammarico è che mi sentivo invincibile quando, fin da giovane, ho iniziato a fumare e quando dopo, pur sapendo che le sigarette mi avrebbero fatto male, ho continuato a farlo. 
Alla mia amata Mary Jane ho rubato dieci anni della sua vita e ho impedito che potessimo invecchiare insieme e ridere di tutte quelle migliaia di cose semplici che hanno riempito il nostro matrimonio.
Il mio dolore è enorme, anche se so che è una inezia al confronto del dolore che mia moglie sente oggi, lei che si prende cura amorevolmente di me e che mi conforta".

"Mi sento un ladro per averle rubato così tanto..." 

"Sono felice che tu, caro lettore, sia arrivato a leggere fin qui questa mia lettera. 
La mia famiglia esaudirà i miei desideri: non voglio né funerale, né sepoltura. 
Se mi conosci, ricordami come vorrai.

E se vuoi vivere per sempre, allora non smettere mai di respirare.
Come invece ho fatto io". 


La cerimonia per ricordare la vita del ricercatore universitario Val Patterson si svolgerà domenica 22 luglio dalle 4 alle 6 del pomeriggio, presso la Starks Funeral Parlor di Salt Lake City, Utah: "Per volere di Val, siete pregati di presentarvi con abbigliamento casual".

Non conoscevo il dott. Val Patterson, ricercatore presso l'Università di Salt Lake City, Usa.
Ma, saputa la sua storia, mi è venuto istintivo raccontarla, dedicandogli un po' di spazio, ricordandolo con queste righe. 
Un po' come per mandargli un pensiero ed un sorriso.
Lungo 9250 chilometri.

© dario celli. Tutti i diritti sono riservati

venerdì 13 luglio 2012

Antonietta e Davide

Diciamola tutta: Antonietta e Davide non si può dire che non abbiano avuto fortuna, finora. 
Della fortuna hanno avuto due assaggi, un anno di seguito all'altro.
E che assaggi!

Antonietta e Davide hanno partecipato alla lotteria con la quale il Governo americano ogni autunno mette in palio 55 mila Green Card.

Ci partecipano svariate decine di milioni di persone in tutto il mondo, e mediamente vincono la Green Card qualche centinaio di italiani ogni anno.
Conosco chi tenta da anni la lotteria senza successo; mentre Antonietta e Davide nel giro di due estrazioni sono stati sorteggiati entrambi.
Prima lui e poi lei.

Insomma, non hanno nemmeno dovuto sposarsi per "passarsi" la Green Card vinta.


Un avvenimento straordinario che li ha colti - non lo negano - di sorpresa.


Davide adorava gli Stati Uniti: ci era stato molte volte per andare a trovare la sorella a San Diego, dove abitava da una quindicina d'anni. 
La sua passione per gli Usa lo aveva anche portato a tentare l'ammissione in una università statunitense; ma le possibilità di essere accettato in quanto straniero erano molto basse, e la pratica di "avvicinamento" chiesta da sua sorella al Governo per i suoi genitori e successivamente per lui si prospettavano molto lunghe.
Una decina di anni, per questi tipi di ricongiungimenti familiari.

"Nel 2008 partecipiamo alla lotteria. Io, personalmente, non è che fossi molto convinta al trasferimento, al cambio di vita,  anche se lo ritenevo inevitabile nella (assolutamente teorica, praticamente impossibile) eventualità che venisse estratto lui. Certo non avrei mai accettato che lui se ne andasse in America senza me al suo fianco.

E allora, per affettuoso dispetto, ho passato giorni a dirgli 'Tanto verrò estratta io, e tu, che quando si affronta 'un certo' argomento' fai sempre il vago, vedrai che verrai da me supplicandomi di sposarti!"

Questo a novembre.
Poi...

"Poi un giorno di maggio 2009 ricevo una telefonata da lui che, con una tranquillità incredibile, come se fosse stata una notizia qualunque, mi dice che aveva ricevuto una busta (a quel tempo la Lottery non si svolgeva in modo telematico nda) dal Kentucky, dal Kentucky Consular Center. Mi hanno estratto, sai? Ho vinto la Green Card!'.

Era veramente incredibile, la mitica busta di cui tutte le persone estratte parlano era lì, davanti a noi. Un momento indimenticabile, incancellabile.
Alla fine, quello che sembrava un 'gioco' impossibile proprio come le lotterie a premi, si è rivelato un fatto reale. A quel punto tutto ci sembrava possibile e ottenuta la carta per l'uno non potevamo che ritentare la sorte anche per l'altra.

Nell'autunno 2010, a novembre, tento di nuovo - mi racconta Antonietta -, senza troppe speranze, ovvio. Va bene provarci ancora, mi dicevo, ma quante possibilità potevo mai avere di essere estratta anche io? Pochissime, come quelle di tutti coloro che frequentano i forum sulla Green Card e raccontano di provarci da tre, quattro, cinque anni senza esito...".


A febbraio dell'anno scorso Antonietta accompagna Davide a Napoli, per espletare con diligenza tutte le numerose formalità che si devono affrontare dopo la fortunata estrazione: Davide ha così presentato tutti i documenti necessari, passato i tre giorni canonici fra visite, analisi sanitarie e colloqui, ha speso i soldi necessari per fare il tutto, per poi arrivare, al terzo giono al tanto temuto colloquio finale con il console.



Concluso positivamente.

"Ora avevamo solo un problema: risparmiare un po' di soldi (altri soldi...) per organizzare il viaggio che gli avrebbe permesso il ritiro della Green Card negli Usa e metterci nell'ottica di tornare sul suolo americano ogni sei mesi fino al definitivo trasferimento per non farla decadere, per non perdere la Green Card.
Sì, altri soldi..."

"Due mesi dopo la 'tre giorni napoletana' torno a casa con Davide e mi ritrovo una busta indirizzata a me. Pensavo fosse l'avviso della Biblioteca Civica che mi sollecitava la consegna di un libro. Ma quando vidi il mittente, quando lessi 'Kentucky Consular Center' mi prese un colpo. 


Stetti con la bocca spalancata e con la nebbia nella mente per qualche secondo.
O forse erano minuti.
O forse erano ore. 
Non lo so, il tempo mi si fermò.
,
Quando mi ripresi, quando riapresi a pensare, riflettei sul fatto che prima di allora io non è che impazzissi dal desiderio di andare negli Stati Uniti. Solo in quel momento mi resi conto che erano gli Usa a volere me".

E così nel febbraio 2011 Antonietta raggiunge due importanti obiettivi: "Mi laureo e torno al Consolato di Napoli, questa volta per la mia Green Card".

Proprio perché inattesa, la loro preziosa Green Card così fortunatamente vinta l'hanno tenuta nel portafogli, limitandosi ad andare negli Stati Uniti giusto il tempo per non farla decadere.


Non posso dire di conoscerli bene, Antonietta e Davide, ma posso immaginare che anche se non sono - come me, come quasi tutti i torinesi - piemontesi "doc", con il crescere da quelle parti abbiano acquisito inconsapevolmente nel dna un po' di quel maledetto bögia nen ("Noi autri i bögioma nen", "Noi da qui non ci muoviamo" disse il Conte di San Sebastiano di fronte alle truppe francesi sulla Piana dell'Assietta, il 19 luglio del 1747) presente nel sangue di tutti noi che siamo nati o anche solo cresciuti da quelle parti, dalle parti di Torino.


Quel maledetto elemento che, pur in presenza della voglia di provare strade nuove dirette verso orizzonti mai esplorati e lontani, ci fa andare piano, o addirittura ci paralizza (e che ci fa tanto incazzare).

- Posso immaginare come ti sentissi con quella opportunità più grande di te e di tutti i tuoi parenti messi insieme, che aveva davanti.


"Mah, se devo essere sincera fino al mio arrivo a New York non mi sono mai resa conto davvero di quanto fosse realmente importante avere quel documento, e forse non ho mai creduto fino in fondo di poter riuscire davvero in quello che poi ho fatto, in quello che sto facendo...". 

Posso immaginare come si sentiva mentre andava a fare lezioni e supplenze avendo nel portafogli quel biglietto della lotteria vincente che si chiama"Green Card"

Posso immaginare come si sentisse, con tutti quei parenti 
che le dicevano "In America???" o con quei suoi amici, qualcuno affettuosamente un po' invidioso, qualcun altro tutt'altro che affettuosamente.

"Beh, dire a tutti che sarei partita per New York, e non per 'vacanza', mi sono poi resa conto che per me era un modo per rendere a me stessa 'reale' il progetto ancora appena abbozzato e per portarlo davvero a conclusione, per realizzarlo". 

Per il suo primo ingresso negli States per conservare la Green Card, Davide fa il viaggio da solo, visto che Antonietta doveva completare ancora le pratiche. Arriva a New York e ci va con un amico.

"Tutti i nostri amici, sia chi c'era stato, sia chi non aveva mai messo piede in America, dicevano di amare New York... Ma quando ne sentivo parlare non riuscivo, sinceramente, a capirne il motivo. 'Tutta quella grande quantità di grattacieli, quel gran casino... Cosa ci sarà mai di bello?'

Poi Davide torna dal suo primo viaggio con un milione di giga di fotografie. 
Di solito, quando si vedono le foto di viaggi vissuti da altri, alla quarantesima foto uno inizia a sbadigliare. Io, invece, nonostante fossi un po' diffidente, mi sono sentita catturata, foto dopo foto. 

Passavano i giorni e mi tornavano in mente le immagini di New York vista dall'Empire, proprio come quella che tu hai come copertina di Aria Fritta. Quindi, visto che negli Usa c'ero già stata (a San Diego dalla sorella di Davide, a Las Vegas, a Los Angeles, nella west coast, forse troppa west coast...) decidiamo che a fare gli onori per il mio primo ingresso da 'permanent resident', sarebbe stata New York.





Il nostro albergo si trovava a Brooklyn, e ricordo perfettamente che camminando per il quartiere subito dopo essere scesi dall'aereo, ancora con i nostri pesanti trolley trascinati per mano mi sono fermata e ho detto a Davide 'Questa è la mia città!'.

Ma è stata una delle sere successive, poco dopo il tramonto al Broklyn Bridge Park, ad avere l'illuminazione definitiva. 

Ero seduta ad una delle panchine che danno su Manhattan sono stata in silenzio quasi un'ora (o forse erano solo dieci minuti, ma non so...) a godermi quello spettacolo di luci e vita che ho deciso che non mi bastava più fare la spettatrice, che avevo deciso di voler entrare a far parte dello spettacolo...".





Poi, il ritorno.

Antonietta ha iniziato a cercare lavoro negli Usa dall'Italia, con pochi risultati confortanti, per la verità. 
Influenzati anche, forse, dal "pessimismo cosmico" italiano che spesso ci porta ad una devastante inattività e che secondo me ci avvolge in una nuvola di negatività:

"Sì, ho iniziato ad inviare un po' di curricula negli Usa, 'random', quasi a caso, ma con risultati nulli", confessa Antonietta. Che a gennaio decide il grande cambiamento di rotta.


All'inizio di quest'anno, Antonietta e Davide hanno iniziato a fare sul serio, convincendosi che era venuto il momento del "grande passo". 

"Per evitare di arrivare ancora una volta negli States esprimendomi all'aeroporto con l'inglese di un bambino di un anno, in Italia mi sono iscritta ad una scuola di lingua. Contemporaneamente ho deciso di seguire un corso di cucina e di 'Tecnica di preparazione della pizza da pizzeria'. Nel frattempo continuavo le mie supplenze a scuola...".

Ammetto di averglielo consigliato io, il corso di cucina e pizzeria: c'è ancora richiesta di italiani, in quel settore: a patto che siano in regola con i visti, ovvio. 


Poi Antonietta e Davide si rendono conto che era arrivato il momento di "allungare davvero le radici negli Usa", di avere una casa a Ny dove abitare, di avere un indirizzo americano. 

Ma la ricerca su internet non aveva portato buoni frutti: o non arrivavano risposte, o arrivavano, racconta, palesi truffe. 

"Come quella volta che ci rispose un nigeriano che diceva di avere un appartamento libero da affittarci nientemeno che a Wall Street. Ma siccome in quel periodo era in Nigeria noi avremmo dovuto mandargli i soldi in Africa. E prima che lui ci spedisse chiavi ed indirizzo. Oppure ci rispondevano dandoci però un appuntamento in giornata".

Insomma, avanti così fino a quando agli inizi di giugno, proprio un paio di settimane fa, Antonietta e Davide si decidono: con un piccolo, piccolissimo gruzzolo partono per New York "a la ventura".


Seduti al finestrino non stanno nella pelle e non resistono a non fotografare quelle ali che li stanno portando lontano, tagliando quel cielo azzurro, che non può che non sapere di ottimismo...

New York li accoglie come la città accoglie sempre tutti: con quella confusione colorata, con tutta quella gente che corre chissà dove, con i suoi taxi gialli.

A dire il vero non è che le loro prime ore nella Grande Mela siano state molto rilassanti. Avevano prenotato una stanza in un ostello per una sola notte (a 104 $ a notte), visto che l'indomani avevano appuntamento con una ragazza che affittava una stanza. 
Che però, nel frattempo era già stata affittata. "Ci venne allora proposta una specie di topaia a 1200 dollari (953 €uro) al mese". A quel punto decidono di affidarsi ad una agenzia.

Che ha offerto loro un appartamento perfetto nel quartiere Badford-Stuyvesant di Brooklyn anche se a 15 minuti dalla metropolitana. 

Quando poi però hanno consultato le tabelle che le agenzie forniscono a chi cerca casa, quelle sui dati del quartiere (presenza di uomini, donne, celibi, nubili, divorziati/e, fasce d'età degli abitanti, presenza di bambini, scuole, servizi, animali domestici e dati relativi alla criminalità) hanno desistito: 
"Già: le dettagliate statistiche del New York Police Department dicevano che era una zona con un indice di criminalità più alto della media, a Brooklyn. 
No, grazie". 

La casa, Antonietta e Davide l'hanno invece trovata su Craiglist, sito di annunci strafamoso, negli Usa: 


"L'annuncio di Marlon appariva perfetto: al mattino abbiamo risposto e nel pomeriggio avevamo già l'appuntamento. Era perfetta! Appena ristrutturata, molto grande con stanze ampie e luminose. 
Ovviamente noi occupiamo solo uno di questi ambienti mentre condividiamo bagno e cucina con altre sei persone. Una convivenza di massa che per fortuna non ci ha ancora messo in difficoltà, dato che al momento solo noi siamo in vacanza mentre i nostri coinquilini sono moto impegnati e quindi sempre fuori casa". 



Certo, è "solo" una camera. Ma che camera!

Grande, con una finestra che di giorno la illumina a dovere, parquet per terra... Ma per ora "va bene così". Si cambia casa tante volte in città come New York.

"Insomma, nel giro di 24 ore siamo passati dalla condizione di potenziali homeless a quelli di affittuari di una casa a Manhattan..." 

A quel punto possono finalmente fare i turisti, Antonietta e Davide. Passano ore (e ore, e ore) a passeggiare, a guardarsi intorno, a mangiare quella Grande Mela, morso per morso, coscienti che questa volta, loro, non sono più lì per vacanza, non dovranno tornare più tornare in Italia.

"Problema casa" risolto, "potevamo finalmente goderci la rimanente settimana da turisti prima di dedicarci alla ricerca del lavoro", anche perché il "piccolo gruzzolo" di risparmi che si erano portati dall'Italia stava per finire.


Certo, raccontata così - ancora una volta - tutto sembra facile. Ma quanto influisce l'educazione che abbiamo ricevuto (prima di tutto la mancanza di ottimismo e una piccola dose di incoscienza presenti invece nel dna degli americani) è facile, per noi, da immaginare.


Quello che ci frega è quella vaga sensazione di "paralisi" che si impadronisce di noi, in certe situazioni, e della quale ho già accennato.
..
"La scelta di buttarsi in questa avventura non è stata certo facile - mi racconta Antonietta - ma la forza di attrazione che ha avuto su di me questa città è stata troppo forte per non assecondarla. 
Prima di visitare New York avevo ovviamente sentito molte persone dire quanto fosse bella, anche se è riduttivo definirla così, o quanto fosse straordinaria: come ti ho già detto, sinceramente in me non era mai maturata la curiosità di visitarla. Poi, però, l’obbligo di entrare negli States ogni sei mesi per conservare la Green Card mi ha portata qui a giugno 2011 e ho subito sentito la necessità non solo di visitarla, ma di viverla in pieno, da 'abitante'".

Obiettivo per Antonietta e Davide, a quel punto, divenne "il lavoro".

Scrive una mail al responsabile di "Eataly New York", che le fissa un appuntamento per tre giorni dopo. Poi prende appuntamento con una persona che io ho conosciuto l'anno scorso, anche lui vincitore di Green Card, giovane, napoletano, che ha aperto un negozio di pizza al taglio. 
Nessuna raccomandazione: mi sono limitato a scrivere a quel mio amico chiedendogli se poteva ascoltare una mia amica e darle consigli, indicazioni. 

Difficile star dietro agli eventi che in questi frangenti spesso accadono negli Usa o a New York.


Antonietta arriva davanti al negozio dove doveva incontrarsi con il mio amico e vede il cartello"Help Wanted": "Così quella che doveva essere una normale chiacchierata amichevole fra immigrati, si trasforma all'istante in un colloquio di lavoro per stare dietro al bancone di una pizzeria al taglio di Manhattan". 
Si mette d'accordo per un giorno di prova, ma proprio mentre stava studiando il menù e gli ingredienti delle pizze, ecco che riceve una breve mail da parte di un cuoco che aveva incontrato il giorno prima. Una mail fatta di sole dodici parole: "I would like to give you chance to work with us": "Vorrei darti la possibilità di lavorare con noi".

"Improvvisamente ho dovuto mettere sul piatto della bilancia due offerte di lavoro. 

A New York. 
A Manhattan. 
Una come addetta al banco di una pizzeria al taglio e un'altra come 'pasta-maker'. Ovviamente non potevo che scegliere di portare oltreoceano un po' delle mie capacità e quindi ho scelto di fare orecchiette per otto ore al giorno! Certo, il lavoro è un po' monotono e ogni sera per le prime due settimane ho dovuto tenere il pollice nel ghiaccio per mitigare il dolore, ma non nego di sentire una certa soddisfazione nel pensare a tutte quelle persone che mangiano le mie piccole opere".

Anche il fidanzato di Antonietta, Davide, ha trovato un lavoro negli stessi giorni.

Come bus boy, il "grado" più basso fra i camerieri che lavorano nei ristoranti americani: quello che riempie d'acqua (e di una montagna di ghiaccio) i bicchieri dei clienti non appena si siedono ai tavoli. 

"Davide ha subito puntato un locale dove, anche lì per caso, abbiamo letto 'HELP WANTED'. Ci siamo guardati e i nostri occhi si dicevano 'Ma sì, dai! Entriamo, vediamo...'. Proprio in quel momento, dentro, c'era il proprietario che faceva i colloqui. Stewart, si chiamava così, ha subito dato a Davide il foglio con i dati da compilare. Poi è venuto a parlargli..."


"Hai esperienza come cameriere?"

- Veramente no...
"Apprezzo la tua sincerità. Ma se io ti insegno, tu impari?"
- Vedi il mio titolo di studio? Sono laureato in fisica teorica, sono un fisico, e la fisica insegna ad imparare..."

Mi sembra quasi di vederlo, il sorriso dell'americano Stewart, mentre Davide l'italiano gli diceva queste parole. 

Come è andata a finire lo immaginate, a questo punto: siamo in America, mica in Italia (perdonatemi...) e il padrone del ristorante ha dato ad un fisico teorico quel lavoro da cameriere.

Un lavoro provvisorio, perché a luglio Davide inizierà il dottorato in fisica a Newcastle Upon Tyne in Inghilterra. 

Un altro cervello che l'Italia si è lasciata sfuggire.

Una mattina Antonietta decide di tagliarsi i capelli: un taglio, netto, drastico, quasi a zero, modello Sinéad O'Connor. 

E quando una donna prende una decisione di questo tipo, significa evidentemente qualcosa...

"Che dire? - mi scrive Antonietta - Ora siamo a posto: abbiamo una bella casa e un lavoro a New York. Possiamo lamentarci?

Ci sentiamo presto.
Antonietta".

Poi mi manda questa foto...


"E' la mia prima busta paga americana. E' una paga per i miei primi tre giorni di lavoro. Ma già solo con questa, pago metà della mia parte d'affitto a (l'altra la paga Davide...). Prendo 310 dollari a settimana, 1240 dollari al mese, che comprendono anche i soldi dei pasti che faccio lì. Ancora una settimana e se non mi licenziano potrò finalmente sperperare il mio denaro in modo sconsiderato", mi dice ridendo.

"Lo so, i camerieri guadagnano ben di più con le mance, ma non hanno contratto e io sono assunta. E poi so che in America si cambia posto in fretta. E si migliora".




Sorrido...


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