PERSONE CHE HANNO LETTO O CURIOSATO

martedì 16 aprile 2013

Good Night... (Dormire in America)


Questa volta vi voglio raccontare la storia di Charles Wilson e di sua moglie Dorothy.

Era un piccolo imprenditore, Charles, il cui nome completo era in realtà Charles Kemmons Wilson.
Siamo nel primo dopoguerra, quasi anni '50, e viaggiava molto, la coppia, e quasi sempre portando con sé i figli. Che arrivarono, alla fine, ad essere cinque: Spence, Bob, Kemmons Jr., Betty Moore e Carole West.

Come tutti gli americani, i Wilson macinavano migliaia di chilometri in auto: per andare a trovare parenti, per andare in vacanza. Ma soprattutto lui era sempre in giro per lavoro: insieme a milioni di americani che si mettevano in strada per cambiare casa, città, Stato, lui andava in giro per vendere i suoi articoli a bar e locali di Menphis, in Tenessee e Stati vicini.
Gli aerei erano ancora troppo costosi a quel tempo, e i treni (allora come ora...) avevano una rete troppo poco ramificata e comunque poco usata per i lunghi spostamenti.
La benzina era decisamente a buon mercato e contemporaneamente, nel dopoguerra, il presidente Dwight David Eisenhower lanciò il colossale piano di modernizzazione delle strade, usate da milioni di americani per andare dovunque; americani che la notte avevano bisogno di riposarsi, di dormire da qualche parte, in mezzo al nulla dell'immensa provincia americana prima di ripartire.
Negli Stati Uniti viene chiamato "fattore M": "Movimento, Migrazione, Mobilità".

Il primo albergo sulla strada chiamato “motel” sorse negli anni ’30 a San Luis Obispo, in California, lungo la statale 101, la strada che, lambendo l'Oceano Pacifico, unisce il Canada con il Messico. Fu il proprietario Jamos Vail, ad inventare quel neologismo, chiamando il suo "albergo per automobilisti", appunto, “Motel Inn”.


Dopo centinaia di miglia percorse - per lavoro o per vacanza - era ovvio che i viaggiatori avessero bisogno di riposarsi, di dormire, la notte. Fu così che nacquero, che si moltiplicarono, piccoli alberghi lungo le strade, con drugstore e ristorantini accanto: comodi, a un solo piano, con il posto auto davanti alla camera. 
Tutti a gestione familiare, dai nomi più fantasiosi e con insegne al neon coloratissime.
                                       
Non vedevo l'ora di dormire in uno di questi, durante il mio primo viaggio americano.
Dopo essere stati a New York, e aver volato a Charleston, in South Carolina, e poi a New Orleans, arrivammo a Denver, nel west, in Colorado. Lì sarebbe iniziata la mia prima vacanza "on the road" negli Stati Uniti, solo sommariamente pianificata.
Atlante stradale e guide alla mano, volevamo andare un po' "a zonzo", e perderci nelle magiche strade del west.

E quella volta, partendo appunto da Denver, non ce n'eravamo nemmeno accorti che salivamo.
Perché appena fuori dalle città, le strade americane - l'ho già scritto - sono così: ampie, tranquille, spesso con traffico praticamente inesistente, in mezzo a praterie o foreste.

E proprio per questo, sprattutto quando si viaggia all'ovest, è impressionante la quantità di animali selvatici che si possono incontrare per strada. Negli Usa, quando un cartello stradale avvisa della possibile presenza di animali in quel tratto di strada strada, si fa sul serio.
Fortunatamente non mi è mai capitato di incontrare serpenti, ma gli animali segnalati da questi cartelli li ho visti...
                      
Già, ci sono davvero, e a volte sono enormi e cocciuti, come gli asini selvatici di Oatman, sulla Route 66, che ti si piazzano davanti al parabrezza e non c'è verso che si spostino. 
Se non quando vogliono loro...
(Oatman, Arizona)
Ma non solo...
Lasciando perdere la balena che - quando percorrevo in Oregon la Us 101, la strada costiera che parte dal Canada e arriva in Messico - sono (quasi...) riuscito a fotografare mentre lei andava su e giù,
(Oregon, Oceano Pacifico, Us 101)



















sulle strade americane (scoiattoli a parte, quelli ci sono anche a New York...) ho incontrato senza troppe difficoltà coyote...


(Arizona, Papago Indian Reservation)

... orsi (magari con la famigliola)...


(Wyoming, Us highway 16, verso il parco di Yellowstone)
















... o questa buffa marmotta che mi osservava (lei!) curiosa...
(Colorado, US highway 36)

... o mi sono trovato a passare (a passo d'uomo, mi raccomando...) fra mandrie di bisonti che pascolavano liberi sulle praterie del Wyoming...




facendo sempre molta attenzione a cervi e cerbiatti che potevano attraversare improvvisamente la strada da veri "padroni del territorio".


(Arizona, Us 180) 



Quest'ultima foto l'ho scattata sulle strade delle Montagne Rocciose del Colorado, che ho attraversato in lungo e in largo per cinque giorni dopo essere atterrato con i miei compagni di viaggio a Denver.

Era la prima volta che percorrevamo le strade americane, e avevamo deciso che a fine giornata ci saremmo fermati per la notte nel primo luogo che ci avrebbe "ispirato".
Ci ispirò Leadville, senza sapere nulla di quel piccolo centro.


Quando scendemmo dall'auto, ci colpì il cielo limpido e l'aria rarefatta: talmente rarefatta che c'era chi accusava addirittura leggeri giramenti di testa e nausea. 
Non vi nego che pensai ad un po' di esagerazione femminile: solo più tardi, però, sapemmo che quel giorno avevamo superato addirittura quota 3000 metri sul livello del mare: Leadville, infatti, si trova ben a 3097 metri d'altezza, per la precisione.

Un paesino (poco più di 2500 anime) graziosissimo. 
Fondato nel 1877, è sorto attorno a ricche miniere d'argento, ormai esaurite da un secolo. 
Della sua gloriosa epoca conserva ancora la Main st, la strada principale... 
... e molti suoi edifici.
Primo fra tutti il Silver Dollar Saloon, aperto nel 1879 e da allora ininterrottamente in attività, con quella splendida facciata, e gli interni, in legno.



Per arrivare a Denver (da New Orleans, profondo sud) ci svegliammo prima ancora dell'alba; una volta atterrati passammo l'intera giornata a girovagare a zonzo per le Rocky Mountain. La fatica, insomma, iniziava a farsi sentire, e poi dovevamo assorbire le emozioni e l'euforia del nostro primo viaggio in auto negli Stati Uniti. 

Avevamo davvero bisogno di dormire. 
Scegliemmo, dunque, il motel che incontrammo non appena entrati in paese, quando ancora eravamo sulla strada Us 24.

E quando andrete in America, vedrete, il primo motel non lo scorderete più.
Il mio si chiama “Silver King Motor Inn” , "il motel più alto delle Montagne Rocciose!", diceva con malcelato orgoglio una pubblicità vista lungo la strada.

Il neon verde con la scritta "vacancy" indicava la disponibilità di stanze. 

Entrammo nell'ufficio della direzione, chiedemmo se c'erano stanze libere, da malfidati italiani chiedemmo di vederle, ci vennero date senza problemi le chiavi, "controllammo" le camere, e tutti soddisfatti dicemmo di sì.

Costo: 35 dollari a camera per due persone. Era il 1992. 
Ho controllato poco fa su internet: oggi, al “Silver King Motor Inn”, il prezzo a notte di una camera, risulta essere di 59 dollari. 
45 euro, colazione compresa. 
Non so se mi spiego...

Per chi sceglie una vacanza on the road, prenotare in anticipo alberghi o motel lungo il percorso è inutile. I motel sono stati concepiti apposta per le soste non programmate, e sono facili da trovare dovunque.
Chissà perché in Italia il “motel” ha una connotazione sinistra e poco raccomandabile… Negli States, invece, le onnipresenti statistiche ci dicono che i clienti dei motel sono in maggioranza famiglie e commessi viaggiatori; famiglie in viaggio, che per la notte si fermano lungo la strada approfittando di quelle classiche grandi stanze a due lettoni per dormirci, magari, comodamente in quattro; come ho già descritto QUI.

Il motel americano più antico ancora in funzione si trova sulla costa atlantica, a Princeton, nel Maine

E’ all’inizio della “Route 1”, la strada che, sfiorando l’Atlantico, attraversa verticalmente tutti gli States, dal confine con il Canada a Key West, la più meridionale delle isole della Florida
Si chiama Bellmard Inn, e vi si dorme (controllate i prezzi cliccando sul nome) con 40 dollari o poco più (30€!). 

Con i nostri occhi, lo potremmo considerare come la classica "pensioncina": nel 1866 fu progettato, costruito e utilizzato dagli stessi operai impegnati alla realizzazione della strada, restando poi in attività per il riposo dei passeggeri delle diligenze. 
Fagocitato nei decenni dalla città, oggi si trova nel centro di Princeton, al numero 86 della Main st., circondato da un curatissimo prato. Con il suo soggiorno con camino, dentro si respira decisamente una semplice atmosfera d’epoca. 

Sì, lo so: a molti la parola “motel” riporta alla memoria “Psyco” e le tetre inquietudini da “Motel Bates” di Hitchcock; in realtà gli americani considerano il motel una delle istituzioni “democratiche” del Paese. Comodo, pulito, efficiente ed economico. 
Già dalla strada sarete in grado di sapere se vi sono stanze libere o no: sotto la colorata insegna del motel, infatti spicca sempre la scritta verde al neon “Vacancy” (“Stanze disponibili”), o quella rossa “No Vacancy”, talvolta sostituita con un semplice e quasi imbarazzato “Sorry”, “Spiacenti”. 

Un modo come un altro per far risparmiare tempo e rendere più facile la vita agli automobilisti di passaggio in cerca di un tetto dove dormire.

Tutto molto semplice, perché dopo una giornata in auto se ne ha bisogno; formalità burocratiche e i prezzi impossibili degli alberghi italiani, lungo le strade americane saranno solo un ricordo. E le stanze “lillipuziane” delle nostre pensioni, poi, faranno qui la figura che si meritano.

Parcheggio gratuito, check-in rapido, pochissime formalità, solo carta di credito, spesso niente presentazione di documenti. A volte viene chiesto solo di compilare una scheda dove scrivere nome e cognome degli occupanti o la targa dell'auto. Ma è una pura formalità cautelativa, che il motel utilizzerà solo caso di danneggiamenti o  furti.
Nei motel, di norma, il pagamento della stanza è anticipato: sarete dunque liberi, l’indomani, di andarvene quando volete e senza nemmeno salutare, se siete musoni di prima mattina.

Pagamento anticipato e con carta di credito: ai gestori dei motel, dei ristoranti, dei distributori di benzina, non piace avere troppi soldi in cassa. Può, anzi, succedere di essere osservati con diffidenza se proponete di pagare in contanti: un concetto che può sbalordire i commercianti italiani, sempre un po' diffidenti verso tutto ciò che non sono contanti suonanti.

Democratici ed economici, i motel. E con le tariffe spesso ben in vista all’esterno.

Inizialmente, i primi motel - proprio come il “Bellmard Motel & Tourist Home” di Princeton, o il mio “Silver King Motor Inn” di Leadville - erano tutti piccoli alberghi a gestione familiare, forse un po' sgarrupati, con i loro nomi fantasiosi e provinciali e le loro insegne luminose vistose e colorate.

Poi, appunto, (avevo inziato con loro, ricordate?) arrivò l’estate del 1951, quando mr. Charles Kemmons Wilson, in giro per gli States con la moglie Dorothy e i figli, si rese conto che in tutti gli Stati Uniti non c’era una catena di motel in grado di offrire ai viaggiatori decenti livelli di comfort “standardizzati” senza avere i prezzi degli alberghi.
Trovava poi assolutamente scandaloso che nei motel venisse imposta una "tassa" di 2 dollari extra per ogni figlio presente in camera. E lui ne aveva cinque, di figli!

E così, dopo che nella sua testa si accese una "lampadina",  passò l’intera vacanza a misurare, sotto gli occhi perplessi della moglie, stanze su stanze.
Arrivando alla fine alla conclusione che i “suoi” motel (sì perché aveva deciso che ne avrebbe costruiti almeno 400 in giro per gli States) avrebbero avuto tutti camere identiche - tutte lunghe dieci metri e larghe quattro - con telefono, condizionatore e televisore, tutte arredate in modo identico e con il mobilio disposto dovunque sempre nell’identico modo: per dare l’impressione al viaggiatore di stare in un luogo famigliare, conosciuto, quasi fosse sempre “a casa”.

Per compensare in qualche modo la pazienza della consorte, Mr. Wilson decise che avrebbe chiamato i suoi motel “Holiday Inn”, dal titolo di un film di nove anni prima che a sua moglie piaceva tanto, quello in cui Bing Crosby cantava “White Christmas” e che lei lo obbligò a vedere (sapete come sono le donne, talvolta, no? ;-) ) almeno una decina di volte...

Il primo “Holiday Inn motel” Charles Kemmons Wilson lo aprì l’anno dopo, nel 1952, a Memphis. E in meno di venti anni ne costruì non 400 - come si era prefissato - ma ben 1500, disseminandoli in tutti gli Stati Uniti.
Con le camere tutte lunghe dieci metri e larghe quattro. E con una Bibbia sempre presente nel cassetto di uno dei comodini, visto che lui e la moglie erano cristiani praticanti.

Fu la prima catena di alberghi economici (sei dollari a notte per stanza) lungo la strada. Che presto si trasformò in una catena di alberghi "da città", non necessariamente sempre a buon prezzo. 
Ma di catene di motel, ne potrete vedere tante, sulle strade americane: motel6 (chiamata così perché, alla nascita - 1962 - anche lì una stanza costava 6 dollari a notte), Super8 (con le stanze che, originariamente, nel 1973, costavano 8,88 dollari a notte), Days InnTravelodgeQuality InnBest WesternRamadaComfort InnEconoLodge, Hampton InnHoward Johnson e così via.

Motel Super8, Grand Canyon


E' che con gli anni i motel, soprattutto quelli appartenenti a "catene", si sono un po' "alberghizzati", perdendo cioè le caratteristiche tipiche del classico motel (a un solo piano, con la porta che dà direttamente sul posto della propria auto), per assomigliare più, appunto, ad un albergo: edifici a due o tre piani con i bagagli da portare in camera dopo essere saliti due o tre piani a attraversato lunghi, anonimi, corridoi...
Le catene di motel, anche se hanno prezzi un po' più cari, offrono però alcuni vantaggi: tranquillizzano gli ansiosi che non gradiscono dormire a "piano strada" con la porta che dà direttamente verso l'esterno, e spesso offrono sconti e tariffe speciali da non farsi scappare, perché il mondo dei motel americani ne è zeppo. Bisogna solo informarsi e chiedere di usufruirne, se si pensa di averne diritto. 

Non c’è un motel, per esempio, che non offra uno sconto del 25% agli ultra sessantenni. Gli Econo Lodge lo sconto del 15% lo applicano a chi ha più di 50 anni. 
I Ramada Inn offrono un fine settimana gratis ogni dieci notti trascorse in un motel della catena, e i coniugi con due figli minorenni possono alloggiare nella stessa stanza al prezzo di una sola persona

Alcune catene di motel, poi, ospitano gratis i bambini (Wingate Inn, Fairfield InnRed Roof) mentre nei Comfort Inn e negli Hampton Inn è gratis il soggiorno anche per tutti i minori di 18 anni che viaggiano con i genitori. In quest'ultima catena è gratis, per i minori, anche la colazione; mentre nei Days Inn, invece, sono gratis per i minori di 12 anni, pasti e pernottamenti. 
Non l’ho mai provato, ma il regolamento degli Hampton Inn garantisce una notte gratuita se non si è soddisfatti di qualcosa. Ma è una norma fatta per gli americani, non per gli italiani che vogliono fare "i furbi"!

Molte di queste catene, poi, hanno tariffe speciali riservate ai possessori di tessere “frequent flyer”, come la Millemiglia Alitalia (tiratela fuori e chiedete sempre se fanno lo sconto o se quel motel fa accumulare miglia!), o a coloro che hanno noleggiato l'auto: dormire in un “Super 8” procura per esempio, infatti, il 15% di sconto se vi si arriva con un’auto noleggiata all’Alamo
In generale, poi, molti motel americani applicano uno sconto agli associati all’AAA, l’Automobile club americano, la cui sigla vedrete spesso sotto le grandi insegne dei motel. L'“AAA” agisce in regime di reciprocità: dunque se in Italia siete soci dell’Aci, non fatevi prendere dalla timidezza e tirate fuori la tessera dell'Automobile club italiano.
Io l’ho fatto, e uno sconto del 10% non mi è mai stato negato.

Ma accanto a quelli delle grandi catene, negli Stati Uniti resistono motel indipendenti sfidando il tempo e diventando così vere e proprie “istituzioni”.


Come il mitico Wigwam Motel di Holbrook, lungo uno dei tratti originali della celebre Route 66. Forse lo avrete visto in qualche fotografia o in qualche film: i 15 bungalow del “Wigwam”, infatti, sono - seppur in cemento - a forma di tenda indiana.

Le camere non sono effettivamente molto spaziose: c'è lo stretto necessario: letto, bagno e aria condizionata. Costruito nel 1950, il motel è stato interamente ristrutturato nell’88. 

Sempre per rimanere all’Ovest - se siete appassionati di cinema e passate dalle parti di Durango, nel sud del Colorado - programmate una sosta notturna a Monte Vista, sulla Hwy 160-285. Qui, dal 1964, le grandi finestre delle 60 stanze del Best Western Movie Manor Motor Inn danno sull’enorme schermo cinematografico del Drive-in antistante.
Ogni sera, da aprile a settembre, questo motel offre ai propri clienti la possibilità di essere al cinema restando comodamente nel letto della camera, godendo di una perfetta acustica, poi, grazie all’apposita cuffia audio in dotazione.

Ma l’America, ovvio, è piena di motel e alberghi davvero d’ogni tipo. Se siete amanti dell’“ultrakitch” e siete in California, provate a non farvi sfuggire almeno una notte al Madonna Inn a San Luis Obispo, la stessa cittadina californiana affacciata sull’oceano dove nacque la parola “motel”. Il “Madonna Inn” è in Madonna Road, ma l’omonima cantante italo-americana non c’entra nulla, così come non c’entra affatto il sentimento religioso.
Madonna, infatti, è il cognome della famiglia (di evidenti origini italiane) che dal 1958 gestisce questo motel.

Chi vi ha soggiornato è pronto a giurare che Alex e Phyllis Madonna, rispettivamente architetto e arredatrice d’interni, al momento della sua realizzazione dovevano aver assunto una di quelle pasticchine tanto di moda nella California degli anni ’60, magari insieme ad una fumata rituale: non sappiamo. Sta di fatto che quello che era nato per essere un  semplice motel di quaranta camere, si è via via trasformato in uno degli alberghi più bizzarri e kitch di tutti gli States; anche se loro osano definire il tutto “picturesque European Style”, “pittoresco stile europeo”. Che, per la verità, di "europeo" ha ben poco... 






















Assai “pittoresco”, appunto: diciamolo, un po' "sopra le righe"...
La sala da pranzo, la “Gold Rush Dining Room” intitolata alla corsa all’oro, è tutto un programma: potrete mangiare circondati da una giungla di rami placcati d’oro con migliaia di lampadine che vi penzolano a mo’ di frutti.
Le pareti, il soffitto, la moquette del pavimento e i divani di pelle lucida, sono tutti color rosa shocking.

Ma c'è una camera 
arredata interamente con vecchie botti da vino; o quell’altra interamente in roccia nera; c’è la camera decorata con angeli e cherubini d’oro di ogni forma e dimensione, e quella per “giovani sposi” dai delicati toni azzurri, con fiori multicolori dipinti sulle travi.


A chi mi chiede consiglio, e come ho già scritto in queste pagine, dico sempre che è sostanzialmente inutile prenotare un posto dove dormire nella parte di vacanza "on the road", che oltretutto vi vincolerebbe a fermarvi quando magari avrete ancora mezza giornata davanti: con tutta l'offerta che c'è ad ogni uscita autostradale, negli Stati Uniti non si rischia certamente di dormire in auto.
Indispensabile (anzi, obbligatorio) è prenotare l'albergo nella città dove si atterra - anche perché si deve trascrivere l'indirizzo nel modulo Esta. Per il resto, la prenotazione può essere utile solo per i pernottamenti nelle grandi città. In possesso di auto, si può anche non prenotare e scegliere un motel (decisamente più economico) alle porte della città. Come facemmo tre anni fa quando arrivammo a San Francisco. Centro della città che raggiungevamo poi con l'auto noleggiata.


Non ricordo, sinceramente, se quel motel di San Francisco fosse proprio un Holiday Inn, ma è certo che molte volte, negli Usa, ho pernottato in uno di questi motel, anche se oggi si trovano dal punto di vista economico, nella fascia "media".

Charles Kemmons Wilson, il fondatore della catena, nel 1979 cedette la società: d'altronde, quattro anni prima, aveva superato quota 1700 alberghi (altro che 400, il suo obiettivo!), con i posti letto che superavano le 300mila unità.

Niente male per uno che aveva iniziato a lavorare a sette anni, distribuendo giornali prima di andare a scuola.
Rimasto orfano a nove anni, Charles Kemmons, continuò con questi piccoli lavoretti fino a 17 anni, quando si fece prestare da un amico 50 dollari: con i quali comprò una macchina per pop corn, che iniziò a vendere in un cinema della sua città.
Ma i suoi affari andavano troppo bene e allora il padrone del cinema, invidioso, lo licenziò, per sostituirlo con una ragazza, Dorothy Lee.
Che però si innamorò di Charles e mollò il suo datore di lavoro, lasciandolo in braghe di tela. 

Dopo aver venduto la macchina per popcorn, Charles Kemmons passò ai flipper, che piazzava nei bar di Menphis.
Usò i suoi primi guadagni per comprare una casa alla madre. O meglio, la costruì in parte lui, risparmiando così 1.700 dollari.

Con i soldi risparmiati e un'ipoteca sulla casa, ricavò complessivamente 6.500 dollari, con i quali comprò  jukebox e macchine per gelato che vendeva per tutto il Tennessee e Stati vicini: la sua fonte di guadagno per alcuni anni.
Poi venne quel viaggio con la moglie Dorothy e i figli, durante il quale ebbe l'idea fulminante, quella degli Holiday Inn.

La sua Dorothy morì nel 2001; lui due anni dopo.
Quando nel 2003 fu lui ad andarsene, in mezzo a quel centinaio di persone che lo accompagnò al cimitero c'erano i suoi cinque figli, i 14 nipoti e i quattro pronipoti di cui era bisnonno.
 




© dario celli. Tutti i diritti sono riservati.

lunedì 8 aprile 2013

L'anello di Sarah

Billy Ray conosce bene quel posto. E' quello che preferisce.
Non ci sono mendicanti nelle vicinanze, c'è un buon via-vai di gente, lui è conosciuto e tutto sommato benvoluto da chi abita o da chi lavora da quelle parti; ma soprattutto lo è dai poliziotti della zona.
Non dà fastidio, e gli altri lo lasciano in pace.

Arriva con la sua bicicletta, la lega ad un palo, si siede lì davanti, per terra, piazza il bicchiere di carta davanti a sé e se ne sta lì, in silenzio, attendendo la generosità dei passanti.
Che educatamente ringrazia, quando nel bicchiere viene posata una moneta o un biglietto da un dollaro.
                              
Il posto quotidianamente preferito da Billy Ray ha di fronte - ironia della sorte - una succursale della Bank of America, e alle spalle, attraversata la strada, uno dei tanti negozi di J. Crew: sempre abbigliamento all'ultima moda. 
Beh, se ci pensate, quel punto non è male: magari a qualcuno che esce dalla banca scappa qualche bel bigliettone!
Giorni sempre uguali, tutti uguali, quelli di Billy Ray: arriva lì con la sua bici, racimola un po' di dollari per un panino in qualche fast food e pagarsi la notte in qualche ricovero, poi, via, da capo.

Non è di Kansas City, Billy Ray: ma come sia giunto lì, al nord, in Missouri, partendo da Whichita Falls, Texas, non si sa.

Perché la città dove vive oggi è ben lontana da quella dove è nato e vissuto con la sua famiglia fino al 1997: sono 491 miglia, 790 km.
7 ore e 29 minuti di auto senza soste.
O 515 miglia, 828 kilometri, se si fanno a piedi in un bel po' di mesi.


Già, perché Billy Ray (che qui sotto vediamo in una delle ultime foto fatte a casa) un giorno di 16 anni fa se ne andò dalla sua abitazione del Texas.
Senza dare nessuna spiegazione. 
Sparito, scomparso nel nulla.
Probabilmente nemmeno lui, oggi, sa bene il perché.


Lo scrivo spesso, in queste pagine: non considero affatto gli Stati Uniti il Paradiso terrestre, e chi c'è stato non ha potuto certamente non notare la presenza di homeless, di senzacasa, nelle città americane. Un fenomeno presente praticamente dovunque, nel mondo, Italia compresa.
Ma questa - la storia del 55enne Billy Ray Harris - è davvero una tipica storia americana, in tutto.
Quasi una favola.

E come in tutte le storie - o meglio, come in tutte le favole - anche in questa c'è una fata: bionda, bella, giovane.
E qui la fata si chiama Sarah Darling.
E c'è anche, ovvio, un principe azzurro: si chiama Bill Krejci, fidanzato di Sarah, che come tutti i principi azzurri (o meglio, come tutti i fidanzati come si deve) ha regalato alla sua "promessa" l'anello di fidanzamento.
Questo.
Oh, ragazzi, 'sta roba qua è mica stata trovata in un fustino del Dash, eh? Questo brillocco qua sopra vale ben più di 5000 dollari (poco più di 3800 euro, al cambio di oggi).
E poi, dai: vale il pensiero, e come "pensiero" non è poi così male, no?
(A proposito: qualcuno negli Usa mi disse che per l'anello di fidanzamento vige una sorta di regola non scritta, e cioè che il suo valore deve essere proporzionato allo stipendio del fidanzato: sei mensilità, mi pare. Le lettrici "americane" possono dare conferma?).

Ma divago, come sempre... 
Ritorniamo su quella strada di Kansan City, quella dove Billy Ray racimola qualche spiccio.

Insomma, Sarah passa davanti a lui e lascia cadere nel bicchiere un paio di biglietti da un dollaro e qualche moneta.
Solo che non si accorge che oltre al denaro, nel bicchiere, scivola anche l'anello. 
Billy Ray (che di suoni di monete se ne intende: quasi riesce a distinguere la differenza del tintinnio di ognuna di loro!) si accorge subito che quella volta la "musica" era diversa. E appena Sarah si allontana guarda dentro al bicchiere. 
E gli prende un colpo. 

Porcapupazzola! (sono certo, deve aver pensato questo!) ma questo è un anello! Un fottuto anello d'oro bianco con brillanti! Servito su un piatto d'argento... o meglio, in un bicchiere di carta.
L'occasione della sua vita, finalmente.
Anzi, una possibile occasione: perché per essere sicuro di aver fatto bingo, prima di tutto Billy Ray decide di far valutare l'anello da un gioielliere: che lo prende, lo gira, lo rigira, esaminandolo con attenzione sotto l'apposita lente. 
Gioielliere che sentenzia: "Sì, è un ottimo anello. E' di platino, e queste pietre sono diamanti. Se me lo vendi ti posso dare 4.000 dollari".
"Per tutte le miniere del Klondike! - avrebbe esclamato zio Paperone - quattromila dollari!"

Cosa avrebbe potuto fare, Billy Ray, con quattromila dollari? 
Quanto tempo avrebbe potuto vivere lui, con tutti quei soldi, a lui che di dollari, per vivere, ne bastavano una manciata al giorno?

Già, ma...

"Ma mio nonno era Pastore, un Reverendo, ed io ho avuto una educazione cristiana", ha poi raccontato il nostro. 
Dunque Billy Ray ha ringraziato il gioielliere ed è tornato a guardare i soldi degli altri dal suo solito posto, quello di fronte alla succursale della Bank of America. 

Sarah, Sarah... Che razza di colpo ti è preso quando ti sei accarezzata la mano sinistra, quando ti sei accorta che l'anello di Bill non c'era più? 
Immagino la scena (la immaginate anche voi, amiche lettrici, vero?): da quell'istante Sarah lo ha cercato come una matta, colma d'ansia.  Dappertutto: in casa, in ufficio, nei negozi dov'era stata negli ultimi giorni, nella sua auto, a casa di un'amica, in tutti i bagni dov'era si era lavata le mani in quei due giorni... 
Ma niente.
Niente di niente.

Due giorni d'angoscia, due giorni passati a setacciare tutti i posti setacciabili. Poi Sarah ripassa davanti a quella succursale della Bank of America. Dove Billy Ray, seduto per terra, la aspettava, pensando, da due giorni "Ma quanto caspita ci impiega a passare, quella là?? Io non posso rintracciarla!"

Come pervasa da intuizione divina, arrivata davanti a Billy Ray lei sbarra gli occhi e si blocca.

Poi lo saluta, gli si accovaccia accanto, e gli sussurra: "Forse hai qualcosa di prezioso da darmi..."
E lui: "Era un anello?"
"Sì..."
Billy Ray sorrideva mentre si stava mettendo la mano in tasca. Ma soprattutto le sorrise quando aprì il pugno davanti agli occhi stupefatti di lei:
"Beh, ce l'ho. Eccolo...".

Possiamo solo immaginarla, la faccia di Sarah quando vide l'anello che il suo Bill le aveva regalato, e possiamo immaginare la sensazione di Sarah mentre lo stringeva nuovamente in mano.
Rideva e saltava in mezzo al marciapiede come una matta, abbracciando e baciando poi Billy Ray senza fermarsi. E sì che gli americani non è che sbaciucchino tanto gli sconosciuti...



 


 







Non capitava spesso, a Billy Ray di chiacchierare con qualcuno. Ma quella volta Sarah volle sapere tutto di lui.

Gli chiese subito perché non si era tenuto lui l'anello, e Billy Ray gli rispose nel modo più semplice: "Sono rimasto orfano a sei mesi e da allora sono stato cresciuto da mio nonno, che era Pastore: e lui mi ha educato secondo i princìpi cristiani ed io ho imparato a ringraziare il buon Dio ogni giorno. Non potevo tenermi il tuo anello".

Sarah, in quel momento, non riuscì a fare null'altro che dargli tutti i soldi che aveva nel portafoglio: fino all'ultimo centesimo. Poi telefonò immediatamente al suo Bill, che - immagino - deve aver passato due giorni con (diciamo...) le balle che gli giravano assai... 

Tornarono insieme da Billy Ray l'indomani: lì, al solito posto, davanti alla banca.
Ed è a quel punto che Billy Ray racconta la sua storia.
Che è una storia uguale a quella di tanti senza fissa dimora, e che può sembrare assurda. Ma tante storie sono così: vero Paola? (Paola è una mia amica che a Roma lavora proprio con/per queste persone...).

E allora Billy Ray racconta che un giorno di sedici anni prima, se n'era andato di casa improvvisamente, senza dir niente ai familiari: "Ero un po' giù, e ho pensato che allontanarmi per un po' mi avrebbe fatto bene", ha raccontato a Sarah e Bill.
Soltanto che Billy Ray è letteralmente sparito nel nulla.
E basta poco in questo mondo (e non solo negli Stati Uniti...) per diventare "invisibili".

E' la solita storia, che la mia amica Paola conosce benissimo. In questo caso Wichita Falls può essere tranquillamente Pordenone, o Bari, o Ancona; e Kansan City può essere, appunto, Roma.

Come e in quanto tempo lui abbia fatto quegli 800 chilometri non si sa. Si sa solo - è Billy Ray a raccontarlo a loro - che è da allora, dalla fine degli anni '90, che ha perso ogni contatto con i suoi familiari, con le sue sorelle, con suo fratello.

Loro, forse, lo avranno anche cercato, ma è una impresa improba in una nazione dove non esiste una anagrafe centrale (per 313 milioni di abitanti??), non è obbligatorio possedere un documento di identità e soprattutto la polizia non può identificare nessuno "a capriccio", magari perché hai la pelle di un certo colore, o perché sei vestito in un certo modo, o perché sembri straniero.
C'è una scena che spiega benissimo la situazione: è contenuta nel film "Terminal", con Tom Hanks, il cui personaggio è rimasto incastrato nel limbo dell'aeroporto Jfk di New York dopo il dissoversi dello Stato dell'orbita sovietica dal quale proveniva: con il suo passaporto che era diventato non più valido. Il dialogo davanti alle porte a vetro d'uscita dell'aeroporto è fra l'Ispettore governativo dell'Immigrazione e il funzionario dell'aeroporto: "Vedi, una volta superate quelle porte, chiunque può sparire nel nulla, in mezzo a 300 milioni di persone...".


Ma questo non è un film.
E' una storia vera.
E questa è l'America.

E allora Bill Krejci e Sarah Darling hanno deciso che era giusto dare una mano a Billy Ray, uno dei tanti "ultimo fra gli ultimi", per di più dalla specchiata moralità.

Intanto hanno immediatamente aperto questa pagina su GiveForward, sito dove chiunque può raccogliere fondi per una causa o per una persona bisognosa.
Poi un amico della coppia ha telefonato alla redazione di KCTV5, la principale stazione tv della città, raccontando tutto. E ovviamente la televisione ha fatto subito un servizio e così sulla pagina di GiveForward sono iniziate a piovere i primi contributi.

Ma non c'è bisogno di essere giornalisti per capire quanto fosse "ghiotta" questa storia. 
Così come non deve aver impiegato molto il direttore di KCTV5 per far capire ai colleghi di New York della Cbs - il network nazionale al quale la sua televisione è associata - il "valore" di questa notizia che arrivava da Kansas City. Insomma: con i servizi della Cbs, della Cnn, della Abc, della Nbc la storia di Billy Ray Harris, ripresa anche poi dalle agenzie di stampa, in poche ore ha fatto il giro di tutti gli Stati Uniti e del mondo.

Poi venne il turno dei "talk show": come Today, la seguitissima trasmissione domenicale del network Nbc
Era la prima volta che Billy Ray andava a New York...
"No, in realtà non ho mai smesso di pensare alla mia famiglia: ero molto preoccupato per loro... Avevo perso ogni contatto con loro dagli anni '90, e più passava il tempo più diventava difficile, per me, ricercarli...", ha raccontato Billy Ray ad una giornalista in studio abbastanza abituata a queste vicende, così incomprensibili per noi italiani. 
"Sono sempre stato convinto che non li avrei più rivisti, perché ogni volta che volevo cercarli poi, alla fine, ho sempre lasciato perdere...", ha detto l'uomo in tv.

Proprio...
Proprio mentre ad una ragazza texana, in quel momento davanti alla tv, stava venendo un collasso...

Sentendo quella voce e vedendo quel volto, Robin Harris, sorella di Billy Ray, rimase "di pietra": alle prime parole di questa storia, intuì subito di chi la televisione stesse parlando, e in quel preciso momento cadde a terra la pila di piatti che aveva fra le mani. 
Riuscì soltanto a correre al telefono e urlare al centralino della Nbc che lei era la sorella di Billy Ray: "E' mio fratello! Lo cerchiamo da 16 anni! E' mio fratello!! Ormai lo credevamo morto! La polizia ci disse che era certamente morto da qualche parte e che dovevamo metterci il cuore in pace".
Poi si è subito attaccata al telefono, per avvisare gli altri familiari, sparsi per il Texas.

Ok, a noi italiani queste sembrano storie assurde, ed effettivamente incredibile è stato poi lo sviluppo di questa storia, tipicamente - scrivevo qualche riga sopra - "americana".

Sul conto intestato a Billy Ray su GiveForward.com, prima 5000, poi 6000, poi 8000 persone, avevano complessivamente versato a colpi di uno, due, cinque dollari, prima 50.000 dollari, e poi 100.000, e poi 150.000 dollari!
E i versamenti non si fermavano...

E un altro degli sviluppi tipicamente americani è che di fronte a questa improvvisa fortuna, l'ex "barbone" Billy Ray ha deciso di assumere un consulente finanziario-giuridico che gestisca in modo adeguato il suo fondo. Così lui non avrebbe fatto cazzate...

Oggi, poi, Billy Ray Harris non dorme più nei dormitori o per strada, ma ha una casa in affitto; ha anche trovato lavoro grazie ad una rock band locale che lo ha assunto come roadie, e ha anche un documento di identità.

La Nbc ha fatto poi di tutto, riuscendoci, per avere i tre protagonisti di questa storia insieme in studio durante il Today della settimana successiva.
E così, per la seconda volta nella vita nel giro di poche settimane, Billy Ray è di nuovo a New York, e in uno studio televisivo, ma questa volta con i suoi due "amici". 

Dove poi arriva la "Carrambata"...

Dopo essere scomparso nel nulla 16 anni prima, dopo che la polizia lo diede per morto, in diretta televisiva ecco che Billy Ray Harris incontra il fratello Edwin e le sorelle Robin, Elsie e Nellie.











Billy Ray Harris, a homeless man who garnered national attention for returning a woman’s diamond and platinum ring, reunited with his sister, left, on Sunday after 16 years apart.

"Ogni tanto noi giornalisti facciamo qualcosa di sensato" ha commentato la conduttrice della trasmissione, quando ha visto Billy Ray abbracciare quasi piangendo uno ad uno i suoi familiari.


Harris was planning to finally see his family in person this summer, but the “Today” show decided to speed up the reunion.


Al momento in cui leggete, mancano ancora 24 giorni al termine della raccolta fondi per Billy Ray Harris
Finora, 8323 8325 8328 8329 8332 8333 8338 8340 persone gli hanno donato 190.768 190.803 190.867 190.895 190.960 191.004 191.019 dollari, quasi più di 146.400 euro.
E lì in mezzo ci sono anche i miei umili dieci dollari (7 euro e 63 cent. Basta avere una carta di credito o postepay, per contribuire)...
:-)



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