PERSONE CHE HANNO LETTO O CURIOSATO

sabato 30 dicembre 2017

"Ehi, Go-Go!!"

La signora Maria Actis, 85 anni, è emigrata in America, dal Piemonte, una vita fa. 
Forse 50, 60 anni fa...

Ben Actis - suo nipote che fa l'ingegnere a San Francisco - le fa vedere "Google Home Device", la risposta di Google a Siri della Apple, l'ultima diavoleria regalategli dalla sua ragazza che, appunto, lavora proprio alla Google.

"Puoi chiedere quello che vuoi e lei ti risponderà", le dice.

Allora lei prova, e quasi si spaventa a sentire quella macchinetta che, parlando, le risponde.

Poi le chiede, cantandola, di sentire "Piemontesina Bella", canzone tradizionale degli emigranti piemontesi.

Esilarante ma soprattutto commovente...




mercoledì 22 novembre 2017

Ritorno a casa...

Anche se ha origine cristiane, il Thanksgiving è diventata, negli Stati Uniti, la festa "laica" per eccellenza, celebrata dagli americani di tutte le religioni. 

E' tradizione che durante questo periodo di festa (che parte il quarto giovedì di novembre) ogni americano torni a casa in famiglia. 
E, infatti, in questi giorni negli Usa si registrano i giorni di maggior traffico automobilistico: più di 50 milioni di auto sono sulle strade americane

Questo quello che è stato ripreso, l'anno scorso, a Los Angeles, da un elicottero di una tv locale.
 
 


sabato 11 novembre 2017

"Green Card - La mia nuova vita a New York"

Questa volta vi voglio raccomandare un libro.
E' il libro dove Nicola Menicacci, uno dei fortunati vincitori della Green Card Lotteryracconta la sua esperienza, la realizzazione del suo sogno.

Perché esistono davvero coloro che, partecipando alla Lotteria, sono poi stati sorteggiati. 
Persone che ora vivono negli Stati Uniti d'America.


Di questo libro io ho avuto il privilegio di scriverne la prefazione, che ho steso dopo aver letto le bozze in aereo mentre raggiungevo qualche mese fa, per l'ennesima volta, Nuova York.
E leggendole ho sorriso, trattenuto il respiro, sentito i brividi. Così come, sono certo, capiterà anche a voi.

Ma so che i miei, i nostri brividi, sono e saranno nulla al confronto di quelli che hanno provato sulla loro pelle Nicola e la moglie Rosa dal giorno in cui hanno saputo cosa il destino - che hanno cercato di agevolare, partecipando alla Green Card Lottery - aveva riservato loro. 
Dal giorno in cui hanno iniziato a pensare davvero (e in pratica) a come realizzare il sogno americano che avevano dentro.

E' un bel libro, questo libro.
E' un seguire Nicola passo dopo passo in questa avventura, uno stargli vicino, al fianco, in silenzio.
Come vecchi e cari amici. 

E poi è facile "sentirlo" dentro di noi questo libro, mentre lo si legge.
Perché diciamoci la verità: quanti di noi non hanno sognato di chiudere un giorno "baracca e burattini" per ricominciare poi "da zero" in un'altra parte del mondo, forti solo della nostra volontà e del nostro sogno?

Vedrete, sono certo che pagina dopo pagina molti di voi si identificheranno in Nicola e Rosa.
Molti di voi "sentiranno" le loro sensazioni, le loro paure, la loro ansia unita alla testarda voglia di ricominciare da zero da qualche parte.
Che è poi un diritto di cui ogni essere umano dovrebbe poter godere.

Già: questo è un libro perfetto per noi sognatori. 

Solo che ci dice anche che c'è un solo modo per realizzare un sogno: ed è svegliarsi.  
Magari iniziando proprio a leggere questo libro.

Buon viaggio a tutti voi.


(Il modo più veloce per aver fra le mani "Green Card - La mia nuova vita a New Yorkè ordinarlo on line. 
Pensate: non dovrete nemmeno prendere l'auto o l'autobus. 
Basta aspettarlo comodamente a casa.
Oppure averlo "all'istante"  in versione eBook, formato Kindle, Epub o Mobi - pagando, s'intende - dopo avere cliccato QUI o QUI o QUI).


Tutte le informazioni sulla Green Card Lottery le potrete leggere cliccando QUI


venerdì 10 novembre 2017

Finalmente i voli "low cost" per New York e gli Stati Uniti!

Alla fine l'aereo è decollato (ed è anche arrivato!)...

Era da tempo che giravano voci in merito, e c'è da scommettere che ora - almeno ce lo auguriamo tutti -  ci sarà una "corsa al ribasso", e che altre compagnie aeree offriranno ai passeggeri voli per New York a "basso prezzo".
Magari ancora più "low"...
"Low cost", appunto.


Il primo volo della Norwegian è partito ieri da Roma (Fiumicino) ed è atterrato all'aeroporto di Newark.

Il prezzo "standard" di questi voli (solo andata) è di 159 euro, anche se spulciando data per data, con pazienza, il calendario della compagnia aerea "a basso costo" norvegese QUI, si possono trovare (per esempio per domenica 21 gennaio) anche biglietti a 139 euro.
Sempre "a tratta" e tasse incluse.

Come potrete vedere, 139/159 €uro sono i prezzi "base" per il solo posto a sedere e con solo bagaglio a mano. Che non dovrà superare i 10 kg e i 55cmX40cm per una profondità di 23cm.


Poi, tutto il resto, si paga:
35 € per prenotare il posto
50 € per il bagaglio in stiva
35 € per un pasto a bordo (da prenotare 72 ore prima di partire)
3 € per le cuffiette
e financo 5 € (!) per la coperta.
In questi velivoli (nuovissimi Boeing 787 Dreamliner) ci sono 259 posti in classe economia (tre posti, corridoio, tre posti, corridoio, tre posti)
e 32 posti in "premium", decisamente più comodi: con meno sedili più larghi (in fila per due, per tre, e per due) e un bel po' di centimetri di spazio in più fra una fila e l'altra.
Per un costo, in questo caso, che però si avvicina a quello delle normali tariffe di classe economica delle altre compagnie aeree.

Businness Class, da questa parti, non ce n'è.
In compenso, per voli di questo raggio, c'è il Wi-Fi gratuito, in funzione quando il segnale "allacciate le cinture" si spegne.

Bisogna sottolineare che la "Norwegian Air Shuttle A SA" - questo il nome completo della Compagnia aerea - per il terzo anno consecutivo è stata proclamata dagli esperti del settore "miglior compagnia aerea 'low cost' lungo raggio al mondo" mentre è da cinque anni che si tiene stretto il podio della classifica fra le analoghe compagnie europee.

Ma i progetti di espansione commerciale della Compagnia di Oslo non si limitano alla tratta "Roma-New York": domani, 11 novembre, partiranno i loro voli a basso costo per Los Angeles, mentre il 6 febbraio toccherà a quelli per San Francisco.
Entrambi costeranno 179,90€ (tasse comprese) a tratta.

Il 1 febbraio 2018, invece, saranno inaugurati i voli per Miami/Fort Lauderdale, questa volta a partire da 182,92€, sempre a tratta e tasse comprese.

In effetti, da Milano, esistono voli della Emirates di prezzi non molto distanti, ma che diventano non convenienti per chi abita lontano dal capoluogo lombardo.

Ma poi, una volta atterrati, ci sono tanti modi per risparmiare, a New York.
A volte anche pagando nulla o quasi, come potrete leggere

QUI.

Buon volo!



venerdì 3 novembre 2017

L'amore di Maria

Ferrandina, è un grazioso comune in provincia di Matera abitato, oggi, da poco più di novemila persone.
Adagiato su una collina di nemmeno 500 metri di altitudine, le sue case si sviluppano partendo dalla piazza principale e via via scendono verso valle.
Attorno alla collina, campi coltivati.
C'erano solo due proprietari, di tutto questo (città e campagna, intendo): due famiglie durante il Regno delle Due Sicilie dei Borbone e due famiglie (ovviamente sempre le stesse) durante il Regno d'Italia dei Savoja-Carignano.
Insomma, come disse alla fine del 1400 lo scrittore toscano (e politico assai pragmatico) Francesco Guicciardini, "Franza o Spagna, basta che se magna...".

Ma Borbone o Savoia si mangiava poco da quelle parti, e miseria, fame e morte erano sempre lì, pronte a presentare il conto.
I bambini nascevano, ma spesso per morire subito dopo: una dolorosa probabilità alla quale si erano ormai abituate, le donne del luogo.
Filomena, per esempio, madre di Maria (la protagonista della nostra storia) di figli ne aveva visti morire fra le sue braccia ben quattro. E poco poteva fare il di lei marito, Michele Barbella.
Anzi faceva quasi l'impossibile, dividendosi fra i campi, dove coltivava qualcosa da mangiare, e il lavoro di sarto, grazie al quale confezionava camicie e vestiti che lui non poteva permettersi.

A valle, più in basso, ancora oggi c'è Ferrandina scalo: quattro case lungo la ferrovia, quella che collegava il paesino al resto del mondo.
38 chilometri per arrivare a Matera, 78 per raggiungere Potenza, 443 per spingersi fino a Roma e...
7253 chilometri per andare fino a Nuova York.

Perché alla fine era lì che avevano deciso di andare, per non morire di fame. E possiamo solo immaginare gli sforzi che Filomena e Michele fecero per racimolare le lire necessarie per raggiungere il Nuovo Mondo, in quel novembre del 1892.
Sforzi immensi, ma al paese di alternative non c'erano.
Per primo partì - in "avanscoperta" - il figlio Giuseppe, che gli archivi di Ellis Island (dove venivano registrati tutti coloro che arrivavano in America) annotarono proveniente però da "Feccandina, Italy". 
Ma non era raro, a quel tempo, che sbagliassero a trascrivere i nomi italiani, magari già nell'elenco passeggeri delle navi: a lui, almeno, avevano salvato il cognome.

La famiglia Barbella si riunì nel corso del 1892, quando Giuseppe fu raggiunto nel Nuovo Mondo dal padre Michele, dalla madre Filomena, dalle sorelle e dai fratelli: Maria, Antonia, Carlo, Giovanni e Carmela.
E beh: bisogna dire che lì, a Nuova York, la "musica" era decisamente diversa. Maria - che aveva imparato dal padre l'arte del taglio e cucito - nonostante avesse solo 17 anni mise subito a frutto le sue capacità sartoriali lavorando per la fabbrica tessile "Louis Graner & Co", che a quel tempo produceva soprattutto calde mantelle per ripararsi dal freddo e dalla pioggia. E poi, finito il turno, a casa.
Tagliando e cucendo, giorno e notte, riusciva anche a tirar su ben otto dollari la settimana.
Un sogno, in Italia.


Abitavano in Elisabeth st, e ogni giorno per andare sulla Broadway all'angolo con Spring st., dove lavorava, si faceva un bel giretto a piedi in mezzo a quel dedalo di vie abitate quasi interamente da italiani, e quasi tutti provenienti dal meridione d'Italia. 
Era proprio come sentirsi a casa. 

Da quelle parti, proprio fra il Tribunale e il Municipio, su Elm st. (che oggi si chiama Elk st.), Maria passava davanti al piccolo chiosco di un lustrascarpe. Si chiamava Domenico, ed era italiano, anzi quasi compaesano, emigrato da Chiaromonte, un paesino a 79 km da Ferrandina: Domenico, che di cognome faceva Cataldo.

Era uno sveglio, Domenico: e bastò uno sguardo per fargli intuire che quella ragazza era italiana. Fin dal primo giorno che la vide la riempì di complimenti.

E a lei quanto piaceva quel ragazzo, per di più assai "in carne" (ben nutrito, dunque probabilmente con soldi!). 
Lo aveva sempre osservato senza farsi vedere, con la "coda dell'occhio", come si conviene ad una ragazza educata: ma da subito fu conquistata dal fascino che quell'omone emanava, con quei capelli sempre perfettamente impomatati e quegli occhi con cui divorava le donne.
Donne, ne era certa, che si sarebbero volentieri fatte divorare da lui.  

Sembrava già uomo fatto e gli ricordava un po' Rodolfo Valentino, anche se Domenico aveva i baffi ed era più rotondetto. E anche se di lavoro lui non faceva l'attore, ma il lustrascarpe.

Come vi ho detto, lui, ovvio, notò Maria fin dal primo giorno: d'altronde lei era giovane, sempre ben vestita e profumava di pulito. E ogni giorno Domenico rimaneva senza fiato quando quel fiore gli passava davanti.

Ogni volta faceva un po' lo spiritoso: prima un sorriso, poi un complimento, a volte solo un sospiro un po' plateale, fino a quando, un giorno, si spinse persino a pronunciare a voce alta una battuta galante. Con lei che tirava sempre dritto senza (dargli l'impressione di) guardarlo, con lo sguardo basso e un po' furtivo.


Ma ogni giorno di più, con il sorriso sulle labbra.
Un gioco e una sorpresa, per quella ragazza ventiduenne  che quasi non diceva una parola in inglese: un mezzo miracolo per lei, che non si riteneva per nulla attraente.

Finché...
Finché una sera lei non abbassò più gli occhi e rispose al saluto del suo cavaliere.
Eh sì: quella volta fu lui a rimanere sbalordito.
Lei gli aveva parlato! Gli aveva rivolto la parola e sorriso!

Andarono avanti così per qualche settimana: un saluto, un sorriso, un cenno con la testa e poi "arrivederci a domani!",
poi "faccio un pezzo di strada con voi", e poi "Chissà cosa penserà mio padre se ci vede insieme", e "Cosa può mai pensare: io vi accompagno soltanto davanti a casa"...
Era un appuntamento quotidiano: anzi, un doppio appuntamento che entrambi, giorno dopo giorno, senza dirlo, aspettavano con impazienza.

Ogni tanto era talmente emozionata di quello che le stava succedendo, che si sentiva mancare.
Anzi, quasi perdeva conoscenza.
Scherzi dell'amore, pensava. D'altronde anche da bambina le accadeva di vivere momenti di assenza...

E come volavano le ore alla "Louis Graner & Co" sapendo che fuori, poi, ci sarebbe stato lui, il suo Domenico, ad aspettarla.

Lui che la faceva ridere e le diceva mille cose: come quando, sottovoce, le confessò che in quegli anni, in America, aveva messo da parte qualcosa come 900 e più dollari! "E sì: se trovo la ragazza giusta la sposerò...", le diceva "buttando lì l'amo".
C'era una cosa strana, però: anche dopo due mesi, quel ragazzo evitava sempre - ogni giorno con una scusa differente - di salire a casa per conoscere mamma Filomena, papà Michele e il resto della famiglia di Maria. 

Ma si sa: l'America è come un grande paese, e ancor più lo è Nuova York. Figuriamoci la "piccola Italia" di quel tempo.
E infatti il padre di Maria non impiegò molto a sapere che quel giovanotto - quello con cui sua figlia si faceva vedere in giro - in Italia, al paese, aveva una moglie e due figli.

Quel giorno, quando Maria tornò a casa, non ci fu bisogno nemmeno di parlare: a lei bastò incrociare lo sguardo del padre per capire che era successo qualcosa di terribile.

Solo in quel momento Maria ebbe l'illuminazione, capendo finalmente perché il suo Domenico non voleva mai salire in casa: non era né timidezza, né (tantomeno!) buona educazione. Il motivo era molto più semplice: non voleva presentarsi ai genitori di lei perché così come era messo, non poteva "entrare in famiglia".

Il padre fu irremovibile: "Non puoi vederlo più, quel disgraziato non ti merita".

New York era grande già allora: e infatti i due ragazzi riuscirono a non incrociarsi per tre anni. Lei, infatti, là davanti al chiosco di Domenico non passò più e poi, per andare al lavoro o tornare a casa, cambiava strada ogni giorno.
Anche Domenico i primi tempi fu prudente e cambiò le sue abitudini: meglio, perché sapeva che rischiava di buscarsele dal signor Michele, se solo si fossero incrociati anche per sbaglio.
Padre che, nel frattempo, impose a Maria anche di cambiare lavoro. Così quello là, non avrebbe avuto nessuna speranza di trovarla.

Lui smise di cercarla un giorno di marzo del 1895 quando, per puro caso, la incrociò per strada.
E si sa come vanno queste cose: anche se erano passati tre anni, non ci volle molto perché l'una tornasse fra le braccia dell'altro. 
Soprattutto perché lui le disse di non averla mai dimenticata, che la moglie in Italia era ormai solo un ricordo, che non si scrivevano nemmeno più. Aggiungendo, poi, che quei tre anni in cui non si erano più visti per lui erano stati un inferno, e che ormai aveva capito che nella sua vita c'era solo lei.

Come andò a finire quel loro incontro? 
Come volete che sia andato a finire, cari amici di Aria Fritta... 

Finì che Maria, innamorata come non mai, si lasciò stringere fra le sue braccia. 
Finì che accettò di salire in casa da lui.
Finì che accettò "qualcosa da bere".
Finì che lei si sdraiò un momento sul letto.

Dove fecero l'amore. 
E dopo che lei gli donò tutta se stessa, lui le disse all'orecchio cinque parole che le fecero tremare il cuore: "Te lo prometto, ci sposeremo".

Era quello che voleva sentirsi dire per restare con lui per sempre. 
E infatti decise di trasferirsi lì, a casa del suo uomo. 
D'altronde, di lì a poco, sarebbe diventata sua moglie.

Era davvero il suo amore.
L'amore di Maria.


In realtà fu l'inizio del disastro.
Fra i due, i momenti di tenerezza e di passione si alternavano a periodi di promesse e a momenti in cui lui tutto dimostrava tranne che le sue matrimoniali intenzioni.

Fino al 26 aprile del 1895, quando dopo l'ennesima promessa seguita dall'ennesima lite, lui alzò la voce, la mandò al diavolo e se ne uscì sbattendo la porta, lasciando la ragazza sola in casa, disperata, a piangere. 


Quel giorno fu la madre di Maria a prendere in mano la situazione. 


Fu una vicina a metterla al corrente della cosa, e quando arrivò a casa della figlia la trovò piangente mentre sistemava la cucina: "Andiamo a parlargli insieme: vedrai che lo convinceremo. Andrà tutto bene...".
Lei chiese alla madre di aspettare un momento, che aveva bisogno di prendere lo scialle in cucina.

Non ci impiegarono molto a raggiungere Domenico, le due donne. Sapevano entrambe che lo avrebbero trovato al solito bar della East 13a st dove ogni giorno lui andava a giocare a carte.
Il bar di Vincenzo e Caterina Mancuso.

E lui, infatti, era lì con le carte in mano ad un tavolo, di fronte al quale la ragazza singhiozzava, con la madre che lo implorò: "Anche tu sei italiano, tu lo puoi capire: ora che tu le hai preso la cosa più preziosa, il padre non l'accetta più a casa".

La reazione di lui fu sprezzante: guardò le due donne e si mise a ridere.
Rise sguaiatamente in faccia alla giovane che aveva illuso, ma soprattutto alla madre di lei.

I verbali della polizia raccontano che lui, dopo essersi fatto la risata, in dialetto e con un tono che non nascondeva il suo disprezzo, rispose che non poteva certo sposare una ragazza che non aveva "nemmeno il vestito adatto".

Un testimone riferì che allora la ragazza, fra i singhiozzi, disse che non le importava niente del vestito, che lei lo amava e che era pronta a sposarlo subito, anche in quel momento: "Così come sono ora!", disse.

Un altro testimone dichiarò che lui, a quel punto, aggiunse che era anche disposto a sposarla, ma "a patto che lei avesse duecento dollari di dote. E in contanti". E che mentre la madre cercava di spiegargli che si trattava di una cifra pazzesca, che loro erano poveri e non avevano tutti quei soldi, quel disgraziato, ridendo, ringhiò: "Ma cosa vuoi... Ormai, così come sei, solo un porco potrà sposarti!".

"Ormai...".
"Solo un porco".

Mio Dio...

Dopo quelle parole, tutti rimasero a bocca aperta: la madre Filomena, la giovane Maria, gli altri uomini presenti al tavolo, tutti gli avventori del bar.
Tutti immobili, senza fiato. Come se avessero intuito che qualcosa di terribile sarebbe accaduto lì, da un momento all'altro.

I verbali di polizia ci dicono ancora che a quel punto Maria smise di piangere. E che guardò il suo (ex) amore con occhi diversi, strani. 
In quelle righe si legge che lei, con uno sguardo come se fosse stata da un'altra parte, piano piano calò lo scialle che nascondeva i capelli e le braccia nude da sguardi indiscreti.

Scialle che scese fino a scoprire la mano destra.
Che impugnava un coltello.
Un grande coltello da cucina appena lavato.

Il primo colpo di Maria fu fulmineo. E preciso.
La lama tagliò la gola di Domenico Cataldo da destra a sinistra.
Poi arrivò il secondo, qualche centimetro più sotto, questa volta da sinistra a destra.

Lui non fece in tempo a dire nulla.

Dai suoi occhi non uscivano più sguardi minacciosi o strafottenti: Domenico riuscì solo a fare qualche passo indietro barcollando verso l'uscita e a trascinarsi
 tenendosi la gola verso l'angolo dell'Avenue A. 
Dove si inginocchiò con gli occhi sbarrati, increduli, mentre le sue mani non riuscivano a trattenere il sangue che dalla gola usciva ritmicamente a flutti, imbrattando il marciapiede.

Poi, sfinito, Domenico Cataldo cadde completamente a terra e fece un ultimo respiro.

Maria Barbella non tentò nemmeno di scappare: rimase lì, intontita, con il coltello insanguinato in mano. 
E così la trovarono i poliziotti che arrivarono di corsa. 
Che la portarono subito via, rinchiudendola quella sera stessa a The Tombs, la prigione di Nuova York, e  dopo qualche giorno, in quella di Sing Sing, il carcere di massima sicurezza dello Stato di New York.
Dove, dalla sua cella, non poteva nemmeno vedere il cielo, visto che i vetri erano stati verniciati di nero.

Il processo iniziò nemmeno tre mesi dopo, l'11 luglio. L'aula del tribunale era gremita da un centinaio di persone che si erano tuffate nella vicenda leggendo avidamente per settimane articoli scandalizzati e prodighi di particolari truculenti.


Gli elementi per una campagna di stampa ostile c'erano tutti ed erano in atto già dal giorno del delitto.

Responsabile dell'orribile fatto di sangue era una donna, per di più emigrata;
anzi italiana; di più, del sud Italia;
una malafemmina quasi analfabeta che aveva corrotto un onesto lavoratore, padre di famiglia che sudava per inviare il denaro alla moglie e ai figli lontani.

Una giovane sfascia-famiglie diventata per di più assassina: una giovane donna corrotta dentro che non solo non ha saputo resistere alla tentazione (come da donna avrebbe dovuto saper fare), ma che poi ha ammazzato con due colpi di coltello un pover'uomo che non poteva, né voleva darle, ciò che lei con protervia pretendeva. 

"Perché gli italiani sono così", si poteva leggere in uno di quegli articoli sotto terribili titoli cubitali: "Non c'è niente da fare: gli italiani sono veloci di coltello. Donne comprese, come abbiamo visto"

Al processo, Maria appariva come intontita in mezzo a tutto quel clamore. 
Anche perché riusciva a capire ben poco di quel che veniva detto in aula. C'era sì un interprete, solo che questo quasi non conosceva l'inglese. E dunque le giustificazioni, le accorate dichiarazioni dell'imputata, venivano tradotte sommariamente alla Corte, presieduta dall'annoiato giudice John W. Goff.
O alla giuria popolare. 
Formata interamente da uomini, tutti anglosassoni con sguardi molto severi e scandalizzati.

Eccoli qui con l'imputata al centro, nell'illustrazione di un giornale locale che sbagliò persino il cognome della giovane.
Non era da meglio la sua difesa: all'imputata Maria Barbella, venne assegnato un legale d'ufficio, visto che la sua famiglia non era in grado di pagare un avvocato decente. 
E quello che le capitò fu debole, svogliato, rassegnato al peggio.

E il "peggio" in questione era la pena di morte mediante sedia elettrica.

Ne parlarono molto i giornali e anche con un certo entusiasmo: perché, quella, sarebbe stata la prima volta per lo Stato di New York dove fino ad allora, per giustiziare un condannato alla pena capitale, veniva utilizzata l'impiccagione.
Anzi, Maria sarebbe stata addirittura la prima donna a subire una condanna a morte negli Stati Uniti dopo il 1899, anno in cui venne introdotta nel sistema giudiziario americano.

Perché, alla fine, come era già scritto dal primo giorno, Maria Barbella venne condannata. D'altronde anche il giudice aveva chiaramente detto la sua: "Non possiamo pubblicamente proclamare una donna 'non colpevole' solo perché l'uomo che le ha proposto il matrimonio ha poi cambiato idea...".

"Il codice americano ha trionfato su quello italiano - commentava con soddisfazione in un editoriale il quotidiano "Brooklyn Daily Eagle" -. Qui siamo negli Stati Uniti, non in Italia, e gli italiani che vengono qui devono imparare che da noi coltelli e rasoi, come strumenti di giustizia, sono proibiti. D'altronde, in Italia, una ragazza che uccide chi l'ha ingannata non viene punita. Anzi, secondo i loro criteri, fa pure una cosa giusta.
Ma qui non siamo in Italia..."
.

E non erano da meno gli altri giornali.

Cinque giorni, durò il processo.
Che si concluse con la condanna a morte.
Alla sedia elettrica, mai utilizzata per una pena capitale, ma che le pressioni lobbistiche della Edison - gestore insieme alla Westinghouse della distribuzione dell'energia elettrica negli Usa - imposero in sostituzione del tradizionale cappio, ritenuto troppo "medioevale".

La notizia, con i suoi tempi, fece il giro del mondo e arrivò, ovviamente, anche in Italia, dove Cora Slocomb Savorgnan di Brazzà, giovane americana con simpatie socialiste sposata ad un conte italiano, la conobbe leggendo il titolo del New York Times riportato qui sotto, che dopo un mese di navigazione arrivava in Italia.
«Ucciso perché rifiuta di sposarla. Una giovane donna, Maria Barbella, taglia la gola a Domenico Cataldo», si leggeva poi nell'articolo del quotidiano.
«La sentenza sarà eseguita a Sing Sing il 19 agosto.
Sarà la prima donna ad essere giustiziata con la sedia elettrica».


Ricca aristocratica, figlia di un latifondista americano, Cora Slocomb era sposata con il conte Detalmo Savorgnan di Brazzà, fratello dell'esploratore italiano Pietro Brazzà - da cui prese il nome la capitale del Congo, Brazzaville.
La donna si appassionò al caso, peraltro come migliaia di "suffragette" americane, protofemministe in una società patriarcale che negava alle donne i più elementari diritti. 
Primo fra tutti quello di voto (e di scegliersi liberamente il marito...).

Cora e Detalmo, dunque, vennero in America un bel po' di volte per seguire direttamente il caso.
E come prima cosa procurarono a Maria Barbella un collegio di difesa degno di questo nome. 

Ora finalmente accanto a Maria c'erano tre avvocati a quel tempo i più famosi a New York: Frederick House, Emanuel Friend ed Edward Hymes. Che, come primo passo, riuscirono a presentare appello ottenendo il riesame del processo denunciando anche la mancanza di imparzialità del giudice Goff.

I difensori a quel punto chiamarono a testimoniare in aula innanzitutto medici, psicologi, specialisti in neurologia e una girandola di periti le cui deposizioni durarono nove giorni.

Esaminando con attenzione l'imputata e la sua storia medica e interrogando in aula lei, genitori, fratelli, sorelle e vicini di casa (questa volta con un interprete che conosceva bene l'italiano e l'inglese) questi scoprirono che la ragazza, negli anni, aveva sofferto di epilessia, di depressione e altri disturbi, più o meno lievi, di natura psicologica.
Un vero colpo di scena che provocò sconcerto a New York.

Il clamore attorno al caso era tale che fu necessario assegnare alla contessa Cora e al conte Detalmo una guardia del corpo poiché avevano iniziato a ricevere numerose minacce di morte. 
L'agente che da quel momento in poi ebbe il compito di non mollarli nemmeno un secondo, era un giovane che in verità era stato arruolato come addetto alle pulizie (e lustrascarpe!) della Centrale di New York.
 
Era un poliziotto d'origine italiana, matricola 285tal Giuseppe Petrosino, detto Joe
Esatto: proprio quel Joe Petrosino che anni dopo avrebbe guidato l'Italian branch, il primo reparto di poliziotti italo-americani appositamente da lui istituito per combattere la Mano Nera, la mafia italiana in America. 
Che, anni dopo, - il 12 marzo 1909 - lo uccise a Palermo.

Il processo d'appello a Maria Barbella durò 24 giorni, e il 10 dicembre 1896 la sentenza stabilì che la ragazza, al momento dei fatti, non era capace di intendere e di volere.
Maria, così, fu assolta e rimessa in libertà.

Poco meno di un anno dopo, il 4 novembre 1897, si sposò con un compaesano di Ferrandina, Francesco Paolo Bruno, di professione barbiere, e due anni dopo ebbero un figlio che la coppia chiamò Frederick.

Ma la vita sentimentale della donna non fu molto fortunata: quel che si sa è che lui, una volta ottenuto il passaporto americano, la lasciò e si sposò con un'altra donna di Ferrandina, con la quale tornò negli Usa, mentre nel 1902 Maria Barbella tornò a vivere con i genitori.

Solo qualche anno fa, consultando gli archivi del comune di Ferrandina, la scrittrice italiana Idanna Pucci scoprì quello che forse fu il vero movente della rabbia di Maria Barbella: quando ebbe la relazione con Domenico Cataldo, Maria non aveva in realtà 22 anni, ma 27.
E a quel tempo, una ragazza di quell'età, ancorché non più "illibata", non aveva praticamente alcuna speranza di trovare marito. 


Oggi, il 541 della Broadway è un palazzotto tipico di Soho circondato da altri simili in questa parte di Manhattan, tutti con grandi negozi sulla strada. 
Al piano terra, gli store di Guess e Lacoste.
 
Dubito assai che i ragazzi che lì lavorano conoscano la storia della loro collega Maria Barbella.




© dario celli. Tutti i diritti sono riservati 
 








venerdì 16 giugno 2017

Il ponte della piccola Marisa

Era giovanissima e magra come un chiodo, la maestra Rossana.
Per il suo primo anno di insegnamento venne assegnata alla scuola elementare di Nibbiaia, una frazione di Rosignano Marittimo in provincia di Livorno.

Aveva poco più di venti anni.

Chissà com'era emozionata...


Nibbiaia, oggi, ha 629 abitanti. 

Non sono in grado di dirvi quanti ce ne fossero nel 1957, anno in cui vi trasporto oggi, cari amici di Aria Fritta. Ma non credo, sinceramente, ne avesse molti di più. 

Siamo, dunque, nel dicembre 1957 e precisamente in uno degli ultimi giorni di scuola prima delle vacanze di Natale, quando, cioè, la maestra Rossana Lecconi - che insegnava in una scuola interclasse formata da 14 bambini di terza e 16 di quarta elementare - assegnò ai suoi alunni un tema.


Per il titolo, l'ottima maestra Rossana prese spunto dalla storia di una delle sue alunne, Marisa.

Decise di chiedere ai suoi alunni di immaginare cosa ci fosse a "Seimila passi da scuola"

Già, perché l'alunna Marisa Leonzio (nove anni), ogni mattina usciva da casa con il fratello, e partendo dalla sua casa colonica in località Podere del Gorgo, per arrivare a scuola doveva farne seimila, di passi.


Seimila all'andata e seimila al ritorno.

Li aveva contati.
E ne aveva parlato in classe, ovviamente.

Li aveva contati per far passare il tempo.
Ma anche la paura.
Pensate: ogni mattina la bambina Marisa doveva attraversare a piedi un po' di campagna;
poi percorrere i sentieri che passavano dentro a due boschi;
ed infine superare un torrente.

Il Chioma, che vediamo qui sotto.




Per passare oltre, la piccola Marisa doveva letteralmente guadarlo, saltando - avete letto bene: saltando - fra un sasso e l'altro fino ad arrivare alla sponda di fronte.

In tutto, un'ora e mezzo di percorso all'andata, e altrettanti al ritorno. 

A piedi.

E se lei ogni tanto frignava, papà Alberto non voleva sentire ragione: lei doveva andare a scuola e basta. Perché avere un'istruzione era l'unico modo per avere una vita migliore della sua, diceva sempre.
E noi non possiamo che vergognarci se pensiamo ai capricci, alle storie, e ai nostri finti mal di pancia, che da bambini o da ragazzi dicevamo di avere, per non andarci, a scuola...

Ora: finché era autunno o primavera, si trattava di una passeggiata senza problemi: anzi, attraversare il bosco e il torrente era pure una mezza avventura!

Ma quando pioveva o arrivava l'inverno, il percorso era tutt'altro che un gioco, con il Chioma così gonfio d'acqua e con la sua corrente che portava via.

E lei era pur sempre una piccola di nove anni... 

Quando poi nevicava le cose erano ancora più complicate e i rischi erano decisamente maggiori, con il pericolo di cascare nell'acqua gelida: e allora, in quel caso, Marisa veniva accompagnata dal padre - il suo eroe con tabarro e stivali - che per non farla bagnare guadava il fiume, portandosela sulle spalle.


Con lui che ogni volta, per tranquillizzarla e soprattutto per farla sognare, le diceva: "Dai, che un giorno costruirò un ponte tutto per te! 

Vedrai che prima o poi succederà...".

Attraversato il ruscello, la piccola Marisa prendeva un altro sentiero, poi una stradina di campagna e infine, finalmente, una strada asfaltata. 

E quante volte, d'inverno, arrivava a scuola bagnata come un pulcino, zuppa di pioggia... E allora la maestra Rossana spostava il suo banco vicino alla stufa a legna che riscaldava tutta la classe, cosicché  lei potesse asciugarsi e scaldarsi.
"Sei la bambina più brava e coraggiosa che io conosca", le diceva...

Terminata la mattina di lezioni, Marisa faceva il percorso inverso. Con suo padre - il suo eroe, il suo gigante buono, un contadino dalle mani "grosse così" - che nei giorni di piena del Chioma, la aspettava lì, sulla sponda. 

Per caricarsela sulle spalle e portarsela al sicuro.
A casa.

E in uno degli ultimi giorni del primo trimestre, dunque, lei e gli altri alunni della maestra Rossana si trovarono di fronte ad un nuovo tema. 

In questo caso era un "classico": "Racconta cosa vorresti come regalo di Natale e perché".

E sono sempre teneri, i temi dei bambini su questo argomento, vero? 

Più o meno, i loro desideri sono rimasti immutati nei decenni (giochi elettronici a parte, che sono cose d'oggi): un pallone, una bambola, un camion, un paio di scarpette da calcio, un trenino, una bicicletta, un fucile da cow-boy...
Del trenino elettrico, la piccola Marisa non avrebbe saputo cosa farsene: in casa sua, infatti, non c'era né elettricità, né acqua corrente. 
E il bagno, infatti, era fuori casa...

Logico, dunque, quale fosse il sogno della piccola Marisa: lei scrisse che da Babbo Natale quell'anno desiderava ricevere "un ponte".

Un ponte sul fiume Chioma.
"Certe volte, per arrivare prima a casa, corro. Specialmente quando piove, o quando viene giù dal Santuario di Montenero quel vento ghiacciato. Ma poi devo aspettare che ci sia mio papà che mi aiuti a passare il fiume", scrisse sul quaderno con la sua calligrafia da bambina.
"Sì, caro Babbo Natale: ecco cosa vorrei per regalo. Vorrei proprio un ponte".

E a quel punto accadde l'imprevedibile.

La maestra Rossana, commossa, lesse il componimento al direttore del Circolo didattico di Rosignano, e lui, il prof. Benincasa, decise di inserire il tema sul giornalino scolastico che pubblicava con racconti scritti dai bambini. 


L'imprevedibile fu che quel giornalino arrivò sotto gli occhi di un redattore della cronaca cittadina de "La Nazione", quotidiano di Firenze. Che ci scrisse un articolo. 
E che l'articolo venne letto da un dirigente italiano dalla "Columbia Pictures" - una delle maggiori società di produzione cinematografiche del mondo.

Raggiungendo così, in un baleno, l'America.



Ora, il caso volle che la "Columbia"proprio in quelle settimane, si stesse preparando a lanciare in Europa "Il ponte sul fiume Kwai", il celebre film di David Lean, con William Holden, Alec Guinness e Jack Hawkins già uscito negli Usa.


Una pellicola che di lì a poco avrebbe vinto prima tre "Golden Globe" e poi ben sette "Premi Oscar" oltre ad altri vari 24 riconoscimenti internazionali.
               

Cari amici di Aria Fritta: se conoscete l'America, o anche solo se siete lettori di queste pagine, avrete capito che negli Usa le cose vanno veloci.
E che i sogni, quando si tratta di Stati Uniti, si possono davvero avverare.

E infatti, tempo una manciata di giorni, nell'aia della cascina di Gorgo - la frazione di Rosignano Marittimo dove abitava Marisa Leonzio,  lontana 8.244 chilometri
 dal mondo di Hollywood - si palesò rombante, e spaventando tutte le galline che lì razzolavano tranquille, un macchinone nero, un'Alfa Romeo targata Roma.

Dalla quale uscì un signore elegante, completo grigio fumo di Londra, camicia bianca, cravatta dal nodo piccolo, cappello Borsalino in testa e occhiali da sole: alto, magro, abbronzato, capelli impomatati e baffetti alla Clark Gable, che sembrava fosse stato catapultato nel cortile di quella cascina da un disco volante. 

Oggi ride come una bambina, la signora Marisa mentre mi racconta quei momenti.
Anzi, ride ancora oggi stupita, esattamente come rideva sbalordita quella bambina.

"Sa, non è che ci fosse tanto traffico dalle nostre parti. Anzi, pensi che noi non avevamo nemmeno un trattore! 
Sicché quando sentimmo il rumore di un motore nel cortile di casa nostra uscimmo tutti nell'aia. Allora vedemmo un tizio che scendendo si guardava intorno: uno sconosciuto che sorrideva e veniva verso di noi. 
Ci salutò, ma non capimmo cosa diceva. Ma parlò subito il suo interprete. 
Insomma, quel marziano si piazzò di fronte a mio padre, gli strinse la mano e gli disse: 'Mr. Leonzio? Sono qui perché vorremmo costruire noi il ponte a sua figlia'... 
Ricordo che mio padre quasi si spaventò, sgranò gli occhi e gli disse subito: 'Ma lei chi è?? E come fa a conoscere la storia del ponte? 
E comunque guardi che siamo contadini: non abbiamo soldi, noi! Altro che ponte...'".

La piccola Marisa non lo sapeva, ma in quell'istante iniziò il suo film americano. 

Quel pezzo grosso di Hollywood sorrise, rispondendo semplicemente
 "Don't worry, Alberto! Stai tranquillo! Noi abbiamo soltanto letto il tema di tua figlia, e ci ha commosso. E abbiamo deciso che penseremo a tutto noi. Lo faremo noi, quel ponte, e chiederemo noi il permesso al Comune. 
E pagheremo tutto noi, naturalmente!
Anzi, perché non prepara le valigie e venite in America? E' una bellissima storia, la vostra, e sono certo che agli americani piacerà molto!".

"In America?? Ma che dice questo??? Che mi venga un colpo!", avrà pensato quel pover'uomo (che in realtà forse avrà detto fra sé e sé qualcosa del tipo "Maremma impestata!"). 

Cari amici, riusciamo ad immaginarci la faccia del signor Alberto in quel momento, di quell'uomo che era solo "casa-lavoro", di quell'uomo dalle "oneste fortissime mani"

Possiamo mai immaginare l'espressione di quel papà che d'inverno si portava sulle spalle la sua piccola per farle attraversare il torrente in piena, perché potesse andare a scuola? 

L'espressione di lui, che in casa non aveva né acqua corrente, né elettricità?

L'America...
Sì, ovvio, ne aveva sentito parlare. Sapeva che di italiani ne erano emigrati molti in America e anche di toscani o livornesi...
Ma dove mai era veramente, questa America?

Da lì tutto successe velocemente.
 
E infatti tempo un po' di giorni e in paese arrivarono geometri, e tecnici e carpentieri, che nel giro di poche settimane (incredibile...) tirarono su il ponte

Di legno, proprio come quello del film!
E con lo stesso disegno, la stessa forma: solo più piccolo, ovvio.
Era lungo 16 metri e largo 5: più piccolo, sì, ma perfetto per superare i più alti livelli invernali del Chioma in piena.

                        

Il giorno dell'inaugurazione, domenica 19 gennaio 1958, a Gorgo c'erano tutti: il sindaco, il parroco, i carabinieri, la maestra Rossana, il preside della scuola, il Provveditore agli Studi, la banda e gli abitanti tutti delle frazioni lì intorno, molti "con gli occhi rossi e il cappello in mano", mentre la banda suonava la marcia che nel film i soldati anglo-americani prigionieri dei giapponesi fischiettavano mentre costruivano il ponte.

Tutta gente che fino ad allora era costretta ad allungare la strada di non so quanti chilometri per superare il torrente.

La voce di Marisa Leonzio che mi racconta, quasi 60 anni dopo, quei momenti è ancora oggi commossa: "Ricordo che rimasi sorpresa del fatto che quel giorno vidi tanta gente piangere
Ingenuamente mi chiedevo il perché, visto che quel ponte era una bella cosa. Ma ero troppo piccola per capire cosa significavano davvero quei quattro tronchi sopra il Chioma".

Lei era l'invitata d'onore e infatti fu lei a percorrere per prima il nuovo ponte sul fiume Chioma.

Eccola qui, la piccola Marisa Leonzio, nove anni, amore di bimba, con quel vestito della festa e collana.
 

Che giorno, quel giorno! 
In quell'angolo di mondo, in quel puntino della Toscana, quel giorno arrivarono giornalisti e fotografi da tutta Italia.

E non solo: anche dall'America, ovviamente.

Fu un avvenimento che entrò nella storia dell'"Italia semplice" di quegli anni, che dopo le sofferenze provocate da una guerra sciagurata aveva bisogno di storie belle.

E di miracoli. 

La consacrazione dell'avvenimento, avvenne senza dubbio con la copertina de
 "La Domenica del Corriere" del 2 febbraio 1958, come sempre uscita dalla matita del mitico Walter Molino. 
Toccava a lui, in quegli anni, immortalare infatti l'avvenimento di cronaca più importante della settimana.


                   
Che giornata! 
I fotografi vollero poi far vedere a tutti l'euforia dei bambini del paese, così orgogliosi della loro amichetta.

E allora, altra foto: eccoli, dietro alla nostra piccola Marisa che felice salutava vittoriosa.
 

Mentre Gorgo festeggiava la conquista del ponte ottenuto grazie ad una bambina, e mentre quel grande avvenimento arrivava sulle prime pagine dei giornali italiani, c'era chi nel frattempo si spendeva ad organizzare il viaggio

Perché il signor Alberto non era mai stato all'estero e non aveva il passaporto; e, ovviamente, non ce l'aveva nemmeno la piccola Marisa. 

E allora ecco che velocemente vennero superati tutti gli ostacoli burocratici e fatti tutti i documenti in un baleno. 
E poi anche i biglietti aerei. 

Stava succedendo una cosa pazzesca, per loro che non si erano mai allontanati da casa.

Fino a quando arrivò il grande giorno.


"Ricordo tutto benissimo: i pianti alla mia partenza, il viaggio in macchina fino a Livorno, e poi in treno fino a Roma... 
Mamma mia che emozione vedere l'Italia che mi scorreva accanto".

Ma quello era solo l'inizio: a Roma, Alberto Leonzio e la piccola Marisa vennero prima accolti dal Presidente della casa cinematografica Columbia Picture, e poi intervistati negli studi della Rai.

Ma soprattutto furono invitati al Quirinale da donna Carla, moglie dell'allora Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, alla quale Marisa regalò la copia del "Sei Rose" - il giornalino della scuola che la rese famosa - e sei rose rosse, simbolo di Rosignano Marittimo. 

Donna Carla Gronchi che a sua volta donò a Marisa e al suo papà i vestiti per affrontare adeguatamente il viaggio. 

Un viaggio che si svolse senza la maestra Rossana, perché il Ministero della Pubblica Istruzione di Roma non le rilasciò il permesso. 

Che rabbia...

Poi arrivò i momento della partenza: il 9 marzo 1958, eccoli finalmente all'aeroporto di Roma Ciampino.

Eccoli salire sul volo per Parigi (mamma mia, a Parigi!) da dove Alberto e Marisa Leonzio partirono, sorvolando l'Oceano Atlantico, per Nuova York.

"Oh sì, ricordo tutto, anche se sono passati quasi sessant'anni - mi racconta ancora tutta entusiasta -: ricordo quando arrivai all'aeroporto di Roma, ricordo come rimasi a bocca aperta quando vidi un aereo decollare. Ma come mai faranno ad andare su, mi chiedevo... 

Poi arrivammo sotto al nostro aereo: mi sembrava enorme! 
Era enorme! 
Ricordo che avevo un po' paura e che un po' di paura forse ce l'aveva anche mio papà. 
Ma io al suo fianco mi sentivo sicura!
E quanti aerei c'erano poi a Parigi! 
Tantissimi e ancora più grandi! Un'oretta di pausa e arrivò il nuovo decollo.
Questa volta per l'America. 
Per Nuova York
Viaggiammo in Prima Classe, dove le poltrone erano così grandi che se fosse stato presente poteva starci seduto comodo, con me, anche mio fratello. 
Ricordo che durante il volo venimmo coccolati come se mio padre fosse stato un Re e io la sua principessa. 
Ci davano da bere, da mangiare tutte le volte che volevamo, e a mio padre venne dato anche lo spumante. 
Lo spumante... Non so se lui l'avesse mai bevuto, prima di allora.
Mamma mia, che sogno vivevo...".

Solo che no, non era un sogno


"Ricordo la gentilezza delle hostess, che mi curavano e che mi tenevano la mano come se fossi stata la loro sorellina. Ricordo che in volo mi misero vicino al finestrino e io tenevo sempre il naso appiccicato all'oblò. 

Mica mi rendevo conto di essere così in alto!
E ogni volta che vedevo spuntare una città sotto le nuvole chiedevo a mio papà se quello fosse un paese vero o se era finto, magari disegnato da qualcuno".

Con il signor Alberto che aveva sempre gli occhi spalancati, lucidi.
Era emozionato e forse anche un po' preoccupato.

E anche se il viaggio fino a Parigi lo fecero in compagnia dell'attore William Holden, che doveva andare a Parigi, era sempre un po' preoccupato, lui.
 

                                                                             

E anche se il famoso attore di Hollywood le regalò un mazzo di violette.

Poi arrivarono a Nuova York...

Subito la piccola fu portata in cima all'Empire State Building, il punto di New York più vicino al cielo, a quel tempo.
E possiamo immaginare facilmente la meraviglia, lo stupore, sentito da una bambina della campagna toscana.

"Rimasi senza parole, con la bocca aperta - mi racconta -. Mi sembrava qualcosa di extraterrestre! Era tutto spettacolare! 

Quelle macchine che da quella altezza sembravano formiche, giocattolini... 
E tutte quelle luci intorno...".


 

Rimase cinque giorni nella Grande Mela, Marisa. 
Cinque giorni degni di una grande diva: con giornalisti americani al seguito, interviste televisive, servizi fotografici. 

Naturalmente fu portata in cima alla Statua della Libertà e avanti e indietro lungo Manhattan...

"Ricordo ancora la meravigliosa pista di ghiaccio sotto quel grattacielo (il Rockefeller Center, nda) e quei negozi di giocattoli, con le bambole che si muovevano da sole. 'Non ci crederà nessuno, quando lo racconterò...', mi ricordo che pensai..."

E poi, dopo Nuova York, arrivarono anche cinque giorni a Washington: andò in visita alla Casa Bianca, (ma ve la immaginate una piccola bambina della campagna livornese in visita nientepopodimeno che alla Casa Bianca??) dove fu ricevuta dalla moglie del Presidente americano per essere poi ospitata a casa dell'allora vice presidente Richard Nixon.


Dove fece a palla di neve con una delle sue figlie, che la portarono anche in giro per negozi di giocattoli: "Mi chiesero di scegliere dei regali, ma tutto mi sembrava esagerato, per me. Ricordo che scelsi due piccole bambole; io ero già felicissima, ma mi dissero che era troppo poco. 
E allora mi regalarono una intera casa delle bambole, tutta arredata!
Un sogno...".

E poi le chiedo del "punto debole" per tutti gli italiani che si recano per la prima volta negli Usa...
"E sì, fu il mangiare a sembrarmi proprio strano: e quella storia che al mattino si faceva colazione con l'uovo fritto proprio non la capivo!
Però io mangiavo tanta frutta: mele, pere, arance. 

E un giorno scoprii le banane, che in Italia non avevo mai mangiato...".

New York, Washington: poi volevano portare la nostra Marisa in California, a Hollywood, negli studi cinematografici della Columbia.

Ma per lei era troppo.


"Dissi di no, che avevo voglia di tornare a casa.
Volevo tornare da mia mamma, da mio fratello, dalle mie amichette...".

Non che poi, in Italia, la vita di Marisa Leonzo fu tanto più tranquilla: tornata il 19 marzo, fu subito invitata a Milano alla prima del film, per essere poi ospite di Mike Bongiorno a "Lascia e Raddoppia?" e di Cino "Mago Zurlì" Tortorella, allo "Zecchino d'Oro".


 
La sua fu una favola che continuò anche in Italia, in fondo.

Perché dirigenti la Croce Rossa Italiana, commossi dalla sua storia,  annunciarono che l'Ente avrebbe pensato all'istruzione della bambina, scuola superiore compresa. 
Marisa che così, dopo le medie in una scuola privata, frequentò un istituto magistrale di Cecina, dove si diplomò maestra.




Si sposò ed ebbe due figli, la nostra Marisa: Andrea e Davide, che in questi anni le hanno regalato cinque nipoti.

Che ogni tanto le chiedono di raccontar loro la favola della piccola Marisa in America.

Oggi, il ponte sul torrente Chioma non esiste più
Del ponte della piccola Marisa emergono soltanto i monconi di alcuni dei suoi pali di legno.
 

Questo racconto lo dedico a mio padre Elio, che proprio quell'anno, nel 1958, negli ultimi giorni della sua vita, fischiettava allegro le celebri note de "Il ponte sul fiume Kwai".


E' proprio vero che "certi amori fanno giri immensi"...



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