PERSONE CHE HANNO LETTO O CURIOSATO

martedì 26 febbraio 2013

Noi e loro (e le elezioni)

Sentite, ammettiamolo: ci ha rovinato la Storia.

Esatto, proprio quella "roba" della quale noi italiani ci vantiamo tanto (non potete immaginarvi che espressione fa un americano quando gli dico che abito in una ex cascina del 1901 sopra una villa romana del 1° secolo dopo Cristo, e che il mio posto auto è a fianco di una delle più belle  tombe romane - ma evito dirgli che vedere quella tomba magnificamente affrescata è quasi più difficile che entrare al Quirinale...).

Dicevo, quella "roba" della quale ci vantiamo tanto - e l'Impero Romano, e Catullo, e Cicerone, e Dante Alighieri, e Petrarca, e Manzoni, e Ungaretti, e Fellini, e Mastroianni e via dicendo... - pesa un bel po' sulle nostre spalle.
Anche se di Storia, poi, ne sappiamo poco.

Cari miei...
Noi europei avremo anche la Storia nel nostro dna, ma dobbiamo anche ammettere che con lei abbiamo avuto praticamente due millenni di conflitti e di guerre.

Insomma, noi - al contrario degli americani - oltre ad avere nel sangue Dante e compagnia bella è come se nel nostro sangue scorressero anche globuli rossi e bianchi di Oriazi e Curiazi, di Guelfi e di Ghibellini, di Capuleti e di Montecchi, di ItaliaControAustria, di ItaliaControFrancia, di ItaliaControAlleati, di ItaliaControTedeschi, di MilanoControRoma, di TorinoControMilano, di PisaControLivorno, di PalermoControCatania e chi più ne ha più ne metta... (aggiungete voi cosa mi son dimenticato).

E siamo pure fortunati noi - intendo noi che stiamo leggendo in questo momento -, perché secondo la Storia, il periodo che stiamo vivendo 
è il più lungo periodo senza guerra dai tempi di Cesare Augusto e Marco Aurelio: è infatti da ben 1833 anni che l'Europa non vive un periodo di pace così lungo. Per la precisione dalla cosiddetta "Pax Romana": roba del 180 dopo Cristo.
Proprio quando, tre metri sotto il pavimento di casa mia, una piccola giocava con una bambola di terracotta romana della quale in mezzo alla terra ho trovato la testa...


Gli americani, invece, le guerre, le hanno praticamente sempre viste da lontano.
Non sto qui a fare una lezione di Storia americana - non sono competente... -  ma in sostanza, a parte i tristi microconflitti con i Nativi, a "casa loro" hanno combattuto sostanzialmente solo la Guerra di indipendenza (otto anni, dal 1775 al 1783) e quella di Secessione (quattro anni, dal 1861 al 1865).
Poi basta.

Tanto per capire, noi italiani da allora - compresan la Battaglia di Custoza del 1866 - ne abbiamo vissute nove, di guerre, fra cui due guerre mondiali.

Insomma, la "conflittualità", in Europa, ce l'abbiamo davvero nel sangue.

A mio parere, è anche per questo motivo che chi vive nel Nuovo Mondo prende la politica con più "filosofia", diciamo. E poi ci sono le distanze, immense, che in qualche modo contribuiscono, secondo me (ma forse l'ho già scritto) a "diluire" le tensioni.
 
La politica, per esempio.
Secondo me come si comportano gli americani in politica, si può capire assistendo ad un loro incontro sportivo.
I tifosi delle squadre, per esempio: mentre si svolge il gioco, specie durante le partite di baseball, sugli spalti mangiano, bevono (mai alcolici!), scherzano, e fanno la "ola", guardano se vengono inquadrati sugli schermi giganti visibili nello stadio.
E poi, inquadrato dallo schermo gigante, c'è il fidanzato che si inginocchia con in mano un anello e chiede alla propria donna di sposarlo (con lo stadio in visibilio!), e poi  si risiedono per mangiare, bere, scherzare... C'è un biglietto "solo partita" e poi ce n'è un altro, un po' più costoso, che permette allo spettatore di mangiare e bere a volontà, "senza limite" .
Con grande gioia di bambini e adolescenti, lì con le famiglie..., che mangiano felici fino a scoppiare.

E quando per caso succede che qualcuno "alzi troppo" i toni - anche solo perché insulta con parolacce la squadra avversaria! - ecco allora che arrivano gli steward visto che non c'è polizia all'interno degli stadi americani (!): steward che a quel punto si avvicinano al tifoso e lo invitano ad uscire.

Con il tifoso agitato che, a quel punto, si alza e... esce.
Roba da matti.


Così come in politica. 
Per noi (che ci chiudiamo in casa "a lutto" quando il nostro partito perde...) è quasi inconcepibile.

Loro, gli americani, si sa, eleggono direttamente il Presidente: uno vince, l'altro perde, quest'ultimo si complimenta con il vincitore, e generalmente poi sparisce senza accusare di brogli l'avversario.

Nemmeno quando probabilmente brogli ci sono stati.

Come quando nel 2000 il democratico Al Gore perse le elezioni presidenziali per 537 (cinquecentotrentasette!!) voti in Florida. E pensate che il "garante della regolarità" era il Governatore della Florida (repubblicano) Jeff Bush, fratello di George W. Bush, concorrente di Al Gore.

Io, se fossi stato in Gore, non mi sarei dato pace. Sarei impazzito.
E invece, niente.
Lui ha perso, Bush ha vinto, "complimenti per il vincitore" e finita lì...

E uguale fair play lo manifestano anche i militanti del partito sconfitto. Che, per carità, un po' piangono, sì: ma il loro lutto secondo me dura qualche ora, o al massimo un giorno.

Poi, semplicemente, dicono "ok sarà per la prossima volta"...
Ma come diavolo fanno??


Li invidio, gli americani: e invece noi siamo lì geneticamente portati a ritenere che ci siano stati brogli, matita copiativa qui, scheda elettorale fotografata là, conteggio fatto male, eccetera eccetera...
O a tormentarci per mesi, o anni.

E non si venga a dire che gli americani votano meno di noi: da noi giunge solo l'eco delle elezioni Presidenziali, o di quelle di "medio termine". Ma negli Stati Uniti c’è un costante, direi quasi estenuante ricorso al voto popolare: con gli elettori (iscritti) che si recano - o si dovrebbero recare - alle urne anche ogni anno per scegliere di volta in volta il sindaco, i consiglieri comunali, lo sceriffo della città, i giudici del tribunale locale, quelli della Corte Suprema dello Stato, i deputati al Parlamento di ogni singolo Stato, quelli Federali che andranno a Washington, gli esattori delle tasse e i coroner di Contea, il tesoriere dello Stato, il presidente dell’Unione consigli scolastici, financo al commissario di Stato per le assicurazioni e l’agricoltura, insieme ad un sempre nutrito numero di referendum sui temi più vari.

“Qui votiamo praticamente chiunque, accalappiacani a parte…” mi ha detto un amico da tempo residente negli Usa. Ogni anno ci sono “in ballo” qualcosa come un milione di posti di rappresentanza popolare, attribuiti complessivamente durante 150 mila appuntamenti elettorali, la cui partecipazione popolare è spesso decisamente più sentita rispetto a quella - invece ben più importante per i destini del mondo - del Presidente degli Stati Uniti.


Gli americani, anche i più accaniti militanti, guardano  al nostro attaccamento alla politica con curiosità e tenerezza. E ci fanno un sacco di domande.

Come quando mi sono trovato a spiegare ad un americano che mi chiedeva conto di Berlusconiecompagniabella, che gran parte della responsabilità era di una legge elettorale che, come sappiamo, lo stesso estensore - raccontavo all'incredulo - aveva confessato essere in fondo "una porcata".
"A crap", dissi, dopo aver controllato la traduzione, dato l'argomento "delicato": "una porcata".

Mi ha guardato con sguardo allibito, ha sbarrato gli occhi, scosso la testa, limitandosi ad aggiungere ridendo e facendo spallucce "Ah, funny!".

Proprio buffo, sì.
Come li invido, gli americani...



P.S.: Se poi, a proposito di elezioni americane, volete stupirvi ancora di più, leggete QUI.





© dario celli. Tutti i diritti sono riservati.

venerdì 22 febbraio 2013

A B C: operazione Mani Pulite


La prima volta rimasi fra il perplesso e il sorpreso.
Ero nel bagno di un piccolo ristorante di New York e vidi questo adesivo sull'erogatore del sapone liquido: 



Il significato si intuisce: 
"Tutti i dipendenti devono LAVARSI LE MANI 
• dopo aver usato il water;
• prima di lavorare e preparare il cibo;
• ogni qualvolta sono sporche".
Dipartimento della Salute dello Stato di New York. 

Inizialmente pensavo che fosse solo un auspicio dettato da una norma di "buon senso" e di "buona educazione"; poi, invece, mi resi conto - leggendo meglio - che si trattava della sintesi di ciò che prevede un vero e proprio articolo di legge dello Stato di New York, il comma 71 del codice 14 della legge 1414-1.71:
"I dipendenti devono mantenere un elevato grado di pulizia personale e conformarsi alle buone prassi igieniche quando lavorano nel servizio ristoro. 
I dipendenti devono lavarsi le mani, e le zone esposte, accuratamente con acqua calda e sapone prima di iniziare il lavoro e tutte le volte che può essere necessario per rimuovere lo sporco e l'eventuale contaminazione da agenti patogeni.

I dipendenti devono altresì lavarsi accuratamente le mani dopo aver usato la toilette, dopo aver fumato, starnutito, tossito, mangiato, bevuto o comunque prima di tornare al lavoro dopo l'eventuale pausa. I dipendenti devono tenere le unghie pulite e ben curate".

Una vera e propria operazione Mani Pulite!

C'è poco da ridere:  soprattutto perché, negli Usa, i controlli vengono fatti. E le multe (financo alle chiusura di locali pubblici) fioccano.
Pare, infatti, che gli ispettori sanitari non solo si limitano a controllare lo stato della pulizia di cucine, cantine e dispense, ma che - quando sono in incognito - seguano i dipendenti in bagno per vedere se si lavano le mani dopo essere usciti dalla "zona water".

Il compito principale di questi ispettori è in realtà "classificare", e periodicamente "certificare", ristoranti, bar, pizzerie, locali dove si serve cibo cucinato, di New York (ma anche di quasi tutte le città americane) dal punto di vista "sanitario".

Ispezione (a sorpresa) che si conclude con il rilascio di una certificazione da esporre all'esterno del locale espressa con tre lettere: "A", "B" o "C".

Questa sopra, per esempio, è (a mio parere) la migliore pizzeria italiana di Brooklyn, anche se preferite la pizza più sottile, "alla romana".  Si chiama Sottocasa, ed è stata aperta due anni fa da due giovani italiani diventati miei amici, Luca e Antonio: il primo già attore in Italia con la passione per la cucina (e poi, dopo aver vinto la Green Card, manager in un ristorante di Ny e pizzaiolo volontario per imparare meglio il mestiere); 
il secondo documentarista/regista in Italia, ed ex manager di un ristorante della Grande Mela.

La loro avventura avventura americana li ha portati ad aprire una pizzeria dove, come vi ho già detto, si gusta - credetemi, davvero! - una delle più buone pizze di New York. Per non parlare poi della pizza bianca ripiena di Nutella che è nella lista come dessert...

(L'indirizzo è 298 Atlantic Ave. Brooklyn. Prendere la linea F/G direzione Brooklyn, scendere a Bergen, camminare su Smith st. per quattro isolati fino ad Atlantic Ave. La pizzeria è subito lì, a destra. Sono diventati amici, le loro pizze sono davvero buonissime, e per una volta lasciatemi fare un po' di pubblicità!).













Negli Stati Uniti,  per un ristorante, essere certificati con una A è una roba seria.
O meglio: diciamo che non avere la A è un elemento che può far decidere se scegliere o meno quel locale. In particolare per un certo tipo di clientela. Perché può essere affibbiata anche una B, una C o il grado Pending, che è un giudizio "sospensivo", "pendente",  in attesa di decisione definitiva.

Che per un certo tipo di ristoranti sia una questione di fondamentale immagine avere e mantenere la A, è dimostrato dalla polemica che ha sfiorato Mario Batali, celeberrimo chef italiano, ormai da anni negli Stati Uniti.
Un suo anonimo dipendente ha infatti recentemente riferito al quotidiano New York Post che il celebre cuoco e autore di libri di cucina - e socio di un altro cuoco ormai famosissimo (come lui anche grazie al reality Masterchef), Joe Bastianich, figlio di Linda, esuli istriani negli Usa - aveva munito i suoi nove ristoranti di New York di un "allarme nascosto" in grado di allertare la cucina in caso di arrivo di un ispettore del Servizio Sanitario. 
Giusto quel minutino, o poco più, utile a chi è in quell'istante in cucina per cercare di sistemare eventuali leggere magagne.

Anche un piccolo problema, infatti, può costare al locale fino ai 5000 $ di multa (circa 3.800 €uro), ma soprattutto può provocare il "declassamento" che deve poi essere reso noto a passanti e clienti con l'affissione esterna dell'apposito cartello.
In pratica una pubblica gogna. 
(Lui, Mario Batali, peraltro ha smentito: "Non vogliamo evitare alcuna ispezione: sono trucchetti che non accetterei").

I controlli previsti, e di conseguenza le violazioni, sono ben 28:"Criteri troppo severi e punitivi" secondo Andrew Moesel, portavoce dell'Associazione dei Ristoranti dello Stato di New York, che ha aggiunto: "Un sacco di persone evita di entrare in un locale classificato con una B o una C, anche se questo è ancora tranquillamente in grado di servire il pubblico con professionalità e sicurezza igienico-alimentare".  

Che siano severi, effettivamente lo sono, gli ispettori newyorkesi.
Ovvi i controlli effettuati sulla presenza di prodotti scaduti, insetti vari (o peggio), muffe e cose del genere. Ma mi chiedo cosa succederebbe dalle nostre parti se venissero controllate a bar, pizzerie e ristoranti, le seguenti cose, che sono solo otto fra le 28 violazioni:
- temperatura del latte
- assenza di lampadine infrangibili
- piastrelle del pavimento, o delle pareti, rotte anche parzialmente
- lattine ammaccate
- ubicazioni e stato degli scarichi (del bancone e dei servizi igienici)
- stato della ventilazione degli apparati frigoriferi
- acqua sul pavimento
- presenza di carta igienica, sapone e asciugamani nei servizi igienici.

I ristoranti riconosciuti con la lettera A sono quelli nei quali sono state verificate fino ad un massimo di 13 violazioni: anche se i rapporti  affermano che, in media, i ristoranti di questa categoria ne accumulano soltanto cinque.
La lettera B viene attribuita a quei ristoranti nei quali sono state riscontrate fra 13 e 28 infrazioni.
Poi c'è la lettera C, e infine la chiusura.

Naturalmente ci sono coloro che accusano l'Amministrazione comunale di New York di fare controlli (e sempre più severi) soltanto "per far cassa", visto che la maggior parte delle violazioni non riguardano problemi "alimentari": "Il Dipartimento della Salità sta mettendo la gente nella posizione di chiudere i propri ristoranti per soddisfare le sue richieste nelle ispezioni", ha denunciato Andrew Moesel, portavoce dell'Associazione dei ristoranti di New York.
E che le casse della città provino un beneficio da queste ispezioni non ci sono dubbi: dal 2006, infatti, i controlli fra i 24mila esercizi presenti a New York sono saliti del 180%, con le multe complessive passate dai 16 milioni di dollari del 2006, ai 45 milioni di dollari del 2012.

Una cosa molto interessante è che chiunque può controllare da casa sia come è stato classificato il locale dove si intende andare a mangiare, sia quando è stato controllato l'ultima volta: basta cliccare QUI e si aprirà la pagina "Restaurant Inspections" del Dipartimento Salute e Igiene mentale della città di New York, dove è sufficente digitare il nome del locale e il suo "Zip code", quello che da noi è il Cap.
L'elenco comprende le decine di migliaia di ristoranti, pizzerie, rosticcerie, e i risultati delle relative ispezioni avvenute negli ultimi sei mesi, nell'ultimo anno o nell'ultimo anno e mezzo.

Le regole sono rigide: c'è una "ispezione iniziale", e se un ristorante non guadagna la A al primo controllo, gli Ispettori del Dipartimento della Salute emettono il giudizio solo tornando ad ispezionare il locale il mese successivo. 
Ma attenzione: quelli "premiati" con la A non devono sedersi sugli allori, perché entro un anno saranno soggetti ad una nuova ispezione (a sorpresa). "Sorvegliati speciali" i ristoranti che hanno avuto la classificazione B o C: loro si dovranno aspettare un nuovo controllo, anche qui ovviamente a sorpresa, rispettivamente nel giro di sei o quattro mesi.

E che la cosa sia gradita dai consumatori, è provato da una ricerca condotta nei primi due mesi dell'anno scorso dalla City University di New York: l'81% del campione interrogato ha affermato di essere contento nel vedere esposta la valutazione data ad un ristorante. Mentre l'88% ha affermato che il giudizio attribuito influisce nella scelta del luogo dove far pranzo o cena.

Peccato che in Italia non ci sia una cosa del genere...



© dario celli. Tutti i diritti sono riservati.

giovedì 21 febbraio 2013

"Cercasi addetto alla cassa con laurea".

Dovrei andare a vedere nei vecchi scontrini delle carte di credito, per controllare, con precisione, dove fossimo.
Posso però aiutarvi ad immaginare la scena.


Eravamo sull'Interstate 15, l'autostrada inter-statale che parte da Los Angeles da San Diego :-) e punta verso nord, finendo al confine con il Canada.


Direzione, Las Vegas. Traffico praticamente inesistente.
Arriva il  buio pesto, saranno state le 4 del mattino.

Il cielo stellato era talmente limpido che gli si rifletteva il bagliore delle luci di Las Vegas, lontana un centinaio di chilometri o poco più.
Dovevamo arrivare intorno alle 5, lasciare l'auto noleggiata, e alle 7,30 salire sull'aereo diretto a New York.

Ci fermiamo in un drugstore-benzinaio lungo l'Interstate, giusto per sgranchirci le gambe, prendere qualcosa da bere e fare il pieno.
Alla cassa c'era un giovane - età intorno ai 25 anni - che ci saluta cordialmente. 
Era solo: dalla sua postazione governava la distribuzione dei carburanti al self service, strisciava la carta di credito (a quell'ora la benzina non poteva essere pagare in contanti) e incassava gli spiccioli per le cose che si acquistavano dagli scaffali.

Lui, solo: noi gli unici clienti.
Tempo qualche istante e attacchiamo discorso.
(Non che sia difficile, con me:-)... )

Naturalmente ci chiese da dove provenissimo (come già scritto più volte tutti, negli Usa, ti chiedono da dove provieni, visto che tutti, negli Usa, provengono da qualche posto...). Potete immaginare il suo "Oohh..." quando sentì che eravamo italiani.

Anche io gli chiesi di dove fosse originario.
"Bangladesh", mi disse, chiedendomi poi se in Italia ci fossero tanti suoi connazionali. Ovviamente gli dissi di sì: sia nelle grandi città che, soprattutto, nelle campagne del norditalia.


Poi, improvvisamente, mi disse: "Ho una curiosità: ma quanto guadagna in Italia uno che fa il mio lavoro?".


Ci pensai un po' su...


E allora immaginai - pensateci su un po' anche voi... - un giovane straniero, commesso alla cassa di un benzinaio con minimarket, in turno notturno. 
Un lavoro che non necessita di altissima professionalità, insomma. (Lo so, in Italia nessun gestore di pompa di benzina lascerebbe - da solo, alla cassa! - un suo dipendente straniero nemmeno trentenne a quell'ora, di notte...). 
Dopo aver riflettuto un po', alla fine rispondo:"Mah, più o meno 900-1000 €uro, 1100-1300 $..." (Forse ho un po' esagerato...).

E lui: "A settimana?"
E io: "Ma noooooo! Al mese!"
E lui sgranando gli occhi: "Al mese???, Really?? Davvero??"


A quel punto, lui, con espressione assai incredula mi porge una biro e un foglio di carta per leggere con i suoi occhi la cifra. La scrivo, aggiungendo in stampatello, "monthly", "al mese". 

E io: "Sì, al mese... Perché, scusa, tu quanto guadagni?"
Lui prende in mano la biro e mi dice, mentre scrive la cifra: "Io, facendo il turno di notte fisso, guadagno 800 dollari a settimana. E io che pensavo di guadagnare poco!"

Avete letto bene: 800 dollari a settimana, cioè 600 euro.

Che vogliono dire 3200 dollari al mese, cioè 2300 euro. 

...


Mi è tornato in mente questo episodio, quando l'altro ieri, su Facebook, ho letto un intervento scritto sulla pagina "Italiani in America".
Era una risposta ad una signora che in quella pagina aveva pubblicato l'annuncio di una "Prestigiosa catena di supermercati italiana" che cercava (in Italia) "laureati per la posizione di 'cassiere al registratore di cassa' ".
Lo ha messo, ha scritto, "perché gli spiaceva vedere tanti ragazzi che vogliono andarsene via dall'Italia".

Riporto qui la risposta dell'amministrazione della pagina.

Gentile Sig.ra,
la ringraziamo sentitamente per la sua generosa offerta di lavoro riservata a laureati per un posto come "Cassiere al Registratore di Cassa" di quella che lei ha definito "una prestigiosa catena di supermercati".

Le faccio presente che offerte di lavoro come quella da lei presentata sono una delle ragioni che hanno spinto me, e molti altri Italiani, ad emigrare in America, dove non c'è bisogno di una Laurea per passare degli articoli sopra ad uno scanner per codici a barre.
Anzi, negli Usa, quello è solitamente un lavoro svolto da studenti delle scuole superiori che vogliono guadagnarsi qualche quattrino, poiché ai laureati, qui negli Stati Uniti, vengono riservati posti di lavoro ben più prestigiosi e molto meglio retribuiti di quanto la sua "prestigiosa catena di supermercati" sarebbe probabilmente disposta ad offrire. 

In fin dei conti, se veramente una persona deve impegnare oltre 20 anni della sua vita in studio per arrivare a fare il cassiere, o voi avete registratori di cassa progettati dalla Nasa, oppure (al solito...) in Italia non vi rendete conto di quanto ridicole, nonché umilianti e disprezzanti, siano queste proposte di lavoro per coloro che hanno studiato duramente per ambire un lavoro dignitoso, salvo scoprire poi che la laurea è per voi il minimo requisito richiesto per manipolare degli articoli di vendita facendoli scivolare correttamente sopra lo scanner dei registratori di cassa di un supermercato.
A meno che, nella sua "Prestigiosa catena di supermercati", agli addetti alla cassa sia affidato anche il compito di "Consulenza in Ingegneria e Progettazione", mentre fanno il conto ai clienti.

La invito a smettere di prendere in giro la gente con offerte di questo tipo.
Senza offendere nessuno, le rendo noto infine che il cassiere è un lavoro che può essere svolto senza alcun problema da una persona che ha conseguito anche solo la scuola dell'obbligo.

Per questo motivo ho deciso di bannarla e di cancellare il suo annuncio.
 

 
Ecco.
Punto.

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giovedì 14 febbraio 2013

La scelta di G.


Incredibile quanto poco durino le pratiche per il noleggio di un'auto in America.
Non che siano tanto differenti da quelle italiane (ci sono un bel po' di moduli da firmare anche qui), ma tutto si svolge in modo assolutamente rapido. Forse solo perché dietro ai banchi prenotazione ci sono sempre decine di impiegati.
Perché noleggiare un'auto, negli Usa, non è affatto un lusso, viste le tariffe applicate e la concorrenza fra tante agenzie di noleggio. Anzi, semmai a Manhattan è considerato quasi un lusso possederla, un'automobile, con il costo dei parcheggi che talvolta supera anche i 10-12 dollari l'ora (ma con 24 linee di metropolitana che funzionano 24/7 - 24ore su 24 e 7 giorni su 7 - che serve avere un'auto di proprietà?).


L'ufficio dell'Avis più vicino che avevo, era a dieci minuti a piedi da casa. E nemmeno dieci minuti impiegai per prenotare l'auto che avrei preso il giorno dopo. (La storia di Warren Avis la racconterò nel libro che vorrei pubblicare, se qualche dannatissimo editore si decidesse a farlo. Pagandomi, s'intende...).
Confesso che non mi dispiace fare il "grandeur": avrei, infatti, voluto un'auto enorme, gigantesca.
"Americana", insomma, tanto l'avrei noleggiata per un solo giorno.
Ma alla fine, più che la mia anima infantile prevalse il senso di colpa italico, che mi fece optare per il modello più piccolo.

L'indomani, quando mi presentai, ero dunque rassegnato a guidare un'auto poco più grande di una Smart: tipo Micra o Opel Corsa.
Sorrisi quando mi trovai, invece, di fronte a questa vettura...


Esatto: questa, per gli americani, è un'auto "small"...

Salii a bordo, presi bene il respiro per vincere la piccola emozione, allacciai la cintura, misi a punto la posizione del sedile e degli specchietti, attaccai al vetro il navigatore satellitare che mi ero portato dall'Italia, cliccai l'opzione "carta Stati Uniti", ed ecco che dopo qualche istante - con i grattacieli intorno l'aggancio al segnale è un po' più lento... - sul visore apparve la mappa dei cinque o sei isolati di Manhattan in mezzo ai quali mi trovavo.

E questo, quando accade in America, mi sembra ogni volta incredibile e mi procura un senso di infantile euforia.

Guidare negli Usa - l'ho già scritto - procura sensazioni difficili da descrivere: è come se al volante dell'auto noi italiani ci sentissimo un po' Cristoforo Colombo, un po' Amerigo Vespucci, pronti a spingerci oltre i confini conosciuti.
Lo so: sono il solito esagerato! 
In realtà non è che dovessi andare molto lontano: il mio amico G. abitava, infatti, solo al di là del fiume Hudson, il corso d'acqua (colossale!) che separa New York e Manhattan con lo Stato del New Jersey. 

Ansia? Un po', solo un po': in auto sarei stato solo, ma il funzionamento del navigatore mi confortava e rilassava (anche forse perché ero comunque munito di Atlante stradale...). Le amiche lettrici non possono capire, visto che vogliono sempre far di testa loro e cercare comunque un percorso alternativo a quello elaborato dal Gps... In genere, invece, un uomo obbedisce ciecamente ad un navigatore, considerandolo al pari della  propria fidanzata, della propria compagna/moglie. Della quale si fida e alla quale si af/fida.

E così fu: io seguivo senza obiezione alcuna il mio fido Tom Tom che mi conduceva, street dopo street, verso il Lincoln Tunnel, una delle gallerie che insieme a vari ponti conducono fuori Manhattan.



Ok, avevo il navigatore, ma se guardate la cartina qui sopra - ma soprattutto la foto che segue - potrete facilmente intuire perché nonostante le precise indicazioni che ricevevo, ad un certo punto sbagliai strada.
Fui così costretto a fare due volte "il giro" di 'sta roba che vedete qui sotto, prima di trovare il percorso giusto per entrare nel tunnel. Ma non prima d'aver effettuato, ebbene sì, lo confesso, una di quelle che io definisco manovra "alla romana" .

Come oggi, mentre leggete, io non sia ancora là a vagare alla ricerca della giusta strada, non lo so...


Alla fine ce la feci. 
Entrai in una delle tre gallerie costruite sotto il fiume fra il 1937 e il 1957, e notai che non c'era pedaggio da pagare. Scoprii che lo avrei pagato al ritorno, per "entrare" a Manhattan. Le autostrade, negli Usa, sono praticamente tutte gratuite, e nel raro caso di pedaggio si tratta di una tariffa irrisoria. Si paga spesso, invece, il passaggio su alcuni ponti (pratica che trovo un po' "medioevale", della serie "Un fiorino!"...) e, appunto, l'ingresso in alcuni tunnel.


Ognuna delle tre gallerie aveva due corsie (per la verità assai strettine...) che seguivano lo stesso senso di percorrenza. Ma mi pare d'aver capito che il senso di marcia della galleria centrale cambia secondo le ore di maggior traffico.
Dentro la galleria le indicazioni erano chiarissime: vietato, vietatissimo, ogni sorpasso o cambio di corsia; dove si entra, si resta.
L'indicazione "STAY IN LINE", "RESTA NELLA TUA CORSIA" la si poteva leggere ogni dieci metri... 

Là dentro - anzi, là sotto - l'atmosfera, lo ammetto, era vagamente claustrofobica, sensazione che aumentava decisamente se mi soffermavo a pensare che sopra di me v'erano migliaia di tonnellate d'acqua di un fiume colossale, come ho già scritto. E quando lo definisco colossale non esagero, visto che il fiume Hudson - dalla punta sud di Manhattan (Battery park) al New Jersey - misura in larghezza quasi un chilometro e mezzo (!), precisamente 1548,42 yards. 
Ma dovevo concentrarmi, soprattutto per evitare di passare la linea doppia continua e mantenere la distanza di sicurezza da chi avevo davanti tenendo la velocità costante, visto che il rigidissimo limite era di 35 miglia all'ora, 56 km orari. Mi rassicuravo pensando che percorere quei due chilometri e mezzo di galleria sarebbe stata solo una questione di minuti.

Sbucare dall'altra parte del fiume, arrivare in New Jersey, è stata per me una vera sorpresa:


perché ero partito circondato da una selva di grattacieli e palazzoni, mentre dopo pochi minuti mi trovavo ad attraversare paesaggi composti da piccoli paesini di villette mono-familiari, ognuna con il box doppio, il proprio prato curatissimo e, soprattutto (cosa che non smette di stupire noi italiani), senza alcuna recinzione, né sbarre alle finestre.

Prima di arrivare all'appuntamento, in uno di questi paesini vedo un cartello che mi incuriosisce.
Mi fermo e lo fotografo.
Verrò poi a sapere che negli Stati Uniti spacciare droga nei pressi di una scuola è un'aggravante.
O meglio, l'aggravante scatta se uno spacciatore viene pizzicato all'interno dell'area delimitata da cartelli come questo, che vengono posti in un raggio di circa mezzo chilometro dall'edificio scolastico, ma il limite varia da Stato a Stato.

Insomma, chi viene beccato da quelle parti a spacciare si vedrà automaticamente aumentare la pena di tre anni secchi.
Ma ci sono Stati americani dove gli anni di "aggravante" sono anche maggiori.

Poi arrivo.

L'appuntamento con G. è al Bar Sanremo di Hoboken.
Anche se non c'ero mai stato, riconosco il locale da lontano: sopra l'ingresso, accanto a quella americana sventola infatti la bandiera italiana. In questa parte di New Jersey gli abitanti di origine italiana forse sono davvero la maggioranza.
Ai tavolini del bar, due copie di America Oggi - il quotidiano in lingua italiana che si stampa negli Usa - la Gazzetta dello Sport e Tuttosport del giorno prima. La tv è sintonizzata su RaiUsa: vedere dall'America la Clerici con il suo grembiule che traffica in cucina, ammetto che fa un certo effetto...
Dietro alla vetrina del bancone, cannoli siciliani, cassate, babà e giganteschi maritozzi con la panna.
"Vuoi mangiare qualcosa?", mi viene chiesto. Sorrido: dovunque un italiano vada all'estero, c'è sempre questa fra le prime domande che si sente fare da un parente o da un amico (italiano, ovvio)...

Ci abbracciamo.
Quanto voglio bene a G....
E quanta emozione mi procura il calore degli immigrati italiani all'estero.
Mi presenta ai suoi amici ma, tempo di stingerci la mano e di sentirmi fare (le solite) domande sull'Italia, ho davvero l'impressione di essere loro amico da sempre.
Non resisto al cappuccino - caffè italiano, of course... - con il monumentale maritozzo alla panna (anche questa, ora, la posso confessare...); ma proprio in quel momento mi rendo conto di aver lasciato il portafoglio in bella vista nell'auto, sul sedile a fianco al mio, e scatto verso l'uscita per recuperarlo di corsa.
Mi fermano sorridendo: "Non siamo in Italia, qui. Nessuno te lo frega, anche se da fuori si vede, tranquillo...". 
E io che un po' sorrido.
E un po' no...

Usciamo, e io e G. inziamo a parlare. Passeggiando, "il discorso" rimandato da tanto tempo viene fuori poco per volta, perché - mi dice - "non so come iniziare (e finire) la mia storia". 
Mi dice che gli sembra come la Tela di Penelope.

"Non so come facciano gli altri emigranti a spiegare in due parole una cosa così complicata. Come facciano gli altri a descrivere ricordi, sensazioni, emozioni, paure, sogni..."

"Perché, mio caro, quello che può sembrare un capitolo coraggioso della mia vita, una scelta coraggiosa compiuta ad un certo punto della mia esistenza, una scelta che ha coinvolto anche la vita di altri, temo sia soltanto una banale scelta di 'viltà'.
E tutte queste sensazioni, questo senso di colpa, rimangono dentro come un macigno, come una pietra tombale".

"Dovrei iniziare da molto lontano... 
Dovrei iniziare dalla prima parte della mia vita, dal paesino siciliano che ho lasciato. Dovrei raccontarti cosa rappresentava per me il mio paese.
Dovrei iniziare da quando ho dovuto abbandonare gli studi, la scuola che amavo tanto.
Dovrei parlarti del provino che avevo superato per giocare nel Perugia calcio, in serie A, dell'Università che avrei voluto frequentare, del futuro da sogno che avevo davanti...


Invece ti devo raccontare di quando avevo 17 anni e mi sono trovato una famiglia da mantenere facendo un lavoro che odiavo, in un ambiente che odiavo.

Ecco, dovrei inziare dalla mia famiglia.

Dovrei parlare di mia moglie che è stata la prima ragazzina che ho amato e che Dio ha voluto diventasse mia moglie...

Dovrei parlarti delle mie bambine, che ora sono donne fatte.

Dovrei parlarti della politica, così difficile da fare in Sicilia, del mio essere di sinistra e della mia militanza nel Pds, che anno dopo anno mi ha portato ad un certo punto a diventare segretario della sezione del mio paese.

 
Ma devo parlarti di quello che è successo quando mio padre è morto, e delle condoglianze che abbiamo ricevuto. 
Devo parlarti di quelli che ci hanno mandato un biglietto tutto sgrammaticato con una frase del tipo 'Vi siamo vicini, capiamo che adesso per voi è difficile: allora passiamo ad incassare fra quindici giorni'.

 
E allora devo raccontarti dello sbalordimento mio e di mio fratello, che non sapevamo nulla, che non capivamo, che mai avremmo immaginato.

Devo raccontarti della nostra scelta di denunciare la cosa alla Polizia, di dire 'no', di non cedere all'arroganza, di non far finta di niente di fronte a quelle telefonate.
Che prima avevano toni gentili, quasi preoccupati, poi persuasivi, falsamente amichevoli, quasi fraterni, ma che presto arrivarano ad essere impazienti, poi aggressivi, poi minacciosi...
Dovrei parlarti delle mie continue crisi respiratorie che avevo in quel periodo e che non riuscivo a far andare via.

Poi dovrei descriverti il boato di una bomba, quella che ha distrutto l'ufficio che fu di mio padre e che con la sua morte avremmo dovuto gestire noi figli.


Dovrei raccontarti di quella volta che per cercar di capire come uscire da quella situazione, come se ci fosse stato qualcosa da capire, andai fino a Milano a discutere con un delinquente, una specie di boss, nel retro di un ristorante, in mezzo a donne mezze nude. 

E io, cretino, che più che temere lui, ero terrorizzato all'idea di una retata improvvisa e a come diavolo avrei potuto spiegare a mia moglie perché mai mi trovavo lì, con tutte quelle donne nude intorno.
Io, che ero nipote di un capitano dei Carabinieri, uno dei collaboratori di Falcone e Borsellino: io cosa cazzo ci stavo a fare in quel posto, davanti a quello là, con quelle donne lì?


Allora dovresti anche sentire di quando vidi ammazzare un ragazzo davanti ai miei occhi, colpito in pieno petto quando era a meno di un metro da me. Era un mezzo delinquente, è vero, figlio di gente poco per bene, ma cadde davanti ai miei piedi proprio mentre io ero seduto tranquillo a una panchina in piazza, al paese. 

E non è vero che quando viene colpita, una persona muore come nei film:  a terra il corpo di quel ragazzo sobbalzava da solo, come investito da convulsioni. 

O forse ti dovrei raccontare la morte di un bambino di otto anni ucciso per errore in uno scontro fra bande a Niscemi: ero amico della sua famiglia e ora c'è un monumento, in paese, a quel bambino...

Insomma, dovrei rivivere tutto questo. 
E anche se mi fa male ritornare su quella prima parte della mia vita, forse dovrei finalmente parlarne...
Ma forse so anche che non ci riuscirò mai.
Ma che razza di vita era, quella? ".

Cari amici di Aria Fritta: erano anni che, io e G., nelle nostre chiacchierate giravamo attorno a questo argomento, ma io non avevo mai osato chiedere. Aspettavo che fosse lui ad aprirsi, a rendermi partecipe di questa parte della sua vita.
Della parte italiana della sua vita...

E allora lo ascoltai senza interromperlo. Perché in quel momento ebbi l'impressione che davvero non avesse parlato quasi con nessuno di queste cose.

E che invece, ora, il "momento" era arrivato.
Finalmente.


"E poi..."


"... E poi dovrei parlarti della seconda parte della mia vita...

Della scelta che facemmo di vendere ciò che ci aveva lasciato nostro padre e di andarcene via dalla Sicilia, e io in America.

Dovrei parlarti della scelta di non voltarmi più indietro.
Di non chiedermi cosa ne sarebbe stato di mia madre, di mio fratello, di mia sorella, della mia casa, del mio splendido paesino in riva al mare siciliano.
La scelta di azzerare tutto.

Dovrei parlarti della mia anziana nonna materna, che ormai era spesso poco lucida, ma che sorprendentemente mi riconobbe quando andai da lei la sera prima di partire. E allora, con lei seduta sulla sua sdraio, io mi inginocchiai ai suoi piedi per appoggiare la testa sulle sue gambe, come facevo da bambino.
Dovrei parlarti delle lacrime disperate che quella sera ho versato, con lei che, accarezzandomi la testa mi disse soltanto 'Vai via, vero? Non ti rivedrò mai più'...".


Dovrei parlarti di quando la baciai sulla fronte e me ne andai, con la morte nel cuore, e delle lacrime che abbiamo versato io e mia moglie, insieme, quella notte, nella nostra ultima notte italiana. E noi che avremmo lasciato la nostra casa, quel profumo di gelsomino e rose, e quella vista sul mare di Sicilia.

Com'era bella la nostra casa, Dario...

Dovrei parlarti di quell'ultima notte, quando con un filo di voce le dissi 'Possiamo restare, se vuoi...'. Ma era irremovibile, lei.
Come lo ero io...

Dovrei parlarti di quella mattina che partimmo senza voltarci, di quando abbiamo preso l'aereo a Catania e già mi sentivo più tranquillo.

Insomma, dovrei parlarti della mia fuga in America.
Della scelta di ricominciare tutto da zero.
Da capo.

E allora dovrei anche raccontarti degli anni che qui ho passato come 'clandestino'
Sì, esatto: clandestino.

Qui sono più gentili che in Italia: qui una persona di questo tipo viene semplicemente definita 'illegal', 'illegale'; ma la sostanza è che sono stato, ero, un 'clandestino', uno senza un legale permesso di residenza e di lavoro.

Nonostante la solidarietà umana - il calore che ho ricevuto e la serenità che ho ritrovato qui, a migliaia di miglia dalla mia Sicilia - dovrei parlarti della paura quotidiana di essere beccato, di essere cacciato, di esser costretto a tornare in Italia...

Non mi sarei mai però avventurato qui, con moglie e bambine, se non avessi avuto una specie di piano: una casa dove vivere, un lavoro che mi aspettava. 
Quando arrivai, fui subito preso in una pizzeria, e dopo un mese io e mia moglie eravamo già in grado di pagarci l'affitto per il nostro appartamento e a camminare con i nostri piedi.


Qui, in America, mi colpirono immediatamente gli odori, il senso di pulizia, il rispetto per la cosa pubblica, l'educazione e la sensazione di  tranquillità e sicurezza. 
E poi respiravo meglio, forse in tutti i sensi: e piano piano le mie crisi respiratorie scomparvero.

Tempo tre mesi e diventai appunto "illegale", come si dice qui.
Ho lasciato scadere l'autorizzazione del viaggio turistico. Sapevo che era una specie di passaggio obbligato della mia vita da emigrante. Ma c'era un avvocato che seguiva la mia pratica.
E io non potevo permettermi di tornare in Italia e rinunciare a vivere

Guardavo però gli altri connazionali e subito mi rendevo conto di quello che non volevo diventare: c'era gente che non sapeva una parola d'inglese, che frequentava solo italiani: casa, e poi bar italiano, circolo ricreativo italiano, il campionato di calcio italiano la domenica...
Io mi iscrissi all'università, e non ero mica un ragazzino, sai? Mi sono iscritto a corsi di inglese per stranieri.
E mi trovai un lavoro extra a part time in un negozio di noleggio film, così vidi decine, centinaia di film in inglese...
Certo, ho attraversato momenti dolorosi, come la perdita di persone care in Italia.
O ho vissuto momenti di autentico panico, come quando al ristorante si presentarono due agenti dell'Fbi: e meno male che non eravamo noi ad essere sotto indagine...

Quando ero clandestino invidiavo i cani e gli uccelli che erano esseri liberi, e quasi disprezzavo i tossico e i delinquenti, perché - pensavo - non si meritavano il lusso di essere 'cittadini americani'.
Ma non ho mai avuto problemi: quando lavori e alla fine della settimana porti a casa i soldi che ti servono per tutto, e magari riesci anche a mettere da parte qualcosa, sei sereno.
Ed è questo quello che conta, nella vita, credo.

Poi, poco per volta, nella vita le cose si sistemano: un posto di lavoro con sponsorizzazione, e la domanda per la Green Card...

Uno dei momenti di assoluta felicità della mia vita fu quando la Green Card arrivò nella casella della posta di casa mia. E' stato uno dei momenti più belli della mia vita. Una sensazione di felicità che avrei pensato di poter riprovare solo se io fossi riuscito a tornare all'innocenza dell'adolescenza.

Oriana Fallaci ha scritto che per lei l'America era "un amante al quale lei sarebbe stata sempre fedele, mentre l'Italia era sua mamma".
Ecco, io sento esattamente la stessa cosa.  

Ma non mi chiedere di cosa penso dell'Italia, vista da qui. 
Il mio idolo, in Italia, era Sandro Pertini.
Sono sempre stato di sinistra, socialista, amo l'Italia, ma davvero non riesco a sopportare la politica italiana di oggi.
Vista da qui, con il distacco favorito dalla distanza, la politica italiana la trovo rivoltante.

Dovrei parlarti di tutte le volte che ai miei cari  ho detto 'Ma sì, dai, probabilmente verrò l'anno prossimo, in Italia...'
E invece ne sono già passati 15 di anni, ormai.

E loro che adesso me lo chiedono sempre di meno, quando mi farò rivedere.

E' che io ho paura di scalfire il mio ritrovato equilibrio, la mia pace con il mondo.
La pace e la tranquillità che ho trovato qui, Dario.

Bada bene, tutto questo ha avuto un costo altissimo: la solitudine, la paura, la fatica di fare due lavori contemporaneamente, quella di aprire la mia pizzeria e poi di chiuderla per una sensazione che sentivo nell'aria, prima che se la potesse mangiare la crisi.
Tutto questo oggi lo definirei 'un salto pazzesco di razionale pazzia'.
Perché non pensare che io non sogni il mio mare, il profumo del pesce e del pane del mio paese.
Mi incanto sempre a guardare le foto del mio paesino siciliano in riva al mare...".

Però? Gli chiedo...

Però?

"Però oggi mi sento bene, Dario.
Finalmente.
Oggi mi sento sereno.
E libero. 
In un Paese dove basta rispettare la legge e lavorare, per migliorare la tua vita. Quella tua, della tua famiglia e dei tuoi figli".

 
Il discorso scivola sul giorno del suo giuramento.
Già, perché da qualche mese, infatti, il mio amico G. è diventato cittadino americano.
E a ricordare quel giorno gli luccicano gli occhi.

"Come mi batteva all'impazzata il cuore in quel momento, quando con tutte quelle persone ho recitato ad alta voce la formula del giuramento, con la mano destra alzata, insieme a tutta quella gente con gli occhi lucidi e la pelle di tutti i colori, noi, "miserabili rifiuti dei vostri lidi affollati", come c'è scritto alla base della Statua della Libertà.
Non mi vergogno a dirtelo, sai?, ma io - dopo aver giurato e dopo aver ricevuto il diploma da 'americano' insieme ad una copia della Costituzione e ad una bandierina americana - uscito dalla sala, ho pianto.

Ho pianto come un disperato fra le braccia di mia moglie.
Ho pianto come un bambino.
Ma dopo - proprio come succede ai bambini, dopo un pianto disperato - mi sono sentito leggero.
Libero.
Sereno.
Lontano".


Mamma mia... 
Mamma mia, cari amici di Aria Fritta. 
Mi fermo per qualche istante. Devo riprendere fiato.

Poi ridiamo anche, però: come quando mi racconta della sua patente ottenuta pur essendo illegale
Fece la domanda lo stesso, consegnandola però ad una impiegata che - aveva notato guardando la spilla di riconoscimento - aveva un cognome italiano. Lui riconobbe immediatamente l'accento siciliano di lei e allora iniziarono a parlare dialetto.

G. fu sincero, e in siciliano, appunto, sottovoce le disse di avere "bisogno della patente per poter lavorare".

Con lei, allora...

Con lei che in silenzio per qualche decina di secondi lo guardò bene e fisso negli occhi, per poi prendere sempre in silenzio il modulo grazie al quale poi G. fece l'esame di guida.
E con 
un leggero, impercettibile, sorriso, ci mise un timbro sopra.
Un po' come "Il pescatore" di Fabrizio de André.



Ci facciamo una foto insieme e poi ci salutiamo abbracciandoci, come fanno gli amici di sempre.
Come lo saremmo stati ancora di più, d'ora in poi.

Penso a quell'assurdità che lui mi ha detto all'inzio: quando si è definito "vile" per la scelta che ha fatto. 

Avrei voluto picchiarti, G, prenderti a schiaffi, darti un pugno, proprio come un amico picchia un amico che dice una cazzata gigantesca contro se stesso. Ma forse avrei solo dovuto semplicemente citarti la frase dello scrittore francese Henry Laborit: "In tempi come questi la fuga è l'unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare".

...

Poi me ne vado.Salgo in auto con un nodo alla gola, e con nelle orecchie la frase con la quale Salvatore, uno dei miei nuovi amici americani, mi ha salutato: "Ora che sai la strada puoi ritornare...".
Metto in moto e me ne vado con gli occhi gonfi di emozioni e la gola che mi esplode.

Accendo la radio a tutto volume, la sintonizzo su una stazione di musica country e parto senza far caso alla direzione.

Vado a zonzo per un'oretta per le strade del New Jersey, attraversando paesini ordinati e tranquilli, con le casette ai bordi della strada, senza muri attorno o recinti, senza traffico, e circondate da colline dolci.

Dopo aver fatto benzina compro una Coca Cola che sorseggio guardando un ruscello che passava davanti ad una fila di villette, semplici ma bellissime.

Le indicazioni per l'Interstate diretta a New York mi fanno passare ancora in mezzo ad altri piccoli paesi, con un incredibile numero di bandierine italiane appese fuori dalle casette da un piano e mezzo.

Sorrido con affetto di quell'orgoglio italiano.

E' lì, in quel momento, che - dopo anni di viaggi in America - arrivai alla conclusione che, davvero, forse l'unico modo per amare l'Italia è starne lontani.

Mi infilo nella Interstate, e dopo un'altra oretta di autostrada, da lontano, vedo New York tutta illuminata che mi aspetta.

E' notte, ormai. 
E alla radio, gli Eagels cantano la loro "Desperado"...


***

Questo racconto, questa storia (vera), la scrissi il 14 febbraio 2013, 11 anni fa, sei mesi dopo l'incontro con il mio amico Giorgio. 
Impiegai infatti qualche mese a smaltire quel carico di emozioni, prima di scrivere.
Giorgio, che - per motivi facilmente intuibili - allora chiamai solo "G." per una sorte di scrupolo, di protezione, ecco.

Da allora sono cambiate tante cose, per il mio amico G. 

Come mi aveva preannunciato, ad un certo punto - qualche anno fa, raggiunti i requisiti dell'età pensionabile - Giorgio e la moglie decisero di tornare in Italia, nella loro Sicilia. 
Una scelta, anche quella, in qualche modo lacerante, visto che una delle due sue figlie - ormai adulta - decise di rimanere negli Stati Uniti, mentre l'altra non se la sentì di restare in America e aveva già deciso di tornare in Italia. 
Andando però ad abitare in Veneto, dove già viveva uno zio. 

Giorgio, invece, rientrò nel suo (potenzialmente bellissimo) paese siciliano, da dove era partito.

Un piccolo paradiso, una piccola frazione in riva al mare, però non poco trascurata. 
Tormentata quotidianamente da roghi illegali di discariche abusive che ne avvelenano l'aria, oltre a deturpare il paesaggio: le maledette "fumarole".

Tornato al paese, quell'incuria e quel vandalismo quotidiano erano diventati il suo tormento. 
Perché i rifiuti (con i successivi roghi) che avvelenavano l'aria, non cessavano (e non sono cessati): nonostante le numerose denunce sui social, gli ovvi esposti alle Autorità, le petizioni e manifestazioni pubbliche di un gruppo di cittadini onesti che avevano formato anche una associazione.  
"Sono un continuo crimine a cielo aperto", mi scrisse disperato lo scorso settembre, "ma qui sembra non interessare a chi ha responsabilità. Non è giusto, Dario". 
Non sapevo cosa rispondergli.
Gli dissi solo "Giorgio, mi raccomando, sii solo prudente".
Con lui che mi rispose "Non si può restare inermi, è nella mia natura, lo sai... Ma sì, certo, starò attento. Grazie, Dario".

Il 17 dicembre, un mese fa, improvvisamente il cuore affaticato di Giorgio - dopo una vita trascorsa a spezzarsi la schiena negli Stati Uniti - non ha retto e ci ha lasciato. 
Giorgio, il mio amico Giorgio, è così morto in Sicilia, come lui avrebbe voluto.
Anche se maledettamente troppo presto, a 64 anni.

Sono giorni che non riesco a darmi pace...

Mi piace ricordarlo così, pensieroso e solitario, in una delle sue ultime foto fattegli da una delle sue figlie, al tramonto davanti al meraviglioso mare della sua Scoglitti. 
A pensare al futuro. 
Al suo domani. 
Che è stato troppo breve, maledizione.





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