PERSONE CHE HANNO LETTO O CURIOSATO

mercoledì 31 dicembre 2014

Mica stanno a pettinare le bambole!

Care lettrici, queste righe, in particolare, sono per voi.
Anzi, guardate dove porto oggi la bambina che è (ancora?) in voi...
Perché, in fondo, da qualche parte, c'è ancora in voi la bambina che siete state, vero?

Peccato che io sia assai disordinato, perché - chissà dov'è... - la foto (o era ancora una diapositiva?) dovrei averla ancora da qualche parte.
Una fotografia che feci perché trovai davvero geniale l'idea.

Permettetemi però innanzitutto di sgombrare subito il campo dai moralismi: io, poi, non sono proprio la persona adatta a fare la morale.
Dunque lettori e lettrici, affrontate queste righe con leggerezza e non con il sopracciglio alzato e l'espressione vagamente severa e scandalizzata.

Insomma, vi voglio raccontare di quella volta che rimasi a bocca aperta davanti ad un negozio, che a prima vista scambiai per un normale, semplice, negozio di giocattoli.
E che era, invece, esclusivamente per bambine (uffa...!).
Un negozio (anzi, una catena di negozi) che nasce ancora una volta dalla stessa logica - consumistica, ok... - che potrete toccare con mano in un qualunque supermercato americano. 
Qualcuno obietterà che si tratta di "consumismo spinto all'eccesso" (ma qui si rischia di introdurre un discorso di lunghezza infinita, e queste pagine - lo ripeto - non intendono dimostrare niente né essere un trattato di sociologia politica...). 

Comunque - come ha capito chiunque di voi si sia recato negli Usa e sia entrato in un qualunque supermercato americano - la logica che guida il commercio, in America, è una: scovare, soddisfare, ogni tipo (OGNI TIPO!) di gusto, e cercare di interpretare, anticipare e soddisfare ogni tipo di tendenza, individuando e conquistando nicchie di consumatori le cui esigenze erano fino ad allora state trascurate. 

Le semplici patatine, per esempio: ora, certo, ci sono anche da noi le chips di vari gusti. Ma non vi immaginate quanto sia stato per me difficile, durante i miei primi viaggi americani, individuare negli scaffali dei supermercati Usa, le semplici patatine chips: quelle salate e bon.
Quelle che da noi, per lungo tempo, si sono chiamate semplicemente "Pai", dal nome dell'unica industria che in Italia le produceva.

In America, vi accorgerete, trovare quelle "semplicemente salate" è una mezza impresa, se si tiene conto che ci sono anche quelle "poco salate" o "senza sale"! 

E' comunque quasi più facile trovare, infatti, patatine chips al peperoncino, all'aglio, al bacon, all'aroma di carne barbecue, al mix "sale-aceto", "cipolla-aglio", "panna acida-cipolla", "mango salsa", per arrivare - spingendosi verso i confini più estremi dell'universo "gustativo" - alle "wasabi ginger", financo, poi...
... financo, poi alle patatine chips al gusto "cappuccino".
o:O

"Al cappuccino": avete letto bene.

Che no, non ho assaggiato: non ne ho avuto il coraggio. 
Non ce la facevo proprio...
Negli Usa, dunque, è così.
Si deve cercare di soddisfare ogni gusto, ogni tipologia di potenziale cliente trascurato.

E questo vale, ovviamente, anche per i negozi.
Anche per quelli di giocattoli.

Come sanno benissimo le nostre amiche lettrici, quello femminile è un vero e proprio "universo" fin da quando una donna è ancora bambina: è un mondo (pardon, un "universo"...) complicato, variegato, composto da mille sfumature.
E' un mondo a parte, insomma, sostanzialmente incomprensibile per noi poveri maschietti.

Noi, cosa volete, siamo (stati) più semplici: un fucile, una pistola (peraltro vietetissime a casa mia! Quanto era avanti la signora Rosetta, mia mamma, già negli anni '60...), qualche pacco di Lego o un'autopista elettrica Polistil.
Che quando di curve ne aveva più di tre era da far vedere agli amici.
E bon.

Voi bambine no.
Voi bambine siete "dolcemente complicate" fin da piccole.

Ora che ci penso, ricordo che a Torino c'era un negozio di giocattoli in via Carlo Alberto mi pare, che si chiamava "Il paradiso dei bambini": ecco quella in cui vorrei portarvi oggi è la versione laica, americana (e femminile!) di questo paradiso.

All'apparenza, dall'esterno, si tratta di un "normale" negozio di giocattoli ESCLUSIVAMENTE per bambine (e noi? Noi ci attacchiamo al tram, ragazzi...).

Il nome - e il colore della facciata - d'altronde non lasciano spazio ad interpretazioni differenti.
Entrando, una bambina lì ha proprio l'impressione di essere nel paradiso (terrestre..).
All'interno, infatti, si può trovare tutto quello che serve per rendere felice - e viziare - una giovanissima futura donna.

Bambole, ovviamente.
Bambole a non finire.
Ma che definire semplicemente "bambole" è un errore. 

Intanto vengono vendute bambole di ogni tipo: e non solo di ogni dimensione, ma anche di ogni etnia e di ogni "forma", ogni taglia.
E' da tempo che pedagoghi denunciano l'eccessiva,  diseducativa, magrezza della bambola Barbie, per esempio.

E allora ecco che all'American Girl, accanto alle classiche bambole taglia "Small", ci sono quelle "Medium size", le "Large size", fino a quelle più "formosette", taglia "XL".

Non solo. 
In ogni negozio American Girl c'è "l'ospedale", che poi sarebbe il reparto "riparazioni". 
Che infatti si chiama "American Girl Doll Hospital"
"Ospedale" con i suoi reparti specializzati dai nomi vagamente truculenti: ma chiunque abbia una bambina in casa sa che alle povere bambole ne succedono di tutti i colori.

E infatti all'"American Girl Doll Hospital" c'è il reparto "Testa nuova"
il "Corpo nuovo (torso e arti)"
il reparto"Reinserimento della testa"
quello "Reinserimento del torso e degli arti";
infine il reparto "oftalmico": "Ricollocazione oculare".
Dello stesso colore dell'originale, però. Niente bizzarrie genetiche, per cortesia, ché come vedremo più avanti non mancano anche in questo negozio.

Interventi effettuabili con tariffe agevolate per le piccole clienti assassine recidive...

Naturalmente, al termine di ogni "ricovero", la bambola viene dimessa con il "Certificato di buona salute" e, per ricordo, alla mamma-bambina vengono lasciati il "Doll Hospital ID bracelet" (il braccialetto identificativo assegnato alla bambola durante il "ricovero"), la "Doll Hospital gown" (il camice da notte della bambola) e la "Get Well Card", la cartolina di "Auguri di pronta guarigione".

In ogni negozio "American Girl", è poi disponibile personale specializzato per applicare orecchini ai lobi delle orecchie delle bambole, 
ma anche per dotare di apparecchi acustici le bambole di bambine con problemi di udito
così come sono in vendita bambole senza capelli per quelle piccole che in quel periodo subiscono trattamenti antitumorali,
e bambole in carrozzina per non far sentire sole le bambine con difficoltà di deambulazione.
Temporanea o meno...
Che mi venga un colpo!  
Non smettono di lasciarmi a bocca aperta, questi americani...

Naturalmente, all'interno di tutti gli "American Girl" (presenti in una ventina di città americane) ci sono ristoranti e locali disponibili per feste, immagino off limits per i poveri maschietti.
Da frequentare con i genitori o baby sitter.


I prezzi, tutto sommato, sono sopportabili: 
antipasti da 4 a 7 dollari (3,38-5,75€), 
piatto principale da 8 a 18 dollari (6,57-14,80€), 
dolce da 4 a 7 dollari.
15,50 dollari a persona per un brunch completo,
16,50 dollari a persona per il lunch, il pranzo, e per il dinner, la cena, e 12 dollari per il the (pasticcini compresi).

Che in pratica significa che le bambine possono stare in quel paradiso rosa quanto tempo vogliono e mangiare rispettivamente con 12.50, 13.57 e 9.86 €uro.
Mancia (e tasse) escluse.

Poi, nei negozi "American Girl", c'è il "reparto acconciature".
Dove, cioè, alcune parrucchiere pettinano la bambola - non prima di averla fatta accomodare sugli appositi seggiolini - copiando esattamente la pettinatura della loro giovanissima mamma. 
E così, bambina e bambolina, diventano praticamente gemelle... 



Per puro dovere di cronaca (sono un giornalista, in fondo...) devo segnalare che, negli anni, l'attività dell'"American Girl" non è stata esente da polemiche (politiche) seppur squisitamente "americane".

Come quando nella collezione arrivò "Addy", il primo bambolotto afro-americano dell'"American Girl": il problema è che rappresentava uno schiavo, e questo non è andato giù alle associazioni antirazziste.
Anche se, successivamente, alla fine della rappresentazione della Guerra Civile, Addy venne dichiarato "uomo libero". 

Poi quando vennero tolte dalla collezione storica "Cécile Rey" e "Ivy Ling", rispettivamente personaggi afro-americano e cinese-americano.

Nel 2005 a lanciare strali contro "American Girl" furono invece alcuni gruppi cattolici Usa, che criticavano duramente l'azienda per i fondi che assegna ad associazioni che sostengono sì ragazze madri e povere, ma che contemporaneamente promuovono anche il diritto all'aborto o i rapporti fra persone dello stesso sesso. 

La "American Girl" è comunque costantemente attiva in progetti di beneficenza: annualmente sostiene una raccolta di fondi per la costruzione e l'ammodernamento di ospedali pediatrici, così come ogni anno dona 500mila dollari (più di 411mila €uro) alla "HomeAidAmerica", associazione 
"no-profit" che costruisce gratuitamente abitazioni per senzatetto.

E così, polemizzando, ridendo e scherzando, da quelle parti si fanno i soldoni.

Basta pensare che in un solo negozio - quello di Atlanta (Georgia), per esempio - ogni anno fatturano qualcosa come 17 milioni di dollari
Quasi 14 milioni di €uro!
Mentre, complessivamente, i 19 negozi della catena, hanno incassato nel 2012 - dati più aggiornati -  567 milioni e mezzo di dollari.
Che sarebbero più di 466 milioni di €uro.

Mica stanno a pettinare le bambole, questi qua!

Anzi, sì.
E fanno palate di soldi proprio così.



© dario celli. Tutti i diritti sono riservati

domenica 21 dicembre 2014

Le avventure di Luigi

Questa è "la storia nella storia" che qualche racconto fa avevo preannunciato.
La prima, abbastanza incredibile - quella su Maria Francesca Saverio Cabrini, la prima santa americana, patrona degli emigranti - l'ho raccontata QUI ma, semmai, leggetela dopo: anche quello è un po' lunghetto...

Fu una donna (una suora) davvero eccezionale: un'avventuriera, una gran testarda, una che, quando si metteva in testa una cosa, era davvero difficile fermarla. 

Ricorderete che suor Francesca arrivò a Nuova York nel 1889 e che da subito iniziò a tirar su asili, ricoveri per ragazze madri, orfanotrofi.
Ma la nostra amica era una che sognava in grande.

E il suo grande sogno era quello di aprire nella Grande Mela di fine '800, il primo ospedale italiano a Nuova York.

Siamo nel 1892 e lei era in America già da tre anni e capì che per trasformare quel suo sogno in realtà avrebbe dovuto insistere nel fare ancora meglio quel che sapeva fare benissimo: "lavorare ai fianchi" di benestanti esponenti della comunità italiana che nel frattempo aveva conosciuto, per cercare finanziatori.
Visto che lei, di soldi - come sappiamo - non ne aveva.
(Mary Isabel Reid Jennings di Cesnola)
Quando a Nuova York conobbe la contessa Mary Isabel Reid Jennings di Cesnola, giovane americana moglie di un nobile piemontese, capì che aveva davanti la persona giusta per trasformare quel sogno in realtà. 
Perché questa era ben introdotta, aveva un sacco di conoscenze dell'alta borghesia newyorkese, ma soprattutto  era moglie del conte Luigi Palma di Cesnola, che da tempo abitava a Nuova York.
E che fu il primo direttore del Metropolitan Museum di Nuova York.

Lo so, ve lo stare chiedendo anche voi, così come me lo sono chiesto anch'io: come diavolo è stato possibile che il primo direttore del più importante museo della Grande Mela sia stato un italiano?

Per capirci qualcosa dobbiamo tornare al 28 giugno del 1832 e fare un salto di 6558 chilometri, esattamente la distanza che c'è fra Nuova York e un piccolo paesino a 35 chilometri da Torino, Rivarolo Canavese.
Oh, so cosa avranno pensato i miei amici piemontesi: "Ossignur! Ma ròba da mat! Da bon??"
Davvero??
Oh già, davvero!

Perché è lì ed è in quel giorno che a Rivarolo Canavese, dal conte Maurizio Palma di Cesnola e Eugenia Ricca di Castelvecchio, nacque il loro figlio Luigi.
La storia ci racconta che si trattava di una famiglia di "recente nobilitazione", liberale e patriottica.

Il padre Maurizio e il fratello di questi, Alerino, durante il periodo napoleonico si erano contraddistinti per essere attivi "rivoluzionari" che spingevano il Regno di Sardegna verso la rivoluzione costituzionale. 
Sul trono c'era, a quel tempo, Vittorio Emanuele I di Savoia, che ad un certo punto - contrario all'impetuoso vento riformista che soffiava anche in Savoia, Piemonte, Liguria e Sardegna - abdicò a favore di Carlo Felice, sposato, tra l'altro, con Maria Cristina di Borbone-Napoli, figlia di Ferdinando di Borbone, Re delle Due Sicilie.

Ma era troppo conservatore, Carlo Felice, rispetto ai venti che spiravano in quel periodo. 

E dunque il capo dei ribelli "riformisti" piemontesi, il conte Santorre di Santarosa, si incontrò segretamente con il discendente di un ramo collaterale dei Savoia: Carlo Alberto. Il quale intendeva fare volentieri le scarpe al cugino Carlo Felice, soprattutto perché dal matrimonio di questi con la Borbone non nascevano figli. 

E così, un giorno - mentre Carlo Felice se ne stava tranquillamente a Modena non so bene a fare cosa (con Carlo Alberto che nella migliore tradizione italiana al momento della partenza gli disse probabilmente "Stai sereno, Carlè...") -  Vittorio Emanuele I decise di affidare temporaneamente la reggenza a Carlo Alberto. 
Che da quel momento si guardò ben dal restituirla al cugino Carlo Felice.

Ecco: questo è il "quadro" del periodo.
Proprio quando il co-protagonista di questa storia, il conte Luigi Palma di Cesnolasi arruolò nell'esercito piemontese: aveva solo quindici anni e non so dirvi se in questo modo partecipò alla Prima Guerra di Indipendenza con entusiasmo.
Immagino, però, di sì.
Sul campo si guadagnò il grado di sottotenente, e successivamente - frequentando la scuola militare di Cherasco e quella di cavalleria di Pinerolo - arrivò ad essere aiutante di campo di un generale.

Una carriera militare che, però, finì banalmente a causa di un prestito da lui non onorato, pare. 
Una roba seria, a quel tempo.
E anche se lui giurava di non dover affatto restituire alcuna somma a nessuno, al ministero della Guerra mal sopportavano di venire eventualmente sfiorati dall'onta di uno scandalo, per di più per ragioni così poco d'onore.
Dunque ecco che il nostro Luigi firmò la lettera di dimissioni. "A naso" non credo molto volontariamente.

Ma lui era un militare professionista, e lasciato l'esercito piemontese, un generale italiano che comandava truppe turche al soldo dell'Inghilterra, lo arruolò nella legione anglo-italiana che comandava e che prese parte alla guerra di Crimea.
Finita la guerra in Turchia tornò in famiglia, a Rivarolo Canavese. 
Ma non durò molto.
Per lui - 26enne e con quelle avventure alle spalle -  la monotona vita di Rivarolo era più dura di una guerra. 
E allora decide di tentare l'avventura americana.
E sbarca a Nuova York.

E' il 1860.

I primi tempi americani, per lui, sono stati durissimi: viveva in una camera in affitto che pagava grazie a lezioni di musica, francese e italiano che dava a giovani studenti.
E galeotte furono le lezioni...

Perché fu lì che lui si innamorò, ricambiato, di una delle sue prime allieve: una leggiadra fanciulla dal nome di Mary Isabel Reid Jennings, appartenenti ad una delle più importanti famiglie di New York.
Ma soprattutto figlia di Samuel Chester Reid Jennings, eroe della Marina americana, passato alla storia perché fu il creatore della bandiera degli Stati Uniti d'America: con i colori rosso bianco e blu che ricordavano le bandiere francese e inglese, e le stelle che avrebbero rappresentato ognuno degli Stati degli Usa.
Nel febbraio del 1861 Luigi Palma di Cesnola sposa la sua (ex) allieva e abbraccia la causa di Abraham Lincoln.
Intanto - forte della sua esperienza nel Regio Esercito Italiano - apre a New York una scuola militare per aspiranti ufficiali (nordisti, i "buoni"). Un'iniziativa di grande successo, che gli procurò oltre 700 allievi in due mesi.
E mentre in Italia si festeggiava l'Unità, lui - nell'ottobre 1861 - si arruolò nell'11° Reggimento Cavalleria New York: gli venne riconosciuto il grado di Maggiore. 

A questo punto la sua storia si complica, come se non bastasse: perché a quel punto c'è stata di mezzo una lite con un suo superiore, un arresto per ammutinamento, una nomina a Capo di Stato Maggiore, l'annullamento della nomina, il comando nel 1862 di un reggimento di cavalleria (ma senza ottenere il grado di generale), il ferimento in battaglia nel 1863 e, infine, la sua cattura da parte dei sudisti.

Ma solo perché lui rimase bloccato a terra, schiacciato per cinque ore dal proprio cavallo, colpito a morte.
"Gettatosi dove più ferveva la mischia, non ritornò più indietro... Diamo questa notizia sotto riserva e speriamo che non sia vera" scrisse il New York Times il 19 giugno 1862.
Dal peso del cavallo morto che gli bloccava le gambe, fu liberato dai nemici sudisti, che dopo la cattura lo deportarono nella prigione confederale di Richmond, in Virginia. 



Dove vi arrivò costretto a fare, a piedi, qualcosa come 300 miglia, oltre 480 chilometri.

Una prigionia "soft", forse anche perché lui era un ufficiale: al nostro Luigi, infatti, viene concessa una sorta di semilibertà vigilata che gli permetteva di uscire senza sorveglianza. 
A patto che non scappasse, ovvio.
Erano altri tempi, e "la parola" di un soldato - per di più ufficiale, anche se nemico - era una garanzia. 

Dunque, dopo aver dato la "parola d'onore" che non sarebbe fuggito (incredibile, eh?)il nostro Luigi si trovò a vagare libero per le campagne circostanti. 
Fu così che camminando lercio, con i vestiti strappati e affamato, un giorno trovò rifugio in una casetta di un medico, il dott. John S. Kennedy (no, non esageriamo: non era parente...), il quale anche se si rese conto che si trovava di fronte ad un "nemico nordista", lo ospitò per permettergli di darsi una poderosa lavata, di mettersi abiti decenti e di sfamarsi alla tavola della sua famiglia. 

Rimesso a nuovo, il nostro Luigi se ne tornò in prigione (aveva dato la sua parola d'onore!) con un paniere di viveri, un libro, un sapone e un rasoio.

Fino a quando, un giorno, ricevette in prigione la visita della figlia del dott. Kennedy, la quale di nascosto gli mise in tasca un pacchetto contenente una manciata di monete. 
Ma, soprattutto, la ragazza era arrivata con un prete, un sacerdote gesuita italiano, negli Stati Uniti per fondare l'Università cattolica a San Francisco, ma che nel frattempo faceva il cappellano delle truppe sudiste (i cattivi).

"Le farà piacere parlare nella sua lingua con un suo compatriota, immagino...", le disse la ragazza.
Che glielo presentò.

Il nome di questo sacerdote era Padre "Joseph" Bixio.

Esatto: Giuseppe Bixio, fratello di Nino Bixio, il celebre braccio destro di Garibaldi.
Ci mancava solo il fratello di Nino Bixio, in questa storia americana. 
Incredibile, vero?
E fu proprio l'intercessione di Padre Bixio a far uscire dalla prigionia, nel corso di uno scambio di prigionieri, Luigi Palma di Cesnola.

Il quale così tornò di corsa a casa, dove vide per la prima volta sua figlia. 
Ma il riposo durò poco, perché dopo qualche settimana il ministero della Guerra lo promosse colonnello rispedendolo sul campo di battaglia, questa volta al comando di 14mila uomini.
Poi venne chiamato a Washington, questa volta a difendere le rive del fiume Potomac, al comando di settemila soldati, cinquemila cavalli e dieci batterie d'assalto.

L'apice della sua carriera militare lo raggiunse quando il presidente Abraham Lincoln lo nominò comandante della sua scorta personale.
Nel settembre 1864, Luigi Palma di Cesnola lasciò l'esercito per scadenza della ferma militare (e per stanchezza), e da Nuova York iniziò a fare il giornalista, inviando per posta corrispondenze di guerra al giornale di Vercelli "Il Vessillo d'Italia".
E in quelle pagine, lui, raccontava questo nuovo Paese lontano, dichiarandosi apertamente a favore dell'abolizione dello schiavismo e dell'emancipazione degli americani di origine africana. 
Il Governo di Washington, a guerra finita, gli assegnò il grado di generale, riconoscendogli la "Medal of Honor". 

Non solo: Lincoln gli offrì la cittadinanza americana, ma anche l'incarico di rappresentare all'estero gli Stati Uniti d'America. 
Come sede diplomatica, il Presidente Lincoln gli propose la Cina o Cipro. Quest'ultima destinazione con uno stipendio, però, decisamente più basso.

E lui scelse proprio Cipro, più vicina alla sua Rivarolo Canavese e "alla sua cara Italia", così scrisse in un articolo su "Il Vessillo"
Ma anche perché lì avrebbe potuto dar soddisfazione facilmente e finalmente alle sue segrete passioni: l'archeologia e la numismatica.
E visto che a Cipro il lavoro diplomatico non è che poi lo impegnasse molto, nel tempo libero Luigi Palma di Cesnola studiò, si documentò (e scavò...) con grandi soddisfazioni. 
Per ben undici anni.

L'ex soldato del Presidente Lincoln, grazie all'attenta lettura dei grandi classici, nell'ottobre del 1866 scoprì così la città morta di Idalium, mentre quattro anni dopo portò alla luce il tempio di Afrodite a Golgoi.


I suoi ritrovamenti dimostrarono che Cipro, per millenni, fu crocevia di culture, popoli, religioni: micenei, ittiti, greci, troiani, fenici, assiri, romani, ebrei, cristiani, musulmani...

Un materiale pazzesco, gigantesco: oltre 35mila reperti
Anfore, piatti, sculture, monete, gioielli, monili e bracciali in oro massiccio, vasellami d'argento, armi, piatti, calici, lampade, candelabri... 
E poi pietre preziose lavorate: agate, onici, cornaline, cristalli di roccia, tutte antiche di migliaia di anni.

A quel tempo funzionava più o meno così: studiosi o autodidatti di tutte le nazionalità - italiani, inglesi, francesi, tedeschi o americani - andavano dove sapevano che la terra aveva custodito per secoli materiale archeologico di interesse, e pagando (forse) qualche tassa locale, scavavano. 
E quel che trovavano lo vendevano: o ai musei del proprio Paese, o al miglior offerente.
E, infatti, fu così che nella prima metà del '900 vennero riempiti il Museo Egizio di Torino e il British Museum di Londra per esempio. 

Com'era prevedibile, Luigi Palma di Cesnola venne  corteggiato dai musei di mezzo mondo. 
Ma lui, tutto quel ben di Dio, voleva portarlo in America, a Nuova York. 
Ma sapeva che per farlo avrebbe dovuto aggirare in qualche modo l'embargo dell'autorità di Larnaca che colpiva gli Stati Uniti: cosa che lui fece con sfacciata semplicità. 

Si limitò, infatti, ad apporre sulle centinaia di casse al suo seguito, la scritta "Consolato di Russia", visto che ricopriva anche la carica di "Console a Cipro di tutte le Russie".
Quando Luigi Palma di Cesnola nel 1877 ritornò a Nuova York, giunse con la sua fama, la sua cultura, ma soprattutto con 275 casse di meraviglie dell'antichità cipriota

I dirigenti del neonato Metropolitan Museum of Art ancora senza direttore, si resero subito conto che il Met sarebbe partito subito "alla grande" se il loro museo avesse potuto fare sua l'intera eccezionale collezione cipriota "Palma di Cesnola".

Un museo che di botto avrebbe avuto 35mila pazzeschi reperti, come quelli qui sotto.

Trentacinquemila pezzi così...

Come possiamo immaginare, la trattativa fu piuttosto breve. 

Pur di avere l'intera collezione, i dirigenti del Metropolitan Museum fecero al nostro amico proprio l'offerta che voleva:  64mila dollari in contanti per tutto il materiale. 
Una somma niente male, equivalente a più o meno un milione e 380mila dollari di oggi; poco più di un milione e 100mila €uro

Non solo: in più la nomina "a vita" di Direttore del museo, con il compito di ordinare la collezione, restaurarne i pezzi che necessitavano di essere sistemati ed esponendo il tutto in modo adeguato.
Il tutto per uno stipendio mensile di 500 dollari
Che sono 10.782 dollari d'oggi, 8650 €uro
Al mese.

Eccolo qua, il conte (pardon, il direttore) tutto soddisfatto nel suo studio al Metropolitan Museum di Nuova York, al termine delle sue avventure.
Insomma, ecco spiegato perché, un italiano, fu il primo direttore del Met di New York.


E così, ora, possiamo tornare all'inizio della storia di oggi.


Perché è proprio a questo punto che le vite di Luigi Palma di Cesnola e della moglie Mary Isabel Reid Jennings si incrociano con quella di suor Maria Francesca Saverio Cabrini.

Ricordate? La nostra "amica" suora, l'avevamo lasciata quando a New York aveva appena conosciuto la famiglia Palma di Cesnola.
E cioè quando capì in un baleno che anche se il portafoglio in quella casa ce l'aveva il "sior conte", era anche vero che per realizzare il suo progetto più ambizioso era necessario puntare, come quasi sempre in questi casi, il coinvolgimento della di lui moglie.

E il suo, più che un progetto ambizioso, era un sogno. Fondare, aprire, il primo ospedale italiano a Nuova York.

Ne aveva individuato i locali: fra il 226 e il 228 east della 20a strada, una palazzina che avrebbe potuto ospitare 125 posti letto.
Il nome era deciso: il primo ospedale italiano di Nuova York si sarebbe chiamato "Columbus Hospital".
Il primo assegno che il Direttore del Met Palma di Cesnola mise fra le mani di Madre Cabrini fu di 7000 dollari (più o meno 175mila dollari d'oggi, poco più di 142mila €uro).

Poi ne firmò un altro ancora più consistente: 20.000 dollari.
E qui si tratta di 500.000 dollari di oggi, 407 mila €uro e spiccioli...

La nostra amica suora riuscì subito a recuperare un camioncino e ad adattarlo in ambulanza, e intanto aveva acquistato letti, materassi, lenzuola.
Anche in questo caso la solidarietà degli italiani di New York  si dimostrò fondamentale: l'acqua e il cibo, per esempio, veniva fornito da un ristorante vicino.
Poi arrivarono altri 15.000 dollari, poi altri 30.000: questa volta frutto di donazioni di altri benefattori laici, di ordini religiosi e delle elemosine che le consorelle di madre Cabrini raccoglievano quotidianamente.

Ma fin dagli inizi, la vita dell'ospedale italiano di Nuova York fu agitata.
Nel 1891, l'ospedale era sulla 109a strada; 
l'anno dopo sulla 12a strada; 
nel 1913 sulla 34a strada, nell'ex Policlinico di New York.
Traslochi continui per continui sfratti per morosità.

Nel 1937 l'ospedale si fuse con il Parkway Hospital, e dopo la morte della fondatrice cambiò nome, diventando Cabrini Medical Center.
Che si spostò ancora, questa volta sulla 19a strada.

Per decenni il Cabrini Hospital fu un punto di riferimento, di soccorso e di consolazione per migliaia di italiani di New York: il personale sanitario ed infermieristico o era italiano o comunque parlava la nostra lingua, ed era di altissimo livello.

Poi le difficoltà finanziarie si moltiplicarono, e i debiti divennero giganteschi. 


Siamo all'altro ieri: nei primi giorni del marzo del 2008 la situazione era insostenibile. 
All'inizio di quel mese vennero chiusi la maggior parte dei servizi ambulatoriali dell'ospedale e la sua unità di terapia intensiva. 
La situazione, come quella di un paziente "all'ultimo stadio" precipitò nel giro di due settimane.

E il 16 marzo 2008 l'ospedale italiano di Nuova York, il Cabrini Medical Center di Manhattan, chiuse per sempre i battenti.


Nel luglio 2009 i drammatici conti ufficiali parlavano da soli: il patrimonio netto dell'ospedale era di 46 milioni di dollari, le passività di 167 milioni di dollari.

Il creditore più importante era la "Sun Life Assurance Company of Canada": 35,1 milioni dollari; 
poi c'erano le Suore Missionarie del Sacro Cuore di Chicago, che reclamavano crediti per 33 milioni di dollari;
poi le suore della congregazione di New York: 18,7 milioni di dollari;
poi c'era il prestito di 4 milioni di dollari da restituire alla finanziaria dei Centri San Vincenzo dei Medici Cattolici;
poi c'erano da saldare svariati mesi di stipendi per i medici e il personale infermieristico e tecnico; 
poi c'erano le tasse governative da pagare.  

Ad abbattere il moribondo ci pensò la scure del Governatore repubblicano George Pataki, che come ho già raccontato, alla fine del suo mandato decretò la chiusura nello Stato di New York di nove ospedali i cui conti "non erano più sostenibili dalla collettività".



Nel gennaio 2010, i cinque edifici che ospitavano l'ospedale fondato da suor Maria Francesca Cabrini con il denaro del primo direttore del Metropolitan Museum di New York Luigi Palma di Cesnola e della moglie Mary Isabel Reid Jennings vennero acquistati dal "Memorial Sloan-Kettering Cancer Center" per 83,1 milioni dollari.
L'intenzione era quella di aprire una nuova struttura per curare ambulatoriamente i tumori, ma nel luglio dell'anno scorso gli edifici furono venduti ad una immobiliare.

Che li sta trasformando in appartamenti di lusso.

A fine ristrutturazione, saranno più di 250 distribuiti fra diverse palazzine: 140 nell'edificio principale, quello di 16 piani al 209 della 19a strada.

Che suor Maria Francesca Saverio Cabrini sia santa, comprensiva e misericordiosa.



© dario celli. Tutti i diritti sono riservati