PERSONE CHE HANNO LETTO O CURIOSATO

lunedì 30 aprile 2012

Su un disperato pianto di entrambi...

Le prime le vidi, un bel po' di anni fa, in una via di Brooklyn. 
Erano lì, appese, dondolate dal vento.




















Ne avevo sentito parlare, del fenomeno delle "Shoefiti" (detto anche "Shoe flinging", "scarpe volanti"), nato negli Stati Uniti e poi diffusosi in molte altre parti del mondo.
I sociologi si sono scervellati per capirne l'origine e interpretarne il messaggio occulto. Nato casualmente da un gioco e trasformato in un segnale che le bande di strada si danno per marcare i loro confini? Cerimonia di commemorazione per un componente morto? Oppure più semplicemente il ricordo della fine della scuola, o la perdita della verginità, o la fine del celibato/nubilato?
Chissà chi avrà mai ragione...
Forse, semplicemente, come spesso succede, non è il caso di interpretare nulla.

Se viaggiando per le strade americane presterete attenzione, potreste notare un fenomeno "figlio" delle "Shoefiti": quello degli "Shoe trees", gli "alberi scarpa".




























Una delle leggende in merito dice che il primo paio di scarpe si impigliò fra gli alti rami di un albero mentre il loro giovane padrone cercava di toccare il cielo con un dito. Ma ovviamente circolano anche altre versioni meno “fantastiche” anche se impossibile da verificare. 
Si tratta di alberi vicini a strade, in zone desertiche o isolate, dai cui rami normalmente secchi, pendono decine o centinaia di scarpe più o meno vecchie. Ce ne sono un po’ in tutti gli Stati Uniti: dalla California all’Arkansas, dal Nebraska all’Oregon, dal Maine allo Stato di New York.
Sta di fatto che oggi sempre più frequentemente i ragazzi della provincia americana scelgono un albero non molto lontano dalla loro cittadina, per lanciare e lasciare lì le loro Adidas ormai fuori uso, con il loro padre che a sua volta si sbarazza nello stesso modo delle sue vecchie Rebook, così come fa la nonna con le sue Keds
Poi ci sono i giovanissimi innamorati che, proprio come a Ponte Milvio a Roma, legano fra loro la scarpa destra di lui e quella sinistra di lei per lanciarle entrambe sui rami dell’albero, lasciando che lì facciano la loro vita e si consumino col tempo. (Tanto poi entrambi hanno sempre l’altra scarpa, quando dovesse sopraggiungere un nuovo amore…).



Per essere ritenuto un degno Shoe Tree (ed essere segnalato, tra l’altro, in appositi registri tenuti dagli appassionati) sui rami dell’albero devono pendere almeno cinquanta paia di scarpe.

Alberi che sono meta di innocenti pellegrinaggi e teatro di vere e propri contenziosi fra le vecchie e le giovani generazioni: con le prime che non gradiscono molto lo spettacolo di centinaia di vecchie scarpe penzolanti magari da una grande pianta alle porte di una cittadina e che provvedono alla "pulizia" dell'albero, magari addirittura bruciandolo.
E con i giovani (grandi consumatori  di calzature) che invece lo riforniscono nuovamente subito dopo o ne trovano un altro...



Certo, qualcuno può obiettare che lo spettacolo non è fra i più "decorosi" e che forse è anche un po' tetro: ma in fondo, se ci pensiamo bene, quei ragazzi non fanno nulla di male, se non “riportare in vita” vecchi alberi secchi uccisi dal clima torrido o dal tempo.
E’ la California, forse, lo Stato americano con la maggior presenza di Shoe Trees, ma, documentandomi, ho annotato che altri “alberi scarpa” si possono incrociare a Salem, in Michigan; a Beaver, in Arkansas, o in Nebraska, fra Northport e Ogallala (sulla Hwy 26), dove qui però vengono lasciati dondolare anche vecchi - e bellissimi - stivali da cowboy. E qui, a qualcuno di noi, potrebbe venire in mente un pensierino...  
Ma, come già scritto, ii troveremo poi anche in Oregon, in Idaho, in Indiana, in Maine, in Michigan. L'ultimo "shoe tree" che ho annotato si trova lungo la Highway 50 non lontano da Middlegate, in Nevada.






E’ lui ad essere considerato da molti come “il numero uno”, il primo degli shoe trees americani. 
Si narra, dunque, che tutto nacque all’inizio degli anni ’90 da una furibonda discussione (facile pensare per futili motivi...) scoppiata fra due giovani in viaggio di nozze. Lite che raggiunse limiti tali da spingere la sposa novella a scendere dall’auto e proseguire a piedi: con l’impossibile intenzione di raggiungere in quel modo la mamma chissà dove. 

Racconta la storia che a quel punto il fresco maritino, più deciso che mai, abbia fermato l’auto, abbia raggiunto la giovane moglie, le abbia tolto le scarpe che poi lanciò su uno dei rami più alti del grande cottonwood che era lì vicino: “Ne ho già abbastanza dei tuoi capricci! - pare le disse assai alterato - Se vuoi proprio tornare da tua madre dovrai farlo a piedi nudi, oppure prova a prendere le tue scarpe, se proprio ci riesci...!!”.

Lite che finì in un disperato pianto. 
Di entrambi, pare. 
Che vissero felici e contenti, e che poi tornarono lì per lanciare sui rami più alti di quello stesso albero, anno dopo anno,  anche le scarpine di ognuno dei loro quattro figli...

© dario celli. Tutti i diritti sono riservati

mercoledì 25 aprile 2012

Il punto di ripartenza

Quando non ero mai stato negli Stati Uniti un po' superficialmente immaginavo che quasi tutte le città americane fossero grandi come New York o Los Angeles. 
Rimasi dunque assai sorpreso quando scoprii che negli Usa, in media, la maggior parte delle città contano qualcosa come 50 mila abitanti. 
Meno di Ostia, quartiere di Roma o come Collegno, in provincia di Torino, o Misterbianco, in provincia di Catania, o Chioggia, o Scandicci, o Ascoli Piceno.

In America, le città con più di un milione di abitanti sono infatti solo nove.
New York, ovviamente: con i suoi 8 milioni e 175 mila abitanti.
E poi Los Angeles, con quasi 3 milioni e 800 mila; Chicago, con 2milioni e 695 mila; Huston, con poco più di 2 milioni; Philadelphia, con un milione e mezzo di abitanti e Phoenix, con un milione e 445mila abitanti.
Infine ci sono San Antonio, San Diego e Dallas, che contano fra 1 milione e 300 mila e 1 milione e 197mila residenti.
Solo viaggiando in auto - passando da decine, centinaia di minuscoli centri abitati, alcuni davvero formati da un pugno di case - mi sono davvero reso conto che l'America non era affatto un'unica "New York", con i suoi grattacieli, le sue 24 linee di metro, il suo traffico frenetico.

Una realtà, quella americana, totalmente differente da quella italiana.
Come ho già ricordato, se in Italia la densità abitativa è in media di 189 persone per chilometro quadrato, negli Stati Uniti (nello stesso spazio) vivono in media 23 persone.
In Arizona, otto.
In Wyoming in due.
Ed è proprio nel sud del Wyoming, sulla Interstate 80 al confine con il Colorado, fra due città dai nomi assai evocativi - Cheyenne e Laramie - che c'è la città con meno abitanti degli Stati Uniti d'America. 


E' lungo l'Interstate 80, che viaggia da est a ovest, tagliando colline e praterie ad una altitudine che si mantiene intorno ai 2000 metri.
Miglio dopo miglio, ad un certo punto un cartello annuncia l'uscita 335 (il 335° miglio dell'Interstate in Wyoming, e cioè 539° chilometro), laddove - si legge - c'è la "Nation's Smallest Town", "la città più piccola degli Stati Uniti d'America".
Siamo a Buford.
Il cartello che si trova all'inizio di ogni centro abitato americano - con il numero degli abitanti e l'altezza sul livello del mare - parla chiaro: abitanti, due. 
Altezza, 2400 metri slm.
Fondata nel 1866, Buford fu l'avamposto dove trovavano ricovero gli operai impegnati nella costruzione della "Transcontinental Railroad", la ferrovia che doveva unire la costa atlantica con quella pacifica.
Fa tenerezza quel cartello che indica "abitanti: due", se si pensa che nella sua storia, Buford, arrivò ad averne anche duemila, di cittadini. Che diminuirono man mano che i lavori della ferrovia si spingevano ancora più a west. 

I nomi dei due abitanti di Buford sono Don e Terry Sammons. Arrivarono qui nel 1982, partendo dalla decisamente più mondana Newport Beach, California. Rimasero lì "per prova" per alcuni anni, gestendo il "drugstore-ufficio postale-distributore di benzina" aperto 24 ore su 24. Dieci anni dopo, dopo la nascita di loro figlio,  riuscirono a comprarsi l'intera Buford, pagandola 155 mila dollari. 
Il coronamento del loro sogno.
Con 117 mila euro erano diventati padroni di un distributore di benzina, un drugstore, un ufficio postale con lo "zip code 82052" (il nostro Cap), un traliccio affittato alla Union Wireless cellular, 40 mila metri quadri di terreno circostante, una bella e grande casa per loro e altre due piccole costruzioni che affittavano a viaggiatori sfiniti dal viaggio.
Quando dallo Stato del Wyoming ricevettero il riconoscimento di "città", fecero anche regolari elezioni per la carica di sindaco. Il verbale fu molto stringato:"Votanti, tre; voti validi, tre; scheda bianca una. Don Sammons, voti due. Dichiariamo eletto sindaco di Buford il cittadino Don Sammons"
Per gli automobilisti che percorrono la "I 80", una sosta a Buford è quasi d'obbligo: nelle calda estate e nel gelido e nevoso inverno del Wyoming  è l'unico bar, ristoro, drugstore e soprattutto l'unico distributore di benzina con annessa officina nel raggio di quasi 400 miglia, 650 chilometri.  
                           
E infatti d'estate le persone che ogni giorno si fermano da Don e Terry arrivano ad essere anche un migliaio:"Il punto più elevato della 'I 80' fra New York e San Francisco", si legge su una punta d'orgoglio su un cartello posto sopra a quello con il nome del paese e con il numero dei suoi abitanti. 

Che un giorno Don fu costretto a correggere.
Resistette per un bel po' di anni, Don, dopo la morte dell'amata Terry: il figlio, infatti, risiedeva in città, per seguire gli studi.
E continuò a rimanere lì solitario anche dopo il matrimonio del suo ragazzo, visto che la novella sposa - quando il giovane marito aveva provato a ventilarle a mezza voce l'idea di andare ad abitare insieme a Buford  - aveva detto la sua con un sol sguardo. Avete presente quell'inconfondibile sguardo di donna che significa "NON-CI-PEN-SARE-NEM-MENO-A-PRO-POR-MELO..."
Ecco, proprio quello.

Don, dunque, fece di necessità virtù, pubblicizzando proprio il fatto che Buford era "famosa in tutto il mondo" (suvvia, Don, mi sa che hai esagerato...) per il fatto di avere "un solo abitante". ("Visto in televisione!").
Ma le nuvole della solitudine si addensarono presto anche sulla sua testa. Don, alla fine, cedette e affidò la vendita della sua Buford ad una casa d'aste dell'Oklahoma. 
Venti giorni fa, la gara: prezzo base, 100 mila dollari.
Sono arrivate offerte da 84 Paesi del mondo per quelle quattro case e per quel distributore di benzina in mezzo al meraviglioso nulla del Wyoming. 

Il 5 aprile, per comprarsi Buford - Wyoming, altezza sul livello del mare 2400 metri, abitanti 1 - ci impiegarono solo cinque minuti. 
Rilancio dopo rilancio, la città - con il suo titolo di sindaco - fu aggiudicata per 900 mila dollari (poco più di 681mila €uro) a "due uomini d'affari vietnamiti di Ho Chi Minh Ville", diceva laconicamente il comunicato diffuso dalla casa d'aste.

Sorrise, Don Sammons, quando seppe chi sarebbero stati i nuovi padroni di Buford. 
Perché lui conosceva benissimo Ho Chi Minh Ville, seconda città della Repubblica Popolare socialista del Vietnam. Solo che ai suoi tempi si chiamava ancora Saigon, ed era la capitale del Vietnam del Sud, appoggiato dagli Stati Uniti del Presidente Nixon, che dopo quasi un decennio uscì sconfitto dalla guerra contro l'esercito del Vietnam del Nord che era al fianco dei guerriglieri comunisti del Vietnam del Sud. 
Aveva 18 anni, allora, Don, e lui era stato mandato proprio a Saigon per prenderli a mitragliate, i vietcong comunisti.

Ma è passata una vita, e nel frattempo Don è pure diventato buddista, come buddisti sono anche i nuovi proprietari della sua Buford"Com'è strana la vita... Confesso che il ricordo del Vietnam e dei vietnamiti mi ha sempre lasciato l'amaro in bocca - ha detto Don Sammons a chi lo ha intervistato -. Ora, invece, dopo aver saputo chi farà rivivere la mia Buford, è come se in bocca mi si sciogliesse dello zucchero".

Poi alzò lo sguardo verso il calendario e sbarrò gli occhi quando si rese conto che la vendita era avvenuta esattamente nel giorno del suo 30° anno di residenza, lì.
Mandò un pensiero alla sua Terry, Don, e congedando il giornalista mormorò fra sé e sé:"Adesso sono davvero al punto di ripartenza".

Un po' come chiunque si trasferisce in America...












© dario celli. Tutti i diritti sono riservati






lunedì 23 aprile 2012

Ma chi ha detto che non c'è? In fondo, basta seguire le indicazioni (del cuore...).

Era il 1844.
In Italia, mentre i repubblicani di Mazzini cercavano di far scoppiare la rivoluzione;
mentre Cesare Balbo polemizzava velatamente con Vincenzo Gioberti, a suo parere troppo moderato;
mentre i fratelli Emilio e Attilio Bandiera, ufficiali della marina Austro-Ungarica, disertando a Corfù portarono a Crotone un paio di navi per dar man forte a chi lì stava facendo "la rivoluzione" (erano stati male informati, non c'era nessuna rivoluzione in corso e per di più vennero traditi da uno dei loro e fucilati...);
mentre in Italia cambiava tutto per non cambiare niente, negli Stati Uniti sbarcò un gruppo di seguaci del filosofo anarchico-libertario francese Charles Fourier, che spinti dal desiderio di creare "una società utopica, libera e giusta", viaggiando verso il West, attraversarono l'Ohio River (che segnava e segna ancor ora il confine fra il Kentucky e l'Ohio), e si fermarono in una zona pianeggiante perfetta per ospitare, pensarono, quella che sarebbe diventata la loro città.
Che si sarebbe chiamata, appunto, "Utopia".

Per la verità, il loro esperimento di società perfetta, di città senza regole, senza denaro e senza lavoro dipendente e salariato, non durò molto.  Dopo tre anni gettarono la spugna e molti, da Utopia, se ne andarono; complice anche una disastrosa alluvione proprio dell'Ohio River che si portò via un bel po' dei suoi abitanti.
Il testimone venne però poi raccolto da tal Josiah Warren che "ammorbidì" un po' i princìpi ispiratori, ritenendo che la libertà collettiva potesse essere compatibile con quella individuale. Propose, dunque, di stabilire che a Utopia chiunque poteva possedere appezzamenti di terra e commerciare con il mondo esterno, pur lavorando in cooperativa.

Crebbe, Utopia: dopo una decina di anni contava ben una quarantina di edifici.

Il nostro Warren la lasciò per andare a predicare il verbo dell'anarchismo socialista e libertario in giro per gli Stati Uniti. Vi tornò nel 1856 e nel suo diario scrisse: "La mia visita a Utopia, piccolo germe di società egualitaria e libertaria, mi ha fornito maggiori speranze di quante mai avrei osato immaginare...".

Non sono in grado di dire quanti, degli attuali abitanti della cittadina dell'Ohio, siano discendenti dei discepoli anarco-socialisti del filosofo francese Fourier, ma so che Utopia, ancor oggi r/esiste.


Per la verità, più che un paesino, oggi Utopia è solo una manciata di villette vicine ad un drugstore. Quasi una "ghost town", una città fantasma, non molto lontana da una cittadina anche questa dal nome assai evocativo: Felicity.
Forse, fra quelle quattro case di Utopia, si aggirano ancora i fantasmi di Charles Fourier e Josiah Warren. 
E chissà cosa pensano del fatto che la loro Utopia oggi è nientemeno che inserita nell'elenco dei "luoghi storici" dell'Ohio, come ricorda questa insegna posta di fronte al "Village Market", il drugstore, con fuori cinque cassoni frigoriferi per il ghiaccio a cubetti e due pompe di benzina.

Io, come cartello indicativo, preferisco questo sotto, che si trova all'ingresso di quello che 150 anni fa era un paese di quaranta case e tante idee.
Un cartello un po' storto, malmesso, precario, è vero.

Ma come al giorno d'oggi lo sono un po' tutte le utopie libertarie...

© dario celli. Tutti i diritti sono riservati

sabato 21 aprile 2012

La prima volta (Consigli, più o meno burocratici, per il primo viaggio americano)

     PRIMA DI PARTIRE
      (Respirare "America" già da casa...)

Vi prego, non fatelo fare all'agenzia.
Tanto è una cosa semplicissima e sarà il vostro primo, autentico, approccio con la vita, la realtà americana. 

Non potete regalare quel vostro momento ad una seppur gentile sconosciuta impiegata di una agenzia di viaggi, che si offrirà di sollevarvi da una banale incombenza burocratica. 
E' banale, sì, ma quando vi metterete davanti al computer a compilare il semplicissimo modulo dell'autorizzazione "Esta" è, in fondo, come se voi foste già in aereo.
Anzi, in America. 
Il vostro primo approccio con la realtà - ma soprattutto con la mentalità - americana lo avrete dunque davanti al computer, quando vi troverete a dover rispondere alle domande del questionario che dal gennaio 2009 chi intende recarsi negli Usa come turista è tenuto a compilare prima di partire.
"Esta" è l'acronimo (in America tutto ha una sigla) di "Electronic System for Travel Authorization", "Sistema elettronico per l'autorizzazione di viaggio".

 
In sostanza, l'Esta è la versione telematica dell'ex modulo I-94W, quel cartoncino verde - eccolo qui a fianco - che fino al 2009 veniva consegnato in aereo - unitamente a quello bianco della dogana che invece si compila ancora - quando si stava per arrivare negli Usa.

Anche se vi ho appena assicurato che si tratta di un questionario facile-facile, quando nella tranquillità di casa vostra compilerete l'Esta, vi accorgerete che è possibile trovarsi di fronte a domande che nascondono insidie inaspettate o che esigono risposte a richieste che a noi italiani appaiono francamente un po' assurde. 

Intanto c'è da dire che l'Esta (che avrà poi una validità di due anni) si deve compilare DOPO aver acquistato il biglietto e quando saprete dove dormirete almeno la prima notte americana (anche se, per la verità, c'è la possibilità - dopo aver compilato l'Esta - di aggiungere elementi per aggiornare la domanda, inserendo, appunto nome e indirizzo dell'albergo e numero di volo). 
Il sito ufficiale del Dipartimento americano della Sicurezza e della Protezione delle Frontiere, è QUESTO. Lì troverete il modulo con le sue domande in italiano.

Attenzione, perché in rete, se cercate l'Esta attraverso motori di ricerca, troverete per primo l'indirizzo di un sito italiano che non ha nulla a che fare con quello ufficiale, e che vi chiede 37,75€ oltre alla tassa d'ingresso governativa americana
Sì, perché già ci sarà il Governo americano a volere 14 dollari - ad oggi 11 €uro e 45 cent - per entrare negli Usa (e questo significa che quando compilate l'Esta dovete avere sottomano la carta di credito).
Così come ci sono agenzie di viaggio che si offrono di compilarvi l'Esta in cambio di una tariffa. Ma, onestamente, vista la semplicità dell'operazione non mi sembra il caso di regalare soldi per una cosa che potete fare tranquillamente, con serenità, un po' di eccitazione e un pizzico di divertimento.
E senza sia sostanzialmente possibile commettere alcun errore.

Una volta collegati al sito governativo dell'Esta, vi troverete a dover scrivere negli appositi spazi giorno, mese e anno della data di nascita e poi Paese di cittadinanza, città di residenza e indirizzo della casella di posta elettronica (facoltativo).
E fin qui, tutto facile...
Nessun problema nemmeno per compilare i dati relativi al passaporto (che deve essere con la marca da bollo dell'anno in corso e di tipo "nuovo", quello con la foto scannerizzata sul primo foglio interno e con un piccolo simbolo sulla copertina sotto la parola "passaporto"); 


così come non avrete alcuna difficoltà a scrivere la linea aerea con la quale viaggerete, il numero del volo che prenderete e la città dalla quale partirete (dunque l'Esta o lo compilate DOPO aver acquistato il biglietto, o lo fate compilando successivamente la parte relativa al biglietto aereo).
A proposito: se prendete un volo con scalo, fate attenzione che ci siano almeno tre ore di tempo prima di ripartire alla volta degli Usa, perché i lunghi controlli che gli Stati Uniti chiedono ai Paesi esteri non li farete in Italia, ma nella città europea dove farete scalo. Ancora ricordo la "deliziosa" notte fuori programma passata ad Amsterdam - che ha significato un giorno in meno negli Usa - perché, complice un ritardo di mezzora dall'Italia, il tempo rimasto non era sufficiente a svolgere i minuziosi controlli previsti prima dell'imbarco per l'America. 

Comunque...
Proprio quando sarete fieri delle vostre capacità e della vostra efficienza, eccola, la prima piccola insidia. 
La domanda è perentoria: “Inserire il numero civico e l’indirizzo stradale del luogo presso cui si alloggerà negli Stati Uniti”. Nessun problema, è ovvio, se la vostra destinazione è la casa di un amico o parente; ma se andate negli Usa per vacanza e avete intenzione di esplorarli fermandovi qua e là, più o meno a caso, beh… il problema vi apparirà giustamente insuperabile.
Aiuta, in questo senso, un suggerimento: “Se sono state pianificate multiple località di sosta, inserire il primo indirizzo”. Se per caso conoscete solo il nome ma non l’indirizzo del vostro albergo, vi tende la mano un secondo suggerimento: “Se l’indirizzo completo è sconosciuto, inserire il nome dell’albergo o la località che si intende visitare”. 
Dunque, deduco che basta indicare "la località": almeno quella la sapete, diamine! A quel punto vi arriverà il tanto atteso “via libera” (“Autorizzazione approvata”) senza il quale, peraltro, non potrete nemmeno partire. So cosa starà pensando qualcuno di voi: che si deve prenotare - anzi, pagare - volo e albergo senza essere matematicamente certi di poter poi fare il viaggio.
Ma non preoccupatevi: a meno che non siate nelle liste internazionali degli indesiderabili per terrorismo compilate dalla Cia o non abbiate sottratto un bambino ad un eventuale vostro ex coniuge americano, non dovete avere alcun timore. L'autorizzazione arriverà nella vostra casella di posta elettronica qualche secondo dopo aver dato l'"invio".

Ma torniamo alle domande alle quali dovrete rispondere. Alcune, incalzanti, lasciano noi italiani alquanto perplessi: 
a) Ha mai sofferto di malattie contagiose? Di disturbi fisici o mentali? Ha mai fatto abuso di droghe o è mai stato tossicodipendente?
Per aiutarci, il computer ci dirà che “ai sensi delle leggi degli Stati Uniti, le malattie contagiose che riguardano la salute pubblica sono:
- Ulcera molle
- Gonorrea
- Granuloma inguinale
- Hiv
- Lebbra infettiva
- Sifilide fase infettiva
- Tubercolosi attiva”.

Qualche moderato nascosto scongiuro, a questo punto, non mi pare fuori luogo. 
 
Se poi vi starete chiedendo cosa invece intendono le autorità americane per “disturbi fisici o mentali”, ecco la risposta:
- Si soffre attualmente di un disturbo fisico o mentale, e il comportamento associato al disturbo potrebbe rappresentare, o ha rappresentato, una minaccia alla proprietà, alla sicurezza o al benessere di se stessi o di altri;
o se
- Si è sofferto di un disturbo fisico o mentale e se il comportamento precedentemente associato al disturbo che ha rappresentato una minaccia alla proprietà, alla sicurezza o al benessere di se stessi o di altri, potrebbe ripetersi o condurre ad altri comportamenti dannosi.
Dovremo rispondere “No”, ci suggerisce la guida, se
a) Attualmente non si soffre di alcun disturbo fisico o mentale o
b)  Se si è sofferto in passato di un disturbo fisico o mentale, ma senza un comportamento associato al disturbo che potrebbe rappresentare o ha rappresentato, una minaccia alla proprietà, alla sicurezza o al benessere di se stessi o di altri; o
c)  Si soffre attualmente di un disturbo fisico o mentale, con comportamento associato, ma tale comportamento non ha mai comportato, non comporta ora, né comporterà in futuro, una minaccia alla proprietà, alla sicurezza ecc…
d)  Si è sofferto in passato di un disturbo fisico o mentale con un comportamento associato al disturbo che ha precedentemente rappresentato una minaccia alla proprietà, alla sicurezza o al benessere di se stessi o di altri; ma comunque è molto improbabile che tale comportamento si ripeta.
(Ma come sarebbe a dire “molto improbabile”??)


Il questionario dell'Esta specifica poi che ai sensi delle leggi degli Stati Uniti,“gli individui che abusano di droghe o che sono tossicodipendenti potrebbero non essere ammessi”: "potrebbero", c'è scritto; con il condizionale... 
Per avere chiarimenti in merito si viene invitati a prendere visione (e dove?) dell'art. 212, comma a), paragrafo 1, sottocomma a) della Legge sull’Immigrazione e la Nazionalità, oltre che delle normative corrispondenti presenti nel Codice dei Regolamenti Federali.
Sì, vabbè... 
Ma le nostre perplessità non saranno terminate, anzi, aumenteranno alla lettura delle domande successive:

B) E’ stato mai arrestato o condannato per aver commesso un’infrazione o un reato di depravazione morale? E’ mai stato arrestato o condannato per due o più reati diversi, per i quali la durata dell’arresto totale è equivalsa a cinque o più anni? Oppure è stato mai coinvolto nel traffico di stupefacenti? 
Oppure sta cercando di entrare negli Stati Uniti per partecipare ad attività immorali o criminali?

C) E’ stato in passato, o è ora, coinvolto in attività di spionaggio o sabotaggio, o in azioni terroristiche? 
Oppure, tra il 1933 e il 1945 è stato coinvolto, in alcun modo, nelle persecuzioni intraprese dalla Germania nazista o dai suoi alleati?

D) Sta cercando lavoro negli Stati Uniti? 
Oppure è mai stato espulso o deportato dagli Stati Uniti? 
Oppure ha ottenuto o cercato di ottenere un visto o un ingresso negli Stati Uniti tramite frode o dichiarazione falsa?

E) Ha mai trattenuto o detenuto un minore sottraendolo alla custodia di un cittadino statunitense al quale il bambino era stato affidato legalmente?

Domande assurde, queste, secondo voi? Consolatevi: fino agli anni ’70 avreste dovuto dichiarare anche se eravate soliti chiedere l’elemosina, se eravate poligamo, se vi prostituivate, se eravate soliti compiere atti sessualmente immorali (?), se eravate comunista, anarchico o analfabeta (e come avrei fatto a leggere, di grazia?), o se eravate giunto lì clandestinamente (e come? nascosto fra una poltrona e l’altra dell’aereo?). 

Insomma, nulla rispetto alla nostra autocertificazione antimafia! Eccovi dunque la prova di quanto gli americani credano profondamente nella buona fede altrui; non dubiteranno delle vostre risposte, ma diventeranno implacabili se dovessero capire (o sapere) che da parte vostra c’è stata menzogna e malafede. 

Ma in realtà queste domande che a noi appaiono assurde e senza senso, servono per affibbiare automaticamente un'aggravante (financo all'automatica attribuzione del massimo della pena) a chi poi commetterà eventualmente qualche reato e dovrà affrontare un processo negli Usa.

Una volta compilato diligentemente il modulo Esta a casa vostra,  qualche secondo dopo aver cliccato l'invio, riceverete il "codice conferma", che è meglio stampare e portare con sé, in caso di possibile (anche se improbabile) richiesta al controllo passaporti americano. 
Improbabile perché tanto quando arriverete al Customs and Immigration negli Stati Uniti, di voi sapranno già tutto.

       IN AEREO

In aereo, invece, vi daranno un modulo azzurrino - il “CBP Form 6059B” del U.S. Customs and Border Protection, dell’ufficio Dogane e Protezione delle Frontiere Usa - anche questo necessario per entrare negli Stati Uniti come turisti e anche questo con domande assai curiose. 
Modulo che si apre con un educato augurio di benvenuto (“Welcome to the United States”, c’è scritto nella versione inglese in grassetto, “Benvenuto negli Stati Uniti”. In America sono tutti sempre molto cortesi...). 

Modulo, questo, che deve esserne compilato uno per ogni gruppo familiare (ma non controllano certo se voi e il vostro partner siete sposati o se abitate effettivamente insieme, dunque va benissimo uno per coppia...) e dunque anche da chi viaggia solo. 
Dopo aver scritto nuovamente il nostro “indirizzo” americano, come potete vedere si leggeranno domande come queste: “Porto / Portiamo frutta, verdura, piante, sementi, insetti (insetti?), carni, prodotti alimentari, uccelli, animali vivi, agenti patogeni (?), colture cellulari (?!?), lumache, terra (terra?!), oppure sono stato/siamo stati in una fattoria o a contatto diretto con bestiame fuori degli Usa?”

Anche in questo caso, poca ironia: certo, però, se venite dalla ridente campagna italiana è meglio che sorvoliate con diplomazia; anche perché una nota successiva e vagamente inquietante e scritta in caratteri minuscoli ricorda che gli addetti del “CBP” “sono autorizzati a interrogare, eseguire perquisizioni personali ed esaminare i bagagli dei passeggeri” con la garanzia però di un “trattamento cortese e professionale, nel rispetto della dignità personale”.  
Il problema è che gli americani, dopo trecento anni, sono ancora ossessionati dalle termiti e dai parassiti giunti nel Nuovo Mondo dall'Europa e ospitati nel legno delle casse delle armi dei soldati inglesi. Parassiti che hanno contaminato i boschi americani e le loro campagne fin'allora vergini.

Non pensate che siano domande e precauzioni stupide e inutili: pare che qui, alle dogane degli aeroporti americani, ogni giorno vengano individuate decine di persone che tentano di entrare negli Usa con salumi di ogni tipo, piante di pomodoro, mele o altro di più inquietante, come vedrete fra poco; forse perché temono di morire di fame negli Usa o perché cercano di vincere la nostalgia portandosi appresso struggenti ricordi alimentari dei paesi natii.
Come questa carne di scimmia (esatto, avete capito bene...), sequestrata ai controlli di frontiera al Jfk di New York...



Merci alimentari illegali sequestrate in una settimana
alla dogana internazionale dell'aeroporto di Chicago
In ogni caso adesso avete veramente finito. Dopo questo curioso e un po’ incalzante interrogatorio scritto, pochi badano a ciò che è riportato nelle righe finali dei due questionari: alla fine di quello compilato on-line, per esempio, è specificato che “il tempo medio necessario per compilare questo modulo dovrebbe essere di 15 minuti per ciascun richiedente”. 
Eccovi dunque un’altra lezione sul modo di pensare d’oltreoceano: la puntigliosità, la precisione quasi maniacale che in America c’è su tutto. Se è scritto che ci vogliono quindici minuti significa che certamente saranno stati fatti centinaia (migliaia?) di test cronometro alla mano prima di affermarlo “nero su bianco” con così perentoria sicurezza. E siccome tutto negli Stati Uniti è concepito per essere “fast and easy”, “facile e veloce” - e vista l’insofferenza degli americani verso qualsivoglia lacciuolo burocratico - questa nota implicitamente ci comunica che il Governo americano, per farci assolvere questo obbligo di legge, ci ha fatto perdere in fondo solo quindici dei nostri preziosi minuti.
Infine, una nota che fa sbalordire noi italiani: “Per qualsiasi commento relativo ai tempi di compilazione previsti, inviare la corrispondenza a U.S. Customs and Border Protection (Ufficio delle Dogane e della Protezione delle Frontiere), 1300 Pennsylvania Avenue, Room 3.2.C., Washington DC 20229”. Mi piacerebbe tanto sapere quanta gente avrà inviato le proprie osservazioni. Chissà, magari qualcuno in America le avrà pure raccolte in un libro…

Euforici e smaniosi di partire, quando però da casa vi troverete a compilere on-line il modulo Esta, vi raccomando di non badare troppo ad altre noticine che potrebbero farmi aumentare a dismisura l’ansia: “I viaggiatori ammessi nell’ambito del Programma Viaggio senza Visto devono accettare di rinunciare ai propri diritti di riesaminare o presentare ricorso, come spiegato nella sezione Liberatoria dei diritti nella schermata della domanda”"Ad eccezione dei casi di richiesta di asilo", c'è scritto. 
Insomma, forse non ve ne sarete resi conto, ma sottoscrivendo questi punti avete accettato - senza riserve - la possibilità di venire “deportati”, come dice la legge americana, rinunciando totalmente ad ogni vostro eventuale diritto. Ora, è vero che gli americani non “invitano” semplicemente i clandestini a lasciare gli Usa, ma li “accompagnano” - diciamo così… - fino alle poltroncine dell’aereo; bisognerebbe però comunque spiegare loro che, se proprio è necessario, sarebbe meglio usare il verbo “espellere” piuttosto che quello assai più inquietante di “deportare”. Verbo, quest’ultimo, che a noi europei fa venire ancora i brividi… 

Rilassatevi: succede davvero raramente. L'importante è rispondere all'eventuale domanda del sorridente funzionario dell'emigrazione che siete lì SOLO per turismo ("Yes, tourist!"). Se poi non siete segnalati in nessuna banca dati dell'Fbi e della Cia potete stare tranquilli... 
Se può servire da parziale consolazione, oltre a semplici cittadini italiani, le cronache raccontano che gli inflessibili funzionari americani dell’immigrazione hanno bloccato ai controlli anche personaggi più o meno “illustri”: come il  senatore americano Ted Kennedy, celeberrimo fratello dell’ex Presidente Usa John, ed appartenente ad una delle più potenti famiglie degli States, ma omonimo di un malvivente irlandese. Anche se il suo volto non era certo sconosciuto, visto quel che usciva dal computer l’addetto al controllo immigrazione lo ha bloccato per un bel po’, aspettando ordini, indicazioni ed autorizzazioni superiori.

IN AMERICA!

Tranquillizzatevi, però: sono quasi novanta milioni le persone che passano ogni anno i controlli dell’immigrazione nelle frontiere degli Stati Uniti, e i casi di quelle che sono state bloccate sono davvero rarissimi, per fortuna. E poi basta seguire alla lettera le norme, ma anche rispettare, una volta scesi dall’aereo, le banali regole aeroportuali, descritte peraltro in modo inequivocabile grazie a numerosi avvisi multilingua e disegni, esposti con evidenza su decine di cartelli. 
      
Come quella, semplice, di non fumare, o quell’altra che indica di non fare foto o di accendere il telefono cellulare solo dopo IL SECONDO controllo, quello bagagli: dunque praticamente fuori dall’aeroporto. 
Regola, quest’ultima, che gli italiani disattendono regolarmente per l’insopprimibile bisogno di telefonare alla mamma non appena sbarcati, ma rischiando così di mettersi nei pasticci per una stupidaggine.

Il vostro aereo dunque ora è atterrato. Nell’ovattato silenzio dei corridoi degli enormi aeroporti americani, vi dirigerete verso i varchi di controllo doganali, dove vi accorgerete cosa significa essere “extracomunitari”: ecco, infatti, che i cittadini americani prenderanno un’altra direzione, volatilizzandosi all’istante. La fila dove sarete voi - riservata agli “aliens”, ai non americani - sarà invece molto, molto più lenta, per i suoi comprensibili controlli più accurati.
 Così finalmente arriverete di fronte ai due ultimi “ostacoli”: nessun modulo burocratico, questa volta. Vi troverete cioè prima davanti al funzionario del controllo immigrazione, poi a quello della dogana.


 Seguita l’indicazione “Baggage Claim”, “Ritiro Bagagli”, con il carrello carico delle vostre valige vi troverete al controllo dogana dove potrebbe essere data una sommaria controllata al bagaglio, per verificare che non portiate merci vietate dalle norme americane. 
Sono state classificate come “pericolose” e dunque vietate, a parte le già citate lumache, frutta e verdura, anche le edizioni estere non autorizzate di autori americani, pubblicazioni “sediziose, immorali o indecenti”; le caramelle e il cioccolato al liquore (!), i biglietti di lotterie (?) e i sigari fatti a Cuba; gli animali selvatici (vivi o imbalsamati), esemplari di specie animali protette e prodotti derivati da questi (uova, avorio, piume, pellame); carne fresca o secca non in scatola, cd, cassette audio o vhs pirata, gli oggetti prodotti da osso di balena, l’assenzio, la marijuana e le altre droghe. 
Se da bravi turisti avrete lasciato a casa lumache, salami vari, spinelli e “Gratta e Vinci” (e avete tenuto spento il telefonino…) potete essere sicuri che alla dogana non avrete alcuna noia. Il doganiere vi chiederà il modulo “CBP Form 6059B” (il modulo bianco) ritirandovelo.

IL CONTROLLO PASSAPORTI

Ma il vero e proprio rito “iniziatico” sarà avvenuto poco prima, al controllo passaporti, dove vi accorgerete subito cosa significa essere "extracomunitari" o, in questo caso "aliens", "no Us citizen". 
Gli americani si dirigeranno verso una fila che scorrerà veloce e senza problemi, mentre la vostra - riservata a tutti gli altri centinaia di "aliens" arrivati in quei minuti - sarà lentissima. Normalmente cortesi funzionari in divisa "dirigeranno il traffico" e  vi suggeriranno quale fila seguire.



Qui, un funzionario dell’“Ufficio Dogane e Protezione Frontiere” dall’aspetto vagamente severo e dallo sguardo burocratico e impenetrabile (ma non è vero, sono sempre gentilissimi e sorridenti, a meno che non abbiano passato una nottataccia!) vi chiederà gentilmente il passaporto, lo passerà in un lettore ottico, e vi farà una bella fotografia con una microcamera.

Poi vi chiederà di appoggiare le dita - prima i pollici, poi le altre dita insieme - delle vostre mani su uno scanner (due novità post “11 settembre”);

digiterà il vostro nome e cognome sulla tastiera di un computer, per ricontrollare che non vi sia nulla a vostro carico (nemmeno una semplice multa per divieto di sosta non pagata precedentemente negli Usa); 
e infine verificherà che il vostro biglietto aereo sia munito anche del tagliando per il ritorno.
A volte vi chiederà che occupazione svolgete: e allora - attenzione! - mai e poi mai rispondere, magari con aria malinconica “Purtroppo in questo momento in Italia non ho lavoro”, altrimenti senza che nemmeno ve ne accorgiate, vi ritroverete espulsi - anzi, “deportati” - sul primo aereo in partenza per Roma. O vorrà sapere il motivo del vostro viaggio: e, per carità!, rispondete sempre “Turismo!”.
A quel punto l’agente, terminato il suo controllo, stamperà con energia su una pagina del vostro passaporto il timbro rosso con la data del vostro ingresso e con la classificazione “W-T”, “visto turistico”. E finalmente, solo a quel punto, vi sorriderà dicendo: “Welcome to the United States!”“Benvenuto negli Stati Uniti d’America!”, indicandovi la direzione per la “porta dorata”.

LA "PORTA DORATA"

Già… Un po’ sopraffatti dalla stanchezza e dall’emozione, impegnati come sarete a cercare l’uscita che porta ai taxi o alla metropolitana, euforici e magari un po’ storditi da quell’improvvisa Babele del Duemila che subito vi travolgerà e un po’ preoccupati del fatto che in mezzo a quella confusione multietnica non riuscirete a farvi comprendere da nessuno...

... è molto probabile che non la notiate: ma se siete atterrati a New York, passerete vicino alla parete dove sono trascritte le parole incise alla base della “Statua della Libertà”. 
Versi scritti nel 1883 da Emma Lazarus, poetessa americana d'origine portoghese:

“Tenetevi i vostri antichi Paesi
con la vostra storia fastosa.
Datemi le vostre masse stanche,
povere,
oppresse,
desiderose di respirare libere,
miserabili rifiuti dei vostri lidi affollati.
Mandateli a me
i diseredati,
gli infelici,
i disperati:
Io
alzo la mia lampada
accanto alla porta dorata”.

Saranno passate una decina d’ore da quando siete usciti da casa vostra, in Italia. Ora i vostri piedi sono posati sul suolo del “Nuovo Mondo”. Siete davvero negli Stati Uniti, e la “porta dorata” è di fronte a voi.
L’America, immensa, è lì fuori che vi aspetta.


P.S.: I miei consigli su New York QUI


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