PERSONE CHE HANNO LETTO O CURIOSATO

martedì 27 gennaio 2015

L'urlo del piccolo Mario

Questa è una storia che inizia con un aereo che cade e finisce con uno squillo di telefono.
Anche se quando quell'aereo cadde, i telefoni non è che fossero molto diffusi.

Già, perché l'aereo precipitò alla fine degli anni '30 in Libia, allora possedimento italiano. 
Era pilotato da Luciano Capecchi, che morì lasciando soli la moglie poco più che trentenne Lucy Ramberg, la figlia Marlene e il piccolo Mario Renato, nato solo qualche anno prima - nel 1937 - a Verona.
Lucy Ramberg Capecchi
La giovane donna - di nazionalità americana, figlia della pittrice impressionista Lucy Dodd Ramberg e dell'archeologo tedesco Walter Ramberg - aveva studiato a Parigi, alla Sorbona, dove giovanissima aveva per un certo periodo insegnato alla facoltà di Lettere.
Ma la sua passione era la poesia.
Non sono in grado di dirvi dove avesse conosciuto Luciano Capecchi e quando precisamente venne ad abitare in Italia.
Capirete fra poche righe perché alcune notizie di questa storia sono frammentarie.

Quello che si sa è che dopo quell'incidente aereo e la morte del marito, Lucy Ramberg Capecchi si trasferì con i due figli nelle vicinanze di Renon, Bolzano dove, grazie all'eredità ricevuta, comprò una casa.
Ecco Lucy, in una delle poche foto familiari rimaste di quel tempo, davanti al suo rifugio.

Si sa: in quegli anni, essere artisti praticamente mai voleva dire essere benestanti; soprattutto se si cercava di campare scrivendo poesie. E a parte la casa lasciatagli dal marito, Lucy non possedeva nulla. 
Sola, con due figli, senza un lavoro "vero", poco più che trentenne, era in enorme difficoltà. Tanto che con il cuore rotto dal dolore, dopo mesi di meditazione, un giorno accettò di dare in adozione la bambina - di un anno più grande di Mario -  ad un ferroviere di Bolzano
Che certamente avrebbe saputo darle, ne era convinta, un futuro sicuro.
Certamente migliore di quello che poteva garantirle lei.

A Bolzano, Lucy frequentava un gruppo di giovani - scrittori, pittori, fotografi, giornalisti - che venivano chiamati, pensate un po', "i bohemiens". 
Che aveva l'aria di non essere affatto un complimento. Non erano, infatti, tempi per nulla facili per i "bohemiens" italiani, quelli... 
E' che era appena scoppiata la Seconda guerra mondiale e loro, a Bolzano, non si occupavano affatto solo d'arte: quei ragazzi, infatti, stampavano clandestinamente e diffondevano opuscoli e manifesti contro il fascismo, contro le leggi razziali, contro la guerra, contro il tedesco invasore, per la libertà di parola, per la fine della dittatura... 

Lucy, non dimentichiamolo, era americana d'origine: e 
per un cittadino americano, l'Italia fascista occupata dai tedeschi, non era per nulla un posto tranquillo.

La sua fu una corsa contro il tempo: quando un giorno del 1941 lei comprese che i tempi si stavano facendo davvero più difficili, decise di vendere tutto e mettere al sicuro suo figlio Mario.
E di entrare nella Resistenza.
I soldi ricavati dalla vendita della casa li diede a dei suoi vicini, che si impegnarono a prendersi cura del bambino. 

Lucy Ramberg Capecchi fece giusto in tempo a dare un bacio al figlio, che sentì i passi marziali dei soldati della Gestapo, condotti a casa sua, "a casa dell'americana", da un gruppo di fascisti di Bolzano.
E lei sorrise, quando le venne chiesto dove fossero i suoi figli: "Perché noi ci teniamo che la sua famiglia rimanga unita, signora", le dissero i tedeschi. 

Davvero delle personcine gentili...

Con lei che si chiuse nel mutismo più totale, benedicendo il momento in cui aveva preso quelle decisioni, terribili per una madre.

Il giorno dopo, Lucy Ramberg entrava nel campo di concentramento nazista di Dachau.
Prigioniera politica. 
Antifascista e per di più di nazionalità americana.
Ma sorrideva, sapendo che il suo piccolo Mario era al sicuro, lontano dall'orrore che aveva intorno...



Quello che Lucy non sapeva è che i suoi ex vicini - quella famiglia di contadini sudtorolesi ai quali la donna aveva affidato, a pagamento, Mario - il suo bambino lo tennero soltanto un anno. 
Quando infatti i suoi soldi finirono, si liberarono di quella che per loro era soltanto un'altra bocca da sfamare.

E fu così che, a quattro anni, Mario si trovò abbandonato, per strada, senza nessuno.

Fu mentre vagava angosciato e piangente lungo una strada di campagna fra Bolzano e Verona che il piccolo incontrò altri bambini come lui: cinque, sette, dieci anni, tutti abbandonati a se stessi, tutti senza famiglia, sporchi, affamati, sbandati. 
E iniziò a vagare con loro.
"Sciuscià", li chiamavano a Napoli: bambini di strada che vivevano di elemosine o pulendo le scarpe, frugando nelle immondizie per mangiare mele marce, o rubando frutta dagli alberi dei campi o dei negozi di alimentari. 
Era una festa quando qualche famiglia generosa lasciava loro i pochi e rari avanzi della propria tavola.

Come possiamo immaginare benissimo, non ci volle molto perché il piccolo Mario "sciuscià" Capecchi - dormendo al freddo, mangiando poco e male - si ammalasse: prima il tifo, poi la tbc, infine un gravissimo grado di malnutrizione lo portano fino ad un ospedale di Reggio Emilia.

Chissà chi fu l'ignoto samaritano che lo portò lì, dal Veneto all'Emilia, a centinaia di chilometri di distanza da "casa". Che non aveva più.
E in quell'ospedale di Reggio Emilia giunse senza avere, e senza poter dare, alcuna notizia della mamma.
Che invocava, disperato come fanno tutti i bambini senza mamma, ogni sera, prima di dormire.

Lucy Ramberg, sua mamma, intanto era sempre lì. 
A resistere, nell'inferno del campo di concentramento nazista di Dachau, l'unico esistente per tutti i 12 anni del regime di Adolf Hitler. 



Fino al pomeriggio di domenica 29 aprile 1945, quando i prigionieri videro i nazisti togliersi le divise e scappare a gambe levate, lasciando i cancelli del campo incustoditi.

Proprio poco prima che entrassero gli uomini della 42esima e della 45esima Divisione Fanteria della Settima Armata dell'Esercito degli Stati Uniti d'America.
Liberatori accolti dai bambini, e da tutti i prigionieri, con entusiamo indescrivibile.


Soldati che non appena seppero che Lucy era cittadina americana, avrebbero voluto portarla al sicuro, immediatamente, negli Usa.

Ma come poteva, lei, andarsene via senza il suo bambino?
Già era stata costretta ad abbandonarne una, di figlia; ora non voleva, non poteva ripetere quella cosa che le pesava dentro come un macigno.

Ma possiamo solo immaginare la sua disperazione quando, ritornata a Bolzano, quei vicini di casa le dissero che di Mario, ormai da anni, non ne sapevano più nulla.
Non so che scusa trovarono, o se ebbero il coraggio di dirle la verità.

Iniziò a cercarlo, allora, come una disperata. 
Prima negli orfanatrofi.
Poi negli ospedali.
E proprio vagando piena di angoscia da un ospedale all'altro del Trentino, Lucy Ramberg venne mandata a Verona.

E lì, consultando elenchi di bambini dichiarati orfani, senza famiglia o abbandonati, giunse fino ad un ospedale di Reggio Emilia.

Dove lo vide.
Dove vide il suo piccolo Mario. 

Che guardò quella donna con sguardo interrogativo...
D'altronde, lui, la mamma l'aveva vista l'ultima volta sei anni prima, quando lui, di anni, ne aveva solo quattro.

Era lui!
Era lui, per la miseria.

Lo aveva trovato...
Era lui!
Lucy si inginocchiò, perché le mancarono le forze.
Era lui!
Per essere alla sua altezza.
Era lui!
E in ginocchio aprì le braccia.
Era lui!
Per accoglierlo per sempre...
Era lui!
Per sempre.
Santo cielo, sì era lui...

Pensate, cari amici: quel giorno, proprio quel giorno, era il compleanno del piccolo Mario; quel giorno compiva nove anni.
Ci poteva essere, per lui, regalo migliore?


Cosa accadde, a quel punto, è facile immaginarlo: Lucy lo prese in braccio e piangendo lo strinse così tanto a sé che quasi lo stava stritolando.

Lo baciò, lo strinse, gli accarezzò i capelli, e poi il viso e poi lo baciò e poi lo strinse e poi lo guardò e poi pianse e poi rise, promettendogli fra le lacrime che no, non lo avrebbe abbandonato mai più. 
Mai più.

Già era stata costretta a dare in adozione la figlia più grande.
Il suo più grande cruccio.
Un segreto che avrebbe conservato per sempre.
Ma lui, ora no: non lo avrebbe lasciato mai più.
Mai.

Poi non ci pensò due volte a portare il suo bambino fuori da lì.
E ad andare via.
A partire.

A partire per l'America.

Basta.

Basta con l'Italia. 
Basta con questa Italia.

Dagli Stati Uniti, suo zio Edward, fratello di suo padre, non appena seppe che la nipote era ancora viva - e con un figlio! -  le inviò immediatamente i soldi per il viaggio.

E così, da Dachau (16 chilometri da Monaco di Baviera) la donna arrivò in treno, prima a Bolzano, poi a Verona, poi a Reggio Emilia e infine - ma questa volta tenendo stretto il piccolo Mario - a Napoli.

L'11 ottobre del 1946 diede addio all'Italia e si imbarcò sulla SS Marine Shark
Lucy Ramberg Capecchi e il figlio Mario - entrambi senza documenti - partirono venendo registrati come "apolidi".

Direzione, la nuova vita.
Nuova York.


Il 24 ottobre 1946 Lucy e Mario vedono la statua della Libertà.
Quella che porta incisa alla sua base la poesia di Emma Lazarus: 

Tenetevi i vostri antichi Paesi 
con la vostra Storia fastosa.

 
Datemi le vostre masse stanche, 
povere, 
oppresse, 
desiderose di respirare libere, 
miserabili rifiuti dei vostri lidi affollati.

 
Mandateli a me i diseredati, 
gli infelici, 
i disperati.

 
Io 
alzo la mia lampada 
accanto alla porta dorata.



Era finita.

Era finita davvero, quella vita... 

Ad attenderli, sulla banchina del porto di New York, lo zio Edward.
Che li portò immediatamente nella tranquilla Princeton, nel New Jersey, dove abitava.

Ora immaginiamo il nostro piccolo Mario: non solo non conosceva una parola di inglese, ma a stento parlava italiano.
Ma si vedeva che era un ragazzino sveglio.
D'altronde, non dimentichiamolo, era stato capace a vivere da solo in strada, per anni.

E' in quel momento che, finalmente, inizia la vita normale del piccolo Mario Capecchi.
Che va a scuola, per la prima volta a nove anni.
E negli Stati Uniti d'America.

Ricomincia da zero, senza sapere una parola d'inglese, in mezzo a bambini ben più piccoli di lui.

Le elementari e le medie le fa in una scuola "Quaker" ("Quacchera", gestita dal movimento religioso derivato dal Calvinismo);
il liceo alla George School di Bucks County, in Pennsylvania;
il college e l'università all'Antioch College dell'Ohio.

Dove nel 1961 Mario "sciuscià" Capecchi si laureò in Chimica e Fisica. 
Sei anni dopo, invece, prese il Ph.D in Biofisica ad Harvard.

...

Cari amici di Aria Fritta: questo racconto è già stato lungo, dunque vi risparmio le pagine (e pagine...) che servirebbero per trascrivere in questo miserrimo blog l'elenco di pubblicazioni, le conferenze alle quali partecipò, i libri che pubblicò, i riconoscimenti che ebbe, il nostro piccolo Mario Capecchi.

Posso solo raccontarvi 
che Mario Capecchi - insieme a Jim Watson, padre della genetica moderna - approfondì poi gli studi e gli esperimenti sulle cellule staminali.
Proprio quelli che in Italia il governo Berlusconi trent'anni dopo proibì...
E che proprio le sue ricerche con le staminali hanno fatto luce su gravi malattie come la Fibrosi Cistica, l'Immunodeficienza combinata grave, la Corea di Huntington.
Quella di Mario Capecchi è stata, ed è, una vita passata fra libri, provette, camici bianchi, mascherine, microscopi, occhiali.
E fra riconoscimenti di ogni tipo: 
il Kyoto Prize nel 1996;
la Franklin Medal nel 1997;
l'Albert Lasker Award for Basic Medical Research nel 2001;
il Massry Prize e il Wolf Prize in Medicina nel 2002.

Finché...

Finché, la notte dell'8 ottobre 2007, mentre nella sua casetta, nella campagna di Salt Lake City, Mario Capecchi dormiva accanto alla moglie Laurie, il telefono strillò come un gallo.

Cavoli, ma sono le tre di notte! 


"Oh my Goood, deve essere certamente qualcosa di grave...", disse la moglie, mentre lui prendeva il ricevitore in mano.

Lui che, intontito dal sonno, con il cuore che batteva per essere stato svegliato di soprassalto, sentì dall'altra parte una voce inglese con uno strano accento:


"Parlo con il prof. Capecchi?
Mario Renato Capecchi??
Mi scusi l'ora, ma telefono da Stoccolma, dall'Accademia Reale di Svezia.
Sono il segretario del Comitato del Premio Nobel.
Volevo comunicarle che lei, professore, ha vinto il Premio Nobel!
...
Pronto?
Pronto, professore??
Hallooooo??
...
Ma lei è il professor Mario Capecchi, vero? 
No no, ha capito bene, benissimo: sto parlando proprio del Premio Nobel per la Medicina.
Complimenti, professore!
Ah, per cortesia: si tratta di una notizia ancora riservata, che non abbiamo ancora comunicata alla stampa. Dunque, per favore, per ora non lo dica a nessuno...".

Il Nobel...
Per tutte le mele marce mangiate in Trentino Alto Adige!
Il Nobel!
Il Premio Nobel!!

Lo immaginate anche voi, no?, Mario "sciuscià" Capecchi lì, immobile, seduto sul letto... A fianco della moglie che ha solo "orecchiato" la conversazione e che a gesti - mimando parole mute, impaziente come sanno essere le donne in quei momenti - mentre lui era ancora al telefono gli chiedeva "Ma chi è?? Ma ho capito bene? Ma non è che è uno scherzo?? Ma non è che hai capito male? Ma non stare lì, tonto! Chiedi meglio, chiedi spiegazioni, accidenti!".
Cari amici, questa storia finisce con il nostro professore così, seduto con gli occhi sbarrati, sul letto, mezzo nudo, inebetito, con la cornetta in mano dalla quale ormai usciva quel suono continuo di conversazione terminata.

E che in silenzio pensa a suo papà e a quell'aereo abbattuto.
Alla mamma che lo abbandonò per salvarlo. 
A lei rapita dai nazisti e rinchiusa in campo di sterminio.
Alla sua vita di strada. 
A quando rubava per mangiare. 
Alla fame che gli mangiava lo stomaco.

Al tifo che aveva contratto.
Alla tbc che gli consumava i polmoni. 
A tutte quelle persone estranee che aveva attorno in quell'ospedale.
Ai suoi pianti disperati la sera.
All'incontro con la madre. 
Alla sua promessa:
 "Non ti lascerò più. Mai più, davvero. Te lo prometto".
Alla prima notte che ha dormito di nuovo con lei.
A quel viaggio verso l'America. 
A quando ha visto dalla nave la Statua della Libertà...
 


Non so, sinceramente, se a quel punto il prof. Mario Capecchi urlò come un pazzo.
O se pianse disperato.
O se rimase impietrito, incredulo.

Non so se urlò tanto da svegliare i due pappagalli, i quattro gatti, i due cani, i due topolini e il cavallo Fraser, che vivono con lui e la moglie, in quella casetta di legno e mattoni circondata dai prati e dai boschi attorno a Salt Lake City...

So che resistette solo mezzora prima di telefonare alla figlia Misha, ai parenti, ai colleghi, agli amici in giro per il mondo, per dir loro che lui, quel moscerino di sciuscià sudtirolese emigrato in America, aveva vinto, porca miseria!, il Nobel.
© The Nobel Foundation 2007Photo: Hans Mehlin
Il Premio Nobel per la Medicina, ricevuto poi dalle mani di Re Carlo XVI Gustavo di Svezia il 10 settembre 2007.
 © The Nobel Foundation 2007Photo: Hans Mehlin
Ed è dopo l'attribuzione del Nobel, che il quotidiano italiano in lingua tedesca di Bolzano, Dolomiten, volle giustamente conoscere meglio, per raccontarli ai suoi lettori, i primi anni di vita a Bolzano di Mario Renato Capecchi, il "loro" Premio Nobel.
E fu la pazienza, la caparbietà (e la bravura!) della collega Isabelle Hansen del Dolomiten a scoprire l'esistenza della sorella Marlene.

Scoprì, insomma, ciò che lo scienziato italo-americano non aveva mai saputo, ciò che la madre non aveva mai avuto il coraggio di dirgli.
Nemmeno in punto di morte.

E la sorella Marlene scoprì così che mentre lei faceva la casellante in una stazione ferroviaria di un paesino delle Alpi tirolesi, lei, proprio lei, aveva un fratello vivente.
Sangue del suo sangue.
Praticamente con il suo stesso dna.

Fratello che faceva lo scienziato.

In America.

E diventato addirittura "Premio Nobel".

Ma roba da matti...

Nel maggio 2008, Mario Capecchi è volato in Europa per incontrare, a Bolzano, davanti alla "loro" casa di Renon, la sorella Marlene Bonelli.
Che gli somiglia come una goccia d'acqua.

E così 68 anni dopo, il cerchio - quel cerchio che iniziò a formarsi nel lontano, lugubre, 1940 - finalmente si chiuse. 
   

© dario celli. Tutti i diritti sono riservati

sabato 17 gennaio 2015

Il colpaccio dei coniugi Diamante

Quel giorno, era lo scorso venerdì 4 novembre,  c'era un tempaccio terribile e loro erano in auto.
Avevano appena fatto il loro dovere di elettori e se ne stavano tornando a casa. In realtà volevano prima andare a mangiare qualcosa al ristorante, ma in pochi minuti si trovarono in mezzo al finimondo.

Cadeva - o meglio, erano circondati da - una pioggia che non faceva vedere nulla, trascinata da un vento che faceva sbandare l'auto, con alberi che si piegavano quasi sulla strada e rami che volavano via come se niente fosse...
Chi è stato investito da qualche nubifragio americano sa cosa significa e ha imparato presto che l'America è spesso esagerata anche nell'espressione dei semplici fenomeni meteorologici.

Lei, Carol, avrebbe voluto fare una pausa per rilassarsi un po', perché davvero non si vedeva nulla per strada in quel momento, ma lui, quel testone di Harold, niente, di fermarsi non ci pensava proprio.
E poi era un venerdì, e si sa che "di Venere e di Marte non ci si sposa e non si parte". Ma questo è un proverbio italiano, mica americano! 

Diciamo però che Harold e Carol hanno imparato a capirsi e a sopportarsi: d'altronde viaggiano entrambi sugli 80, e il loro viaggio lo fanno insieme ormai da 55 anni.
Per tutti i Cupidi degli Stati Uniti d'America! Oltre mezzo secolo di matrimonio! 
Una cosa mica tanto frequente, da queste parti...

E' ovvio che lei, Carol, dopo mezzo secolo di vita con quel testone, sa perfettamente come affrontarlo: che - ça va sans dire... - come tutti i mariti dell'universo terracqueo anche quella volta ha poi capitolato. 
Rassegnandosi dunque a fermarsi alla prima stazione di servizio: un distributore Valero di Middletown, piccolo centro lungo la Route 302, nella Orange County, Stato di New York.
Siamo a 69 miglia (poco più di cento chilometri) dalla Grande Mela, e se consultate un elenco del telefono di queste parti vi accorgerete che qui sono quasi tutti di origine italiana. 
Come il sindaco di Middletown, che si chiama Joseph DeStefano.
Ma questo non c'entra niente.  

Ah, scusate: non vi ho presentato per bene i protagonisti di questa storia, il testone e la di lui moglie. 
Eccoli. Sono i coniugi Diamante: Harold e Carol Diamond.
Uh, quanto è stato preso in giro lui per quel cognome nei suoi 80 e passa anni di vita: sarà stato anche foriero di piacevole presagio quel "Diamond", ma ormai, giunto a quell'età, aveva avuto prova che predestinazione, nel cognome, proprio non c'è.
D'altronde Alfred Van Cleef - quando nel 1896 fondò con la moglie la "Van Cleef & Arpels" - commerciava in tessuti, mica in diamanti!
Insomma: un conto è chiamarsi "Diamante", un altro è averli fra le mani, i diamanti. 

E fino ad ora non è che Harold e Carol abbiano avuto particolare fortuna. 
Lui ha finito la sua carriera scolastica facendo il preside della scuola elementare George L. Cook di Monticello, Stato di New York fino al 1995. Lei, è un'ex insegnante di matematica della High School di Goshen, una cinquantina di chilometri più in là.
Una vita normale, la loro: una normale vita medio borghese americana, che ora trascorrono da pensionati in una normale villetta della provincia americana, lì vicino, a Wurtsboro.

Divago, come sempre...

Eravamo sulla Route 302 dello Stato di New York. 
E' lo scorso novembre.
Harold e la moglie Carol sono in auto, fuori infuria la bufera, lei vuole assolutamente fermarsi e lui - con quella "finger" che insisteva come da cinquant'anni sapeva fare benissimo - ad un certo punto cede.

"E vabbè, ok!! Va bene! Va bene!!" disse il nostro Harold sbuffando mentre metteva la freccia a destra. "D'altronde io ascolto sempre quello che dice", ammette oggi, ancora innamorato.

Era un venerdì, dicevo.
E io che da bambino pensavo che il venerdì portasse sfortuna...
Arrivati al distributore (questo qua sopra) i coniugi Diamond entrano nel minimarket e, alla cassa, lui vede i biglietti del MegaMillion, una sorta di "Superenalotto" degli Stati Uniti.
Non è un giocatore accanito, Harold, ma ogni tanto al "Mega Millions" ci gioca.
Sempre gli stessi numeri. Da anni.
Così, un dollaro, tanto per provare.
Ma inutile dire che di dollari, in tasca, non gliene sono mai tornati indietro.
Nemmeno uno.

Quel giorno, invece, decide di giocare dieci dollari, e prende dieci schedine pre-compilate da un dollaro.
Comunque mette i tagliandi nel portafogli e mette il portafogli in tasca.

Fino al giorno successivo, quando gli amici, mentre giocava a golf, gli dicono che c'era stato un "sei" proprio da quelle parti.
"Allora mi sono ricordato di avere giocato - racconta Harold -. Ho subito controllato se i biglietti erano ancora nel portafoglio e dopo averli visti decisi di verificare i numeri a casa. Con mia moglie".

La scena seguente è quella che tutti noi abbiamo sognato di vivere: "Arrivato a casa ho letto i numeri assieme a Carol, verificandoli su internet.
In una erano 1, 9, 15, 24, 39.
Quando ho letto questi primi cinque numero ho pensato 'Abbiamo vinto un milione'. Ma quando ho visto che noi avevamo anche l'ultimo numero, il 41, abbiamo capito che la vincita sarebbe stata astronomica.

Ci mancò il fiato: li abbiamo letti e riletti, da destra a sinistra e poi da sinistra a destra. Poi ancora da destra a sinistra...
Non ci credevamo: erano proprio i numeri vincenti.

Ero senza parole, in preda ad un vero e proprio stato di intontimento".

Esatto: avevano fatto "sei".

Un "sei" che valeva 326 milioni di dollari.
Qualcosa come 278 milioni e 592 mila €uro.

La vincita più alta nella storia del lotto dello Stato di New York.
Michael Nafash, titolare del minimarket, era euforico: un po' perché sapeva che gli sarebbe stato assegnato un premio di "consolazione" di 10mila dollari, ma soprattutto perché sperava che il suo negozio sarebbe diventato meta di giocatori di tutto lo Stato.
Anche se si sa che è praticamente impossibile che ad una vincita ne segua un'altra milionaria nella stessa ricevitoria. 
Perché qui siamo a Middletown, piccolo centro lungo la Route 302, nella Orange County, Stato di New York; mica in via Padre Pio a Montepaone, in provincia di Catanzaro, dove nello stesso bar, in questi primi giorni di gennaio, sono stati registrati due "sei" nel giro di 48 ore... 

In Italia, poi, i vincitori si vaporizzano, entrano in clandestinità, si nascondono quasi fossero entrati in qualche organizzazione terroristica.
Per poi, magari, fuggire all'estero.

Negli Usa, invece, tutto avviene alla luce del sole.
Negli Stati Uniti calvinista, il denaro (guadagnato, ereditato o vinto) non è una vergogna. 

E infatti, in questi casi, la consegna dell'assegno avviene di fronte a fotografi e telecamere.

Per i coniugi Diamond la cerimonia è stata qualche giorno fa dopo i minuziosi controlli di rito.
Proprio lì, al distributore Valero di Mddletown. 
E allora ecco Harold e Carol arrivare di nuovo ma questa volta in limousine, e accolti da una fanfara.

Ecco lui immortalato mentre entra, mano nella mano, con Yolanda Vega, il "volto" del "Mega Millions", del Superenalotto  americano.
Eccolo qui sotto, insieme alla moglie, che viene intervistato, poco prima di ricevere da un funzionario "l'assegno" di 326 milioni di dollari.
Per la verità, loro hanno incassato una cifra inferiore.
Data la loro età, infatti, i coniugi Diamond hanno deciso di rinunciare al premio "completo" (quello di 326 milioni di dollari) visto che il regolamento prevede che questo venga consegnato in 30 rate annuali.
E per quanto l'America sia il Paese dell'opportunità loro mica hanno 30 anni di tempo davanti...

Hanno dunque optato per un unico versamento, ma di cifra inferiore: 197,45 milioni di dollari.

Un bel taglio, è vero, ma che sono comunque 168 milioni 390 mila 124 €uro (e 96 centesimi).
Esentasse.
E tutti, maledetti, e subito.
Ed eccoli, i nostri due vincitori ultraottantenni, sollevare l'assegno della vincita, poco prima che a lei i dirigenti del lotto consegnassero un gigantesco mazzo di rose rosse.

Che faranno ora?
Esattamente quello che pensavano di fare prima di aver giocato quella schedina, prima di quella terrificante (e benedetta) tempesta di pioggia e vento, obiettivo che poi hanno rimandato per ovvie ragioni: un viaggio alle Hawaii, dove erano già stati per festeggiare il loro 25° anniversario di matrimonio.
C'è da scommettere, ora, in un albergo differente.

Poi però "penseremo alla nostra piccola comunità e alle persone in difficoltà della nostra zona", hanno dichiarato. Perché uno dei fondamenti del cristianesimo calvinista è che "Se si riceve si deve dare". Perché "Dio si serve dei ricchi per aiutare i poveri".

Le foto dei giornali hanno distrattamente inquadrato il distributore con i prezzi della benzina: 3,31$ a gallone.
Che significano 3,31 dollari per 3,78 litri.
Che significano 74 centesimi di €uro al litro.

Ma questa è un'altra storia...


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