PERSONE CHE HANNO LETTO O CURIOSATO

domenica 29 settembre 2013

Per un filo di pasta 2: le scuse di Guido, ma alla Barilla si trema.


La seconda puntata della vicenda, QUI


New York, Union Sq
(foto DarioCelli)



© dario celli. Tutti i diritti sono riservati

mercoledì 18 settembre 2013

Il sogno di Luca: uno su 60.000 ce la fa

Ogni volta mi chiedo sempre come iniziare il racconto.

Questa volta voglio iniziare dalla fine. 

Giusto per un momento...



Certo, per arrivare a questo punto, dovremo fare un bel po' di passi indietro...

Innanzitutto, le presentazioni: quel bel ragazzo al centro della foto con la divisa da cuoco si chiama Luca Manfè (e non Manfrè, come - dannazione! - abbiamo detto noi al Tg2...). 
I nomi dei tre che sono al suo fianco li conoscerete benissimo e forse sono inutili da scrivere: comunque sono Joe Bastianich, Gordon Ramsay e Graham Ellioti tre inflessibili giudici di Masterchef Usa, l'edizione americana - l'edizione originale - del famoso reality per aspiranti cuochi. 

Forse di Luca Manfè avete letto o sentito qualcosa, in questi giorni: ma troppo poco, secondo me. Perché quasi nulla si è detto, o letto, della storia che lo ha portato alla foto di qui sopra.
Noi, per arrivarci, dobbiamo andare indietro di dieci anni, quando nel 2003 Luca Manfè abitava ad Aviano, in provincia di Pordenone. 

Un ragazzo come molti della sua età, Luca. 

Nel 2003 aveva 21 anni e la sua vita oscillava fra quella normale di paese, e le "stagioni" lavorative che svolgeva in alberghi e ristoranti in Valtellina, dove faceva il cameriere.

L'occasione di lasciare la vita tranquilla di Aviano (e forse un po' noiosa, suvvia: Aviano non ha nemmeno 10 mila abitanti) gli è stata fornita dall'opportunità che la Walt Disney offre ai giovani che intendono lavorare per un anno a Disneyworld, Orlando, Florida, Stati Uniti.

Requisiti: età compresa tra i 18 e i 30 anni, possesso del passaporto, disponibilità a vivere negli Usa per 12 mesi, conoscenza della lingua inglese e - per quanto riguarda cuochi e baristi - "pregressa esperienza nel ruolo".

Il nostro Luca questi requisiti ce li aveva più o meno tutti: aveva 21 anni, aveva lavorato in bar e ristoranti, masticava un po' di inglese, si era fatto immediatamente il passaporto e voleva "cambiar aria" per un po'
Forse per smettere di guardare il mondo da un oblò... 

"Porca miseria, poi è successo tutto in pochissimo tempo - mi racconta -: ho compilato l''application', il modulo on line, e dopo un po' di giorni mi è stato fissato un colloquio, e dopo un altro paio di giorni la Disney mi ha detto 'sì'. Praticamente avrei dovuto già  iniziare a preparare le valigie! Partenza: due mesi dopo!!". 


Un po' gli è preso un colpo, a Luca - ma lo capiamo, no? -; ma un po' non stava nella pelle! 
Un po' meno entusiasti erano i suoi genitori: "Sai, io sono il figlio più piccolo, ho solo una sorella più grande, ma per una mamma vedere il proprio figlio maschio che prende e va via da casa, e all'estero, e in America a 21 anni...! Puoi immaginare, no?" 

- E i tuoi amici cosa ti hanno detto, come hanno commentato la cosa? 

"Ma, sai... Ci sono quelli che stanno bene a casa da adulti esattamente come stavano da bambini, quelli che non cambiano mai: da questi, silenzio assoluto, indifferenza. Altri, invece, non hanno esitato a confessarmi che invidiavano il coraggio che avevo nell'aver deciso di mollare tutto e iniziare quella mia nuova avventura. Che era davvero un nuovo capitolo della vita.
Ma in fondo, diciamolo dai..., per me era un po' tutto un divertimento..."

- E quando sei arrivato negli Usa...? Le tue prime impressioni?

"Ah, guarda... Ovunque andassi ero sempre lì con la bocca aperta, come incantato: mi sentivo un bambino che si stupiva di tutto. Per esempio mi sbalordivano i camion che si vedono qui: 'sti truck enormi, anche a tre rimorchi, che viaggiano su autostrade che a volte sono a cinque, sei corsie. 



Venni immediatamente colpito, travolto, dall'enormità dell'America.
Noi eravamo ad Orlando, ad un'oretta dalle famose, magnifiche, calde spiagge della Florida: ma avevamo abbastanza tempo libero, quindi io e i miei colleghi italiani giravamo molto. 



Ti confesso che per me, quell'anno, più che passato a lavorare, fu un po' come una vacanza permanente...



lavoravo, sì, ma appena potevamo noleggiavamo una macchina ed "esploravamo" ciò che avevamo intorno...

... cercavamo di vivere quelle spiagge meravigliose, quelle città moderne e quella natura selvaggia...

ATTENZIONE: COCCODRILLI SELVAGGI
NON DAR LORO CIBO O AVVICINARSI

... meravigliosa, rispettata".

- Poi c'è stato il tuo ritorno in Italia...

"Diciamo che a quel punto la mia piccola Aviano mi stava un po' stretta...
Ho fatto una nuova 'stagione' in un albergo a Livigno, e dopo sono rientrato nel solito 'tran tran. Le solite cose: alle cinque del pomeriggio è già buio, durante la settimana non succede mai nulla, gli amici che lavorano rimandavano le uscite serali sempre al successivo fine settimana... 
Non ero più abituato a queste cose qui...
E allora io e altri tre ragazzi che erano con me in Florida siamo andati a lavorare in Australia".

- Ah, prima gli Usa e poi l'Australia... E i tuoi?

"Poveretti, per loro era sempre uno choc, perché ogni volta che tornavo speravano sempre che mi fermassi... 
E' pur vero che i miei in Australia ci hanno vissuto per 15 anni. Io e mia sorella tra l'altro siamo nati lì. Avevo voglia di rivedere i posti dov'ero nato, conoscere gli amici dei miei.
Quella volta sono partito con mia madre: abbiamo fatto tre settimane lì insieme, poi lei è tornata in Italia. 
Ricordo i pianti, la difficoltà del distacco...
E anche lì in Australia ho fatto qualche lavoretto, sempre il cameriere.
Sai, quando viaggi per il mondo, in fondo la ristorazione è forse il lavoro più facile da trovare. Lì sono stato otto mesi".

- Poi di nuovo ad Aviano...

"Sì, ma è come se non fosse passata nemmeno una settimana: di nuovo la stessa musica. Un bel po' di gente in alta stagione, poi il deserto... 
E quando mi si leggeva negli occhi la mia insofferenza c'era chi mi diceva: 'Ma che fai, dovresti smetterla di viaggiare, trovati un lavoro qua, trovati una morosa, ti compri una macchina, una casa...'.
Ma io avevo 24 anni, e  sinceramente non è che avessi molta voglia di mettere 'la testa a posto'...".

Gli chiedo di che segno è: "Gemelli", mi risponde. 
Tipica inquietudine dei segni d'aria, penso.
E sorrido...

Continua: "E allora mi son detto 'Che ci sto a fare qua?...'. Una mattina ho fatto un giro di chiamate fra i miei amici americani che avevo conosciuto in quell'anno. Ne avevo a Miami, a San Francisco, a New York: e tutti mi hanno consigliato di venire qui a New York. 
' E' il posto per te, Luca...Ti troverai bene...', mi dicevano".

A quel punto ecco che Luca riparte per gli Stati Uniti. Destinazione, questa volta: New York.
E al solo ricordo di quel momento, ora sorride... 

"Il primo impatto è stato fantastico. 
Davvero fantastico... 
New York è una cosa incredibile, che te lo sto a dire...  Certo: avevo una specie di 'piano'. Ho avuto la fortuna di avere degli appoggi, persone che conoscevo, amici che già erano qui: quindi avevo l'alloggio fin da subito e dopo un paio di giorni ho anche trovato un lavoretto, sempre come cameriere".

- Anche se non si potrebbe lavorare...
"Ma sai, l'America, in generale gli americani, sono assai tolleranti nei confronti di chi vuol lavorare..."

- Dimmi la verità: ma quando sei arrivato negli Stati Uniti, che opinione avevi degli immigrati e in particolare di quelli che in Italia vengono chiamati 'clandestini' e che in America vengono chiamati 'illegali'...

"La mia opinione è sempre stata la stessa. Gli immigrati sono arrivati ovviamente anche ad Aviano: croati o montenegrini, sloveni o albanesi. Se tu lasci il tuo Paese per andare a casa degli altri, lavori sodo, sei onesto e non rompi le palle a nessuno, per me puoi andare in qualsiasi parte del mondo. Ma se emigri e diventi un delinquente, non lavori e ne approfitti della situazione, ovvio che non mi sta bene..."

La conversazione prende una piega complessa, che gli italiani residenti negli Usa conoscono bene: parliamo dei limiti dell'Esta, l'autorizzazione che viene rilasciata senza formalità ai turisti e che dura però solo 90 giorni, durante i quali non si potrebbe lavorare; 
parliamo di "estensione del visto", di "come restare negli Usa il più possibile", senza violare la legge. 
Comunque, per non rischiare, a ogni scadenza, Luca torna in Italia facendo la giusta pausa.

Poi, un giorno, a New York fa un incontro davvero incredibile. Entra in un ristorante di cucina "french-fusion", "franco-asiatica", per esplorare una possibilità di lavoro: ha in mano il suo bel curriculum, chiede del manager del locale e chi si trova davanti? Un italiano, anzi, un friulano quasi compaesano, e che oltretutto aveva il suo stesso cognome, "Manfè": "Era originario di un paesino vicino a Sacile, sempre in provincia di Pordenone. E' incredibile, se ci pensi: ero in una città di 8 milioni di abitanti, entro in un ristorante asiatico e mi trovo di fronte un manager che poteva essere un mio parente! Cose che accadono solo a New York...".

E' stato lì, dopo un po' di tempo, che gli chiesero se voleva diventare manager: "Sai, avevo 25 anni, ero sempre stato ambizioso, e non mi sembrava vero di fare il manager e di farlo lì, in quel locale. Un posto 'alla moda', frequentato anche da tante celebrità...".

Un salto di qualità notevole. 
Negli Usa i ristoranti sono strutturati in modo diverso rispetto all'Italia: in America il manager gestisce, coordina ed è responsabile di tutto il personale della sala e del bar. 
Poi il manager organizza i turni del personale e cura il 'customer care', il rapporto con i clienti. 
Il manager deve conoscere nei dettagli, per esempio, gli ingredienti di tutto il menù: non sia mai che un cliente sia allergico a qualcosa. In America mica scherzano, e un ristorante fa in fretta a trovarsi in mezzo ad una causa per danni.
Una figura di alta responsabilità. 

- Questo vuol dire che tu sei passato dalle mance allo stipendio fisso...
"E ci ho perso. 
Da cameriere, con le mance, a New York si guadagna parecchio... 
Mentre un manager giovane, senza anzianità, parte da uno stipendio di 50 mila dollari l'anno: diciamo 800 dollari la settimana 'puliti', netti.
Diciamo 3200 dollari al mese".
E ci ha perso, dice: 3200 dollari sono quasi 2500 €uro al mese, al cambio di oggi.
A 25 anni.

- E in quel periodo tu la cucina la guardavi "da lontano"...
"Sì, ma sempre con un occhio molto attento, perché il manager del ristorante deve comunque avere una conoscenza perfetta del menù, del cibo, e sapere con esattezza tutti gli ingredienti che compongono un piatto. Il manager deve essere a stretto contatto con lo chef, e conoscere con precisione come ogni piatto viene cucinato". 


Prima di allora il rapporto che Luca aveva con la cucina era quello di quasi tutti i ragazzi italiani poco più che ventenni: "Al massimo avevo aiutato un po'  mia madre in cucina, ma niente di speciale. Diciamo che facevo qualcosina: che so, ero in grado di fare una pasta al pomodoro. Ma per il resto mi limitavo ad osservare. Sapevo fare un buon ragoût alla bolognese, una buona pasta... Ma finiva lì, ecco".

Ed ecco che stiamo arrivando alla fotografia dell'inizio. 

"Guardando qui in America la seconda edizione di Masterchef, osservavo con attenzione i concorrenti e ciò che cucinavano: e allora capivo, me lo sentivo davvero che potevo farcela. Ogni tanto c'era il 'serpentone' che passava e passava durante la trasmissione, con quella scritta che diceva 'Se vuoi partecipare a Masterchef...'. E così ho preso coraggio e ho mandato la domanda".

Alla prima selezione erano 60mila, e il nostro Luca riuscì ad arrivare fra i primi cento. 
Il primo italiano nell'edizione americana di Masterchef: "Non mi sembrava vero!
Ero a Los Angeles, negli studi di Masterchef! 
Confesso che sentivo che il più, ormai, 'era fatto': ero italiano e mi sentivo forte, imbattibile.
Feci un fegato alla veneziana per me straordinario, un piatto davvero buonissimo".

E invece quello di Luca fu un sogno che si spense subito: "Già, nessuno dei tre giudici era convinto del mio piatto. Anzi, ognuno aveva da fare questa o quella osservazione".

Le smorfie di Ramsey, l'occhiata perplessa di Bastianich e l'alzata di sopracciglio di Elliot le conoscono bene gli spettatori di Masterchef Usa.

"Mi mandarono a casa, senza appello".

Ma Gordon Ramsey evidentemente doveva avere intuito che in quel ragazzo italiano ci fosse qualche dote, se al momento del congedo lo incoraggiò ad insistere: "Mi invitò a continuare a cucinare, e ad applicarmi meglio, a documentarmi, a fare 'ricerca', perché 'puoi migliorare', mi disse Gordon. Che mi salutò dicendomi 'Torna e riprova l'anno prossimo'...".



Una botta terribile, per Luca.
Un sogno infranto alla prima puntata.



"Sai, quando mi hanno rispedito a casa sono rimasto abbastanza, anzi, sono rimasto molto, molto male: perché davvero non credevo che mi avrebbero eliminato. E al primo giro, poi! Avevo superato le selezioni, ero arrivato a Los Angeles, ero arrivato fra i primi cento e poi subito mi hanno sbattuto fuori!"

L'anno scorso, mese dopo mese, Luca digerì la sconfitta, cercò di capire, cercò di migliorare, si documentò, passò ora a casa a fare decine di esperimenti...

Per carità, si tratta di una trasmissione televisiva, ma credo proprio che, in fondo, la storia di  Luca Manfè a Masterchef Usa sia una perfetta metafora dell'America: 
uno parte dal niente, prova, fallisce, ma non si perde d'animo e riprova.
E...

"Hai certamente ragione, nel modo più assoluto, al 100%! 
Io sono la prova vivente che questa è davvero la 'Land of opportunity', la 'Terra delle opportunità': gli Stati Uniti ti insegnano davvero che non bisogna mai darsi per sconfitti, mai perdersi d'animo. 
Che quando cadi ti devi rialzare, devi capire perché sei caduto, devi migliorarti per continuare a cercare di realizzare i tuoi sogni". 

E' vero, Gordon Ramsey lo aveva consolato, incoraggiato, dicendogli, l'anno scorso, di riprovare quest'anno: "Ma sai, sinceramente non ero in grado di capire se lo pensava davvero, o se lo aveva detto perché magari faceva parte di un 'copione' da recitare...".

Sta di fatto che Luca, quest'anno manda nuovamente l'application, e quelli di Masterchef  gli rispondono subito, "contentissimi di averti ancora", gli dicono. 

E così tre mesi fa Luca Manfè è di nuovo in California,  negli studi di Hollywood, per partecipare ancora a Masterchef Usa.



Sorridendo si presenta come lo vedete in questa immagine qui sopra rubata dal televisore: in elegante completo nero, camicia bianca, cravatta nera. 
Che stile!

Entra sorridendo, una leggera pausa, e poi con l'espressione da italiano simpatico e forse un po' sbruffone dice, letteralmente, iniziando il suo saluto in italiano: «Buona sera, signori. I look good, eh?», "Sono vestito bene, eh?".

Non posso qui raccontare tutto quello che è successo in questa edizione di Masterchef Usa che vedremo fra poco anche noi in Italia. Non voglio togliervi la sorpresa. Ma qualche riga più sotto vi posso dare una piccola anticipazione.
Vi posso dire che ha vinto per le sue capacità culinarie ma forse, anche, per la simpatia.
Italiana.

Ma da lui devo assolutamente sapere qualche eventuale piccolo segreto di Masterchef... 
Per esempio, mi chiedo se c'è una sceneggiatura, una scaletta preordinata, se ci sono persone che vengono spinte rispetto ad altre magari perché sono più telegeniche o, peggio, perché sono raccomandate... 

- Insomma, è tutto vero ciò che si vede in tv?

"Guarda è un vero REALITY, è 100% vero. I produttori non ci dicono nulla, né cosa fare, né cosa dire: nulla viene cambiato. Al massimo, se uno dice qualcosa che non deve, una parolaccia, una imprecazione, la voce viene poi coperta da un fischio. 
Masterchef, se arrivi fino alla fine, sono tre mesi di full immersion, di 'immersione totale', si creano 'alleanze spontanee', amicizie. Ma non c'è niente di 'preordinato'. 

Noi italiani siamo soliti a pensare che ci sia sempre 'qualcosa sotto', che ci siano 'combine': e invece tutto quello che si vede è vero. In quei tre mesi, con i miei avversari sono stato chiuso in un albergo, senza telefono, senza internet, senza Facebook... 

Potevamo parlare con le nostre famiglie solo 10 minuti a settimana. 
Come in carcere, credo.

Faceva parte del contratto: ognuno di noi sapeva benissimo cosa lo attendeva quando ha firmato. 
Non potevamo nemmeno sapere i risultati sportivi: cosa aveva fatto l'Inter, la domenica, me lo diceva Bastianich, in diretta...".



Beh, cari lettori di Aria Fritta, se avete letto i giornali in questi giorni, avete capito benissimo come va a finire questa storia.
Anzi, questo sogno italiano in America...


Senza entrare nei dettagli, vi posso dire che la nuova partecipazione di Luca Manfè a Masterchef Usa - 25 puntate, due a sera, che in Italia andranno in onda dal 2 ottobre su Sky Uno e speriamo anche quest'anno, in chiaro, qualche giorno dopo su Cielo - è un'altalena di emozioni.

"Spesso sono precipitato nel punto più basso della competizione. 
Faticavo. 
Giù e su, su e giù..."

Fin quando è arrivata la svolta, che ha coinciso con la possibilità per i concorrenti di fare una gara con l'aiuto di un familiare.

E fu così che accanto a Luca si materializzò una fatina dai lunghi capelli castani.
La sua splendida moglie Cate, sposata proprio da poco...



"Hai ragione, la sua presenza è stata... non me lo so spiegare...,  ma è come se la sua presenza, da qual momento in poi, m'avesse dato una spinta, come se mi avesse fatto un pieno di energia positiva, di sicurezza, di calma, di determinatezza, di lucidità".

A Torino si dice "Ah l'amur, l'on ca fa...".
Ah, quello che fa l'amore... 

E da quel momento, con sicurezza, Luca sforna ottimi piatti.
Uno dopo l'altro.
 











Ad un certo punto si si trova pure a dover cucinare un tacchino.
Solo che glielo fanno catturare vivo e dall'espressione che aveva in questa foto mi sa che temesse di doverlo far secco lui...



"Quando siamo rimasti in cinque ho iniziato ad essere più ottimista... 
Io penso che ciò che ha fatto 'la differenza', ciò che mi ha portato ad essere davanti agli altri, è che io ero lì per passione ma soprattutto per realizzare un sogno, il mio sogno lavorativo. Per me era importantissimo vincere...".

Già, perché dopo una partenza in cui lui tatticamente  cerca di restare un po' defilato, puntata dopo puntata Luca inizia ad imporsi, puntando anche sulla simpatia di immigrato italiano, come si può sentire dal suo inglese con l'inconfondibile inflessione italiana. 

Eccolo, concentratissimo, davanti ad un esigente Gordon Ramsey...

Eccolo cucinare una ricetta della tradizione friulana: un rischio altissimo, visto che si tratta di un piatto che ha le radici nella terra della famiglia di Joe Bastianich...
Che però gli fa guadagnare il posto in finale.

Vi regalo una piccola anticipazione di quello che vedremo in Italia fra qualche settimana, và:

Cliccate sulla freccia...



Poi i piatti della serata finale, che solo a leggere l'sms che Luca mi ha inviato con i loro nomi, mi hanno fatto aumentare all'istante la salivazione: 
fegato di anatra
brasato di manzo al tamarindo e aceto balsamico
panna cotta al basilico.

E credo che la vostra bocca, ora, sia nelle stesse condizioni della mia...

Come è andata a finire questo sogno italo-americano è tutto qui, negli ultimi 4 minuti e 31 secondi della quarta edizione di Masterchef Usa.



(cliccare sulla freccia)

Ora si sta godendo il suo "momento", Luca Manfè, cercando di capire bene cosa è successo, riposarsi e capitalizzare la vittoria. 


Ora lo vogliono intervistare i giornali e le televisioni di tutti gli Stati Uniti; 
poi deve finire il libro che il vincitore deve scrivere per contratto e che uscirà il prossimo maggio ("Io che scrivo un libro??? Davvero una di quelle cose che mai avrei immaginato di fare nella vita! Solo in America può succedere!", mi dice);
contemporaneamente partecipa a vari eventi;
e, per ora, fa il "cuoco a domicilio": "Sì, cucino nelle case di privati per poi sedermi a tavola di chi mi ha invitato. E' una cosa che mi diverte molto...".

Come caspita farà a mantenere quel fisico che si ritrova, per me è un mistero... 

Nel frattempo deve anche pensare a come spendere i 250mila dollari che ha vinto.
Perché l'America induce a sognare sempre più in grande: 

"Lo confesso: voglio diventare un 'piccolo Joe Bastianich', un altro friulano ristoratore a New York. 
Anzi, il mio sogno è di aprire un ristorante qui a New York, e poi altri, uno dopo l'altro, in tante città degli Usa. 
Ma intanto bisogna iniziare dal primo. 
E il primo, sull'onda del successo dello show, mi piacerebbe fosse proprio un ristorante di cucina tipica friulana, anche perché a New York non ce ne sono".

Ma le idee (o meglio "i progetti", come direbbe un americano...) sono tante: aprire una fabbrica di pasta fresca, una catena di gelaterie... 


Vorrei parlare con lui per ore, come voi, d'altronde, immagino. 


E allora una delle prime cose che mi viene in mente da chiedergli riguarda coloro che "sognano l'America" e che vorrebbero venirci magari proprio per fare il cuoco, nell'onda del successo della cucina italiana nel mondo... 

Quei giovani (e meno giovani) che pensano che sia sufficiente cuocere bene due spaghetti e una cotoletta per poter aprire un ristorante di successo negli Usa.

Ma proprio Masterchef Usa dimostra che il livello della cucina americana è alto (e sì che i partecipanti a Masterchef sono dilettanti!) e che gli americani, in particolare a New York, sono sempre più attenti e sofisticati, e certo non si accontentano di un buon piatto di pasta.

Insomma, Luca: tu cosa diresti, cosa consiglieresti a questi ragazzi?

"A quei ragazzi direi che nulla è facile negli Usa, proprio per quello che dici tu. 
Ma nulla è impossibile.
La penso esattamente come te: qui non basta saper 'pasticciare' in cucina per aprire un ristorante. Ci si deve imporre con la bravura.
Qui a New York ci sono migliaia di posti dove si può mangiare, e svariate decine dove si possono gustare piatti italiani cucinati in modo ottimo. 

Bisogna poi tenere conto che oggi, a New York, lavorano gli chef più importanti al mondo. E che anche grazie ai programmi di cucina in tv, l'americano medio oggi è sempre più 'colto', più esigente. E tra l'altro non solo sul cibo, ma anche sul vino".

"Niente è facile, qui - ci dice Luca -. Però io sono sicuro che 'volere è potere'. E che l'America è il posto giusto per un giovane italiano che cerca una svolta per la propria vita e sa di avere un talento che magari in Italia non viene compreso. 
Perché qui, soprattutto a New York, le opportunità ci sono. 

Sì, qui si è sentita un po' la crisi, ma questa città ha avuto delle capacità incredibili nel rialzarsi. Lo ha fatto prima di qualunque posto degli Usa e del mondo.
E' vero che noi italiani nella ristorazione abbiamo sempre una 'marcia in più' rispetto agli altri, perché noi italiani siamo nati e cresciuti nelle cucine delle nostre mamme e delle nostre nonne, siamo cresciuti guardando le nostre mamme cucinare".

A coloro che volessero tentare l'avventura americana, ecco i consigli di Luca: 

"Innanzitutto essere preparato: per esempio, seguire una scuola di cucina in Italia quando si è qui mette noi italiani subito ad un altro livello, e colpisce i ristoratori americani.

Ai ragazzi consiglierei di fare la scuola alberghiera, il ramo 'cucina': è certo che quando si esce a 19 anni dalle nostre scuole alberghiere si ha un'ottima preparazione. 

E a chi invece di anni ne ha di più, prima di venire negli Usa consiglierei appunto di scatenarsi a frequentare corsi, master di cucina, di investire nella formazione tecnica aggiornandosi e arricchendo il proprio curriculum più che si può.
A quel punto si può anche cercare con buone speranze uno sponsor, qui".

Basta avere l'istinto di buttarsi un po' alla ventura, mi dice. 
E la fortuna, prima o poi, arriva.

Mi dice anche che non vede l'ora di andarsi a fare una bella vacanza riposante con la sua Cate - che ha sopportato con pazienza i suoi tre mesi di assenza - di avere da lei un po' di figli in una bella casa.
Un normale sogno americano.

Che comprende anche una Vespa del '63.
Con la quale fare il figo in una città dove praticamente non circolano moto o motorini.

"Ma voglio anche fare beneficenza - mi dice salutandomi -. Perché l'America mi ha insegnato  che quando si riceve molto, è giusto dare molto...".




P.S.: Ragazzi, ragazze: se vi interessa iniziare la vostra avventura americana come l'ha iniziata Luca, lavorando a Disneyworld, cliccate QUI




© dario celli. Tutti i diritti sono riservati

domenica 8 settembre 2013

Le mani di Carlo

Lui si chiama Carlo Italo Aurucci, e questo è il suo tentativo di spiegare agli stranieri il significato di tanti gesti che l'italiano fa mentre parla.

Vive in Canada, dopo essere emigrato 50 anni fa da Corleto Monforte, paesino della provincia di Salerno.


Un video che fa morir dal ridere.


Esattamente come fa piangere dalla commozione il racconto del suo ritorno, per la prima volta dopo 50 anni, al suo paese.


Per chi non conoscesse bene l'inglese, nella sua introduzione dice:

"Ciao!
Prima di tutto un po' di Storia...
Napoli e le sue Coste sono tra i luoghi più belli del Mondo. 
Questo è il motivo per cui, quando collassò l'Impero Romano ed Romani non furono più in grado di difendere le frontiere, tutti i popoli vicini realizzarono il loro sogno di venire a vivere a Napoli. 

Si alternarono Visigoti, Ostrogoti, vandali dall'Africa, Longobardi, Saraceni, Normanni, Carolingi, Germanici, Spagnoli, Francesi ed Austriaci. 

Ogni paio di anni una nuova popolazione si stabiliva a Napoli. 


I poveri napoletani non avevano il tempo di apprendere le loro lingue. 

Questo fu il motivo che li costrinse ad inventare una nuova forma di comunicare con il resto del Mondo: il Linguaggio dei Gesti".


Poi scrive una nota aggiuntiva...


"Mi scuso se parlo solo di Napoli e dei napoletani, lo faccio per spirito di appartenenza. 
L'Italia è bella tutta, e molti di questi gesti sono utilizzati in tutte le Regioni".