PERSONE CHE HANNO LETTO O CURIOSATO

venerdì 28 novembre 2014

E la possibilità di trovarsi in mezzo ad un bellissimo nulla...

Cari amici di Aria Fritta, queste righe è bene che siano affrontate con grande cautela dai lettori "agorafobici", coloro ai quali, cioè, gli spazi troppo aperti mettono ansia, paura, financo terrore.

Io, decisamente, non lo sono.

Walt Whitman, 1887
E decisamente non lo era nemmeno il grande poeta americano Walt Whitman, quando nel 1856, nella sua "Song of the Open Road", riusciva ad esprimere in questo modo splendido il fascino e la bellezza, degli spazi aperti americani:

"Inalo grandi sorsate di spazio.

L'est e l'ovest sono miei,
il nord e il sud sono miei..."

Insomma, se degli Usa si rimane colpiti da New York, dalla multiculturalità e dalla modernità delle grandi città americane, dai loro grattacieli e dalla loro confusione, altrettanto si rimane colpiti dagli enormi spazi immersi nei quali ci si trova percorrendo grandi o piccole strade che attraversano gli Stati Uniti da est ad ovest o da nord a sud, appunto.

E se volete crearvi una colonna sonora perfetta per il viaggio, non avete altro che accendere una radio "country-rock" e schiacciare (con moderazione!) l'acceleratore.



Oggi vi voglio portare su una strada che attraversa gli States da un lato all’altro.

No, non la famosa Route 66, che attraversa gli Usa da est ad ovest...

... della quale, peraltro - autentica - rimane qualche decina di miglia in Arizona e in California.

Quella che ci facciamo insieme oggi è un'altra strada che attraversa non poche "città fantasma" percorrendo centinaia (e centinaia...) di chilometri in mezzo al "nulla".

Il meraviglioso nulla del (soprattutto) ovest americano.

Sono paesini dove a volte è sopravvissuta solo una ciminiera e, accanto, un drugstore con ristorante.

Come a Thurber, in Texas, vivacissimo agli inizi del '900, animato da centinaia di case, negozi, uffici, banche, scuole, chiese e dal più grande teatro d'allora del Texas. 

E del quale paese, oggi, sopravvive solo questa ciminiera accanto ad un ristorante.














E un cimitero.
Pieno di cognomi italiani...

Come quello dei tre fratellini Castaldo, tutti morti incomprensibilmente nel giro di una settimana...
Tomba dei bambini Ginetta, Libera e Pierino Castaldo
Thurber, Texas
Sono (ex) paesini oggi formati magari solo da un caffè-alimentari con distributore di benzina: una garanzia, quando si viaggia in zone come queste.

Magari proprio come quello che ho fotografato sulla Route 66:


A volte, attorno, quel che rimane di abitazioni, banche, negozi, strutture segnate dal tempo. 

Con dentro ancora qualche arredo e fuori, magari, un’auto arrugginita.
Route 66, Arizona

Ghost town, Colorado
Le "citta fantasma", negli Stati Uniti, sono centinaia: si tratta di piccoli centri abitati sorti e abitati fra l’800 e il ’900 magari nei pressi di una miniera o in mezzo al nulla lungo una linea ferroviaria, a quel tempo in costruzione.
Paesini abbandonati quando la miniera si è esaurita o la ferrovia si è spostata più avanti.
E restati così, quasi come se il tempo si fosse fermato.

Ma questa volta, dunque, niente Route 66: questa volta gli Stati Uniti li cavalchiamo da nord a sud: dalle montagne al confine del Canada fino a giù, al deserto del Messico.
E senza praticamente mai fare - come potete vedere dalla cartina qui sotto - una curva.

La strada è la Us 83.
La 83 parte dal Nord Dakota, e precisamente da Antlerquattro case a due miglia dal posto di frontiera con il Canada.

Un confine, questo, che fa tenerezza, aperto al traffico solo dalle 9 del mattino alle 10 di sera...
Antler è il primo centro abitato della Us 83; e degli Stati Uniti d'America, per chi dal Canada entra da questo confine. 

Nata nel 1898 attorno ad un ufficio postale, Antler è considerata a buon titolo "città fantasma": basta pensare che quattro anni fa risultava essere ormai abitata soltanto da 27 persone.

Percorrendo le sue (quattro) strade si possono incontrare i fu uffici della banca e dello sceriffo.

Ed ecco (quello che fu) l'incrocio principale del paese: con, a sinistra, la vecchia sede dei Vigili del Fuoco. 






Ventotto anni dopo la nascita di Antler, ecco nascere la Us 83.

Dopo la grande confusione di Antler (qui la densità di popolazione è - pensate - di una persona ogni 61 kmq)... l'83 scende per 80 km senza una curva.



Qui è più facile incontrare mandrie di bisonti e cavalli selvaggi o coyote (anzi, bisogna fare molta attenzione perché poi per l’auto son guai…) che esseri umani.


La strada cavalca in mezzo a praterie deserte, prima di attraversare Minot, 80 km dopo, e poi si ficca dritta in mezzo al nulla per un’altra cinquantina di km fino a Max, dove la densità abitativa è di una persona ogni 165 kmq.
Us83: Murdo, South Dakota

Se poi (con il navigatore ben acceso e aggiornato) vi avventurate in qualche strada locale che taglia la 83, beh..., allora davvero vi troverete in mezzo al nulla...

E allora, fermatevi, spegnete l'auto, scendete e guardatevi intorno.
Respirate a fondo e ascoltate.
Ascoltate il silenzio.
E pensate...





Ovvio, non posso elencare qui tutti i paesini e le città fantasma che si incontrano lungo la State Road 83, lungo la Route 83.

Le miglia che la Us 83 si fa correndo da Antler, Nord Dakota, al confine con il Canada, e Laredo, Texas, al confine con il Messico, sono 1885: e cioè 3048 chilometri.

Che passano da Sud Dakota, Nebraska (dove la strada fa 357 km davvero senza una curva, incrociando solo due minuscoli paesini), 
Us 83: Nebraska
Us 83: Nebraska
Foto di Stew Magnuson
e poi Kansas...

Liberal,
Us 83, Kansas



e poi Oklahoma, dove la Us 83 passa da Balko (623 abitanti) che vediamo nella foto qui sotto, e dove l'unico punto animato è, dal 1904, un distributore con il diesel non tassato per i camion, il caffè ristorante gestito da sempre dalla famiglia Brady, un ufficio postale e una scuola pubblica,  


e finalmente Texas, dove la nostra Us83 corre gli ultimi 1260 chilometri, e da strada a due corsie, quasi improvvisamente 
Uvalde,
 Us83, Texas 
si trasforma in una vera e propria Highway, un'autostrada a tre corsie per carreggiata...
McAllen,
Us 83, Texas

Si passa, dunque, attraversi paesini composti da "quattro case" (letteralmente!) e da qualche "ghost town", città ormai fantasma: dai tipici paesaggi del west, alle immense praterie; da verdissime foreste, a zone desertiche con i cactus saguari...

E non stupitevi se ad un certo punto – magari proprio mentre starete fotografando quel meraviglioso nulla - verrete raggiunti dallo sceriffo del posto che vi chiederà cosa diavolo fate da quelle parti, visto che non c’è quasi nulla…

Anzi, in generale guardate bene l'espressione delle persone (al ristorante, al motel o anche quella dello stesso sceriffo...) quando si sentiranno rispondere, dopo la loro domanda di rito "Da dove vieni?", che venite dall'Italia...
Un altro modo per rendervi fisicamente conto di quanto siete davvero lontani.

L'importante è avere con sé una buona scheda di memoria per le centinaia di foto che farete, e darsi tempo, non avere fretta.
E, naturalmente, mantenere SEMPRE il serbatoio dell'auto pieno. 






Per strada, ad un certo punto, troverete un benzinaio, magari vicino ad una steak house e ad un motel.
Motel di quelli tradizionali, a gestione familiare, con nomi di fantasia, non appartenenti a grandi catene.

Quei motel dove l’auto si parcheggia davanti alla camera a pian terreno.

Pronta a ripartire l’indomani per un’altra lunga cavalcata.

In mezzo al nulla...


"Sal, dobbiamo andare e non fermarci più finché non arriviamo...
- Per andare dove, amico?
Non lo so, ma dobbiamo andare..."
(Jack Kerouac, "On the road")


© dario celli. Tutti i diritti sono riservati

venerdì 21 novembre 2014

I viaggi di Francesca


Quella che vi voglio raccontare oggi è una storia insolita per "Aria Fritta".
Una storia insolita e d'altri tempi. Che, a tratti - un po' come tutte le storie che racconto - ha dell'incredibile.

Quella di oggi, cari amici, inizia in un paesino della Lombardia.
Siamo a Sant'Angelo Lodigiano, e siamo al 15 luglio 1850, giorno in cui Stella Oldini affrontò - nella casa qui sotto - il suo 13° (esatto, tredicesimo!) parto.
Non ho idea di che umore fosse quel giorno il di lei marito: a quei tempi non è che i parti delle mogli fossero affar loro. Tanto più, appunto, il tredicesimo.

La piccola nacque prematura, di sette mesi. E per giorni, quello scricciolo era in preda ad una febbre altissima. 
E poi era piccola, piccolissima, minuscola: e per questo venne subito soprannominata "Cecchina"

Tutto questo preoccupava non poco Agostino Cabrini, il capofamiglia, che per la sua grande assidua frequentazione della locale chiesa, in paese veniva chiamato "il cristianone". Agostino che aveva sì fede, ma che non si faceva illusioni, viste le difficili, critiche, condizioni di salute della sua piccola.
Insieme alla moglie decise allora di battezzare immediatamente, lì, in ospedale, la sua Maria Francesca.  

La cui vita, per le prime settimane, sembrava essere davvero "appesa ad un filo", con i medici che, ogni volta che i genitori cercavano di avere qualche buona notizia, si limitavano ad alzare gli occhi al cielo.

Lui era un ricco proprietario terriero, e per di più cugino di un altro Agostino, il più famoso Depretis.
Quel socialista di Depretis.
Lo avete sentito nominare, sì. 
Lo abbiamo (vagamente) studiato a scuola.

Durante il Regno d'Italia, Agostino Depretis fu infatti ministro dei Lavori Pubblici e poi ministro della Marina, e poi ministro delle Finanze, e poi ministro degli Esteri, e poi ministro dell'Interno, nonché nove volte Presidente del Consiglio, dal 1876 al 1887.
Roba da far concorrenza ad Andreotti...

Fermo oppositore di Cavour (ah, se m'avessero fatto studiare la storia così al liceo...), Depretis era leader della "Sinistra Storica", e nel 1876 guidò il primo Governo di sinistra della storia italiana.
Il suo Governo varò riforme che, a quel tempo, vennero considerate "rivoluzionarie": come l'introduzione in Italia dell'istruzione scolastica obbligatoria, laica e gratuita per tutti i bambini. 

Intanto per quelli dai sei ai nove anni.
Davvero una rivoluzione, per l'Italia sabauda, arretrata e conservatrice di quei tempi.

Fu anche direttore di giornali, Agostino Depretis: il primo lo fondò a Torino il 7 novembre 1850 e lo chiamò "Il Progresso"
Giornale che poi chiuse dopo la fusione e la scissione di varie formazioni democratiche e di sinistra di allora (nulla di nuovo sotto il sole, dunque...), quando fondò "Il diritto", "Organo della Sinistra Italiana".

Insomma, pur essendo nata in una ricca famiglia lombarda saldamente cattolica,  il "retroterra" culturale e familiare della nostra Maria Francesca era questo.
Ma per carità: non si occupava certo di politica, Francesca.

I genitori, cattolici e timorati di Dio, furono funestati dai lutti: dei 13 figli, solo quattro, infatti, raggiunsero l'età adulta. E lei - anche per essere preservata dai possibili danni di una dura vita di lavoro - venne subito da loro mandata in un collegio di suore, peraltro diretto da un'altra delle loro figlie: suor Rosa, maggiore di 15 anni. 
Pare, severissima.
Scuola che aveva come finalità "l'educazione" intesa come "formazione del cuore, sviluppo delle potenzialità, vita di relazione e apertura verso il sociale".

In quel clima familiare e con quel "cristianone" in casa, Francesca, già da bambina, sognava di fare la missionaria. Nulla di particolarmente strano: non è insolito, infatti, un sogno infantile del genere.
(D'altronde io, da bambino, era incerto se "da grande" avrei fatto l'architetto o il Papa.

Eh già...
Con suor Lia - dell'oratorio che frequentavo - che quando dicevo questa cosa rispondeva sempre, sospirando e alzando gli occhi al cielo, "Chissà...").

Insomma, la nostra Francesca fin da bambina sognava di fare la missionaria: forse perché a casa tutti leggevano con avidità fantastici racconti di avventure lontane pubblicati dagli "Annali della propagazione della fede", rivista periodica che raccoglieva lettere e racconti di vescovi e missionari sparsi nel mondo.
Anzi, "Nei due mondi", come recitava il sottotitolo.

E fin da bambina, la piccola Francesca aveva una fissazione: la Cina.
I racconti di Marco Polo (e dei missionari che fino a là si spingevano), la affascinavano.
Sì, aveva deciso: "da grande" lei avrebbe fatto la missionaria.
E in Cina.


Era una "tosta", e anche un po' preveggente: anche se forse non così tanto da immaginare di entrare fra le righe di un blog laico (e ogni tanto peccatore) come questo.
"Tosta" e davvero d'altri tempi.
Tanto che nel 1861, quando aveva 11 anni, decise di fare "voto di castità".
Nel 1868, intanto, si diplomò maestra elementare, gioia che venne mitigata due anni dopo, quando nel giro di 10 mesi le morirono entrambi i genitori. 
Con il "voto di castità" che lei rinnovò di anno in anno, fino al 1874.
Quando divenne novizia con il nome di Francesca Saverio Angelica del Bambin Gesù. Aggiungendo al proprio, il nome maschile "Saverio", in onore di San Francesco Saverio, missionario nel lontanissimo Oriente. 
Tre anni dopo, prese i voti. 

Ma non tra le suore canossiane, dove aveva studiato: era di salute "troppo cagionevole", dissero.
Secondo loro lei non era adatta né a fare la suora, né - tantomeno! - la missionaria in giro per il mondo.

Ma era tosta, la nostra Francesca...

Pensate che dopo il diploma magistrale, riuscì a convincere alcune sue ex compagne di scuola a costituire tutte insieme il primo nucleo di quello che sarebbe diventato il suo ordine religioso.
Proprio mentre insegnavano in una scuola di Castiraga Vidardo, oggi in provincia di Lodi.
Dove un sacerdote del luogo le addocchiò segnalandole al locale vescovo, mons. Domenico Maria Gelmini (non so dirvi se parente...).
La raccomandazione, però, non favorì per nulla il cammino della nostra Francesca verso la Cina; anzi la inchiodò a Codogno - sempre dalle parti di Lodi - a rimettere in sesto un istituto per bambine povere che stava per chiudere, si sentì dire dall'alto prelato, "per una gestione finanziaria poco oculata".

Di Cina, il Vescovo di Lodi, non ne voleva nemmeno sentirne parlare.

Intanto la spinse a fondare l'Ordine religioso, che dopo l'approvazione vescovile di rito si sarebbe chiamato "Salesiane missionarie del Sacro Cuore di Gesù" (oggi "Salesiane di don Bosco"). Poi le ordinò di dirigere l'Istituto che sarebbe sorto a Codogno.
La prima di altre Case fondate, sempre però in Lombardia.

Ma a Francesca, la Lombardia, le stava stretta.
Era evidente.

Lei scalpitava, le sue consorelle (forse) anche.
Allora un giorno si decise ad andare a Roma, capendo che la via per la Cina, per lei, passava obbligatoriamente da piazza San Pietro
Intanto a Roma, nel 1887, fondò sulla via Nomentana la sua prima scuola; mentre l'anno dopo venne premiata con il "Decreto di lode", importantissimo riconoscimento ecclesiastico.
Non stava nella pelle, Francesca, che aveva sempre lì, in un angolo del cuore, il grande sogno che aspettava.

Possiamo solo immaginare quanto lei fosse emozionata quando ricevette la convocazione a Piacenza da parte del locale vescovo, Giovanni Battista Scalabrini, che da tempo, su incarico papale, si dedicava agli emigranti italiani nel mondo. 
E che voleva sviluppare il "ramo femminile" del suo ordine.
Ma chissà quanto restò male, la nostra povera Francesca, quando dalla voce del Vescovo non sentì affatto la parola "Cina"
Perché mons. Scalabrini le propose (anzi le ordinò!) sì di aprire un asilo e una scuola per italiani.

Ma in America.

A Nuova York.

"Doveee?? A Nuova York?? Ma io voglio andare in Cina, accidenti!" 
(Mmmh... no, forse "accidenti" non lo disse...). 
"E poi che ne sarà degli Istituti che ho fondato in Italia? Se li vogliono pappare gli Scalabrini??" 
(Mmmh... no, forse "pappare" non lo disse...). 
"E se vado in America che fine fanno i miei progetti di sviluppo verso Oriente? 
E la mia Cina??".

Lei si arrese solo l'anno successivo, quando ricevette la convocazione nientemeno che dal Capo.
Quello Supremo.
Quello giusto sotto l'Onnipotente.

Convocazione dal Papa, insomma.

Leone XIII, infatti, le concesse udienza privata per manifestarle in poche parole i piani che la Chiesa aveva per lei.

"Non a Oriente, Cabrini, ma all'Occidente... 
La vostra Cina sono gli Stati Uniti d'America! 
Vi sono tanti italiani emigrati che hanno bisogno di assistenza e che lì sono trattati come 'schiavi bianchi'
L'America.
E che Dio vi benedica".
(Ellis Island: registrazione di emigranti italiani) 


(New York: abitazioni di emigranti italiani)
Eccome, se ce n'erano di italiani, negli Usa: basta pensare che solo tra il 1901 e il 1913, negli Stati Uniti sarebbero emigrati qualcosa come cinque milioni di connazionali, di cui oltre tre milioni provenienti dal meridione d'Italia.

Insomma, cari amici: poteva forse una piccola suora lombarda, dire di no a colui che è il Ponte con l'Altissimo?
Ancora grazie che le aveva parlato direttamente!

L'America...

ll 19 marzo 1889 nel convento di Codogno, suor Francesca Cabrini e altre sei religiose, ricevettero da mons. Scalabrini "la Croce" (l'incarico) di Missionarie.

E quattro giorni dopo, il 23 marzo, le sette giovani suore italiane salparono a bordo del piroscafo Bourgogne dal porto francese di Le Havre dirette a Nuova York.

Pensate, cari amici di Aria Fritta: nessuna di queste ragazze aveva mai visto il mare, nessuna di loro aveva mai navigato, nessuna di loro era mai stata all'estero.
E il loro fu un viaggio terribile, fra onde terrificanti e tempeste, passato dalle sette sorelle costantemente a pregare e a vomitare...

(Nove anni dopo, il 4 luglio 1898, proprio lo stesso piroscafo, il Bourgogne, affondò al largo delle coste canadesi di Halifax, provocando la morte dei 549 emigranti, quasi tutti italiani, che erano a bordo. 
Ci ricorda qualcosa, vero?).

Dopo un viaggio tremendo, dunque, il 31 marzo 1889 le sette suore di Codogno sbarcarono nel Nuovo Mondo. Accolte da una fitta pioggia, in una New York infangata.

Sbarcarono sì: ma quando arrivarono, al porto non trovarono nessuno ad aspettarle.
Nessuno.
Non c'era l'arcivescovo di New York Michael Augustine Corrigan, che pure era stato avvisato dal Vaticano dell'arrivo delle suore. Né lui aveva ritenuto di inviare qualcuno in sua vece ad accoglierle.
Michael Augustine Corrigan
Arcivescovo di New York

Il Monsignore pare fosse assai indispettito perché Roma - al posto di inviargli i sacerdoti dei quali aveva fatto ripetutamente richiesta - gli aveva mandato delle suore.

Sette donne!

Diciamola tutta: fu un gran maleducato, mons. Corrigan...

Quelle poverette, non vedendo nessuno al porto, si trovarono costrette a trovare da sole la strada per Little Italy, chiedendo lì ospitalità ai primi italiani che incrociarono. 

Morale: suor Francesca e le sei consorelle passarono la loro prima notte nel Nuovo Mondo in un magazzino di carbone, senza luce, senza acqua, dormendo per terra. 
Di riscaldamento nemmeno a parlarne: le sette ragazze dormirono coprendosi solo con stracci e sacchi di juta, quelli che venivano utilizzati per il carbone, appunto.

Quando poi il giorno successivo riuscirono a trovare la Curia, Mons. Corrigan, appena le vide, le invitò senza mezze parole a tornare in Italia "con la stessa nave ancora in porto", disse testualmente.
Perché il lavoro di cui lui aveva bisogno, disse, "non era adatto alle donne".

"Non era adatto alle donne...".

Ahi, ahi, ahi, caro Corrigan...
Che errore! 
Mi sa che tu, del genere femminile, non te ne intendevi molto, vero? 
Perché è noto che, fin dai tempi di Eva, è assai poco consigliabile dire una frase del genere ad una donna.
Con tonaca o senza.

Oltre tutto, non solo la nostra Francesca non aveva alcuna intenzione di tornare in Italia, ma, "nella manica", aveva "un asso". 

Anzi un paio.
Di lettere.
Scritte nientemeno che dal capo. 
Da Papa Leone XIII in persona.


E infatti Suor Francesca - dopo aver ricevuto il "cortese" invito a tornare in Italia - si limitò a guardare l'arcivescovo dritto dritto negli occhi dicendogli, con uno sguardo che doveva essere tutto un programma. 
"Ah, a proposito, Eminenza eccellentissima: permettetemi solo di darvi alcune lettere per voi. 
Me le ha date personalmente Sua Santità, che mi ha raccomandato più volte di riporle nelle vostre pregiatissime mani.
E sono onorata di portarvi i personali saluti del Santo Padre...".

Cari amici: non avreste voluto anche voi, come me in questo momento, vedere l'espressione del viso del porporato?
Come minimo doveva essere rosso come il colore del suo abito corale: rosso porpora, appunto.

Mons. Corrigan era talmente indispettito, che l'unico alloggio che a quel punto mise a disposizione di suor Francesca e delle sei consorelle fu una catapecchia malsana, con i vetri alle finestre rotti, infestata da topi, scarafaggi e cimici.
Persin peggio del magazzino dove le sette suore avevano dormito la notte precedente.

Non solo: "rosicò" talmente tanto, il monsignore, che non so bene con quale scusa non fece arrivare nemmeno un po' di cibo alle povere suore.

Ma quello fu un boomerang: perché così, costrette a mendicare e a chiedere la carità di porta in porta a Little Italy, in pochi giorni conobbero, poco per volta ma personalmente, uno ad uno, praticamente tutti i nostri emigranti di New York.

Già, è proprio vero: quanto sono duri i primi tempi nel Nuovo Mondo, eh? 


Sorrette da una Fede incrollabile (e dalle direttive del Papa...) suor Francesca e consorelle cominciarono dunque subito a darsi da fare: a lavorare fra gli immigrati italiani, ad insegnare ai bambini quel po' d'inglese che conoscevano, a far visita agli ammalati...

E in pochi giorni, misero su dal niente una mensa per i poveri italiani, con il cibo che loro stesse cucinavano.

Di soldi, non ne avevano. 

A quelli, dicevano sempre, ci avrebbe pensato la Provvidenza (visto che il Monsignore, da quell'orecchio, figuriamoci se ci sentiva...). 

E - incredibile! - le offerte poco per volta arrivarono.
I negozianti di Little Italy, ogni giorno, quando le vedevano passare, donavano loro un po' di pane, e insalata, cavoli, zucche, carote, cipolle.
Ogni tanto anche qualche pezzo di carne!


Perché presto le suore di Francesca Cabrini si fecero conoscere da tutta la comunità di Little Italy, il quartiere di Manhattan dove la mortalità infantile, allora, era altissima, dove intere famiglie di immigrati italiani abitavano in una sola stanza, dove i bambini erano costretti a mendicare o a pulire le scarpe per tirare su qualche centesimo.

In un paio di giorni Francesca si rese dunque conto che fra le esigenze più urgenti c'era quella di dare un tetto alle giovani italiane sole, fornendo un'istruzione adeguata a loro e ai numerosi bambini orfani che vivevano in stato di abbandono nel quartiere italiano di New York.
E la prima casa di ricovero, suor Francesca Saverio Cabrini la aprì il 20 aprile 1889, nemmeno un mese dopo essere sbarcata.


Cari amici, elencare i viaggi che Suor Francesca fece da quel momento occuperebbe un paio di pagine: tornò, infatti, in Italia nel luglio dello stesso anno.
Ma ad aprile del 1890 era già di nuovo a Nuova York, questa volta per trasformare in orfanatrofio per bambini italiani una villa di West Park.
Poi andò di nuovo in Italia, poi venne di nuovo negli Usa, dove questa volta ritornò insieme ad altre 29 sue consorelle.
Poi in Nicaragua, poi a New Orleans, e poi di nuovo in Italia, a Genova...

Nel 1892 era di nuovo a New York, per aprire quello che per 114 anni è stata una istituzione per gli italiani nella Grande Mela: il "Columbus Hospital", il primo (e unico) ospedale italiano della Grande Mela.

Suor Francesca nella sua vita attraversò per ben 24 volte l'Oceano Atlantico: sempre per aprire ospedali, orfanotrofi, asili, dormitori, case per emigranti.
Passando per New York, New Orleans, Panama, Buenos Aires, Barcellona, Parigi, Londra, Liverpool, e ancora Managua, Genova, Buenos Aires, Cuba, Chicago, Madrid, Panama, Brasile, Denver, Seattle.
Dove complessivamente oggi operano più di 1300 suore dell'ordine missionario da lei fondato.


La cosa che lascia perplessi noi laici e miscredenti, è che lei mica arrivava dall'Italia sempre con i soldi della Santa Sede.
Anzi.
Nella maggior parte delle volte, infatti, era costretta ad affidarsi alla disponibilità degli emigranti italiani.

Magari di quelli benestanti o diventati ricchi. 

Come quella volta che a New Orleans incontrò un siciliano che aveva fatto fortuna negli Usa arrivando a possedere navi, imprese edilizie, compagnie di assicurazioni, fabbriche di birra. Un connazionale in quel momento anche proprietario di sedicimila ettari coltivati a cotone e limoni.

Pare che lui, ignaro di quello che gli sarebbe toccato di lì a poco, la accolse con un innocente "Sorella, in cosa posso esserle utile? Di lei, ormai, parla tutta l'America, sa?".

- In niente! Sono io che vorrei essere utile a lei!

"Cara sorella, ma io non ho bisogno di niente! Non chiedo nulla a nessuno, io. Voglio solo che mi lascino fare in pace i miei affari...".

E allora la prende alla lontana, suor Francesca...

- Io, invece, sono una suora e non mi interesso di affari. Ma mi interessa la sua felicità. Mi hanno detto che lei è ricco, sposato da molti anni, ma che non avete figli... Che cosa triste...
"Eh sì, purtroppo è così: mi piacciono molto i bambini, ma...".

L'amico siciliano non lo sapeva, ma in quel preciso momento era già caduto nella celeste trappola di suor Francesca. 

Che colse la palla al balzo: 

- Ma che peccato... E' proprio un peccato! Con tutte queste belle cose che oggi ha, e neanche un figlio a cui lasciarle.
Si è mai chiesto, lei, il motivo di tanti doni piovuti dal Cielo?
Un motivo ci deve essere!
Sono certa che il Signore ha formulato un bel progetto sul suo conto. Non ha idea di quanta gioia possano dare i bambini!".

Lui, a quel punto, le disse di aver effettivamente pensato qualche volta ad una adozione, aggiungendo "Mi lasci riflettere, lasci che ne parli a mia moglie, e se lei è d'accordo ne parliamo di nuovo e lei ci fa conoscere IL bambino".

Era fatta. 
A quel punto suor Francesca assestò il suo colpo definitivo: 

"IL bambino? E chi ha parlato di UN bambino?
Cosa ne direbbe, tanto per cominciare, di 65 bambini?".

Che mi venga un colpo!

Fu così che a New Orleans suor Francesca Cabrini aprì il suo primo orfanotrofio. 

E quando questo divenne troppo piccolo, alcuni anni dopo, il benefattore siculo-americano di dollari gliene regalò ben 65mila. 
Una cifra pazzesca per quei tempi.  
Suor Francesca: che macinò migliaia e migliaia di chilometri...
In nave, a cavallo, a piedi, attraversando oceani, le Montagne Rocciose, la Sierra Nevada, le Ande, le Alpi.
 
Nel 1907 la congregazione da lei fondata contava più di mille religiose. 
E fino ad allora più di cinquemila bambini erano stati presi in carico nelle sue scuole, così come ammontarono a più di centomila i pazienti curati negli ospedali da lei aperti nel Nuovo Mondo.

Nel 1909 Maria Francesca Saverio Cabrini prese la cittadinanza americana e nel frattempo si beccò pure la malaria, contratta chissà quando e dove.


Una delle sue ultime realizzazioni fu il trasloco sulla 19a strada del suo
"Columbus Hospital", l'ospedale italiano di New York, che si prendeva cura di 200 malati.

Suor Maria Francesca Saverio Cabrini morì il 22 dicembre 1917 a Chicago, dove era andata per passare il Natale con i bambini orfani che vivevano nel suo Istituto. 
Il giorno prima aveva passato l'intera giornata ad impacchettare personalmente dolci da regalare ai piccoli.

Aveva 67 anni.

E 67 sono state le strutture, soprattutto sanitarie, che nel corso della sua vita riuscì ad aprire in giro per il mondo.

E' sepolta a New York, nella chiesa vicina alla sua "Mother Cabrini High School"

Nove anni dopo - era il 1926 - le prime sei suore "cabriniane" raggiunsero la Cina, dove l'anno dopo aprirono la prima casa per bambini abbandonati.
E il sogno di suor Maria Francesca era finalmente realizzato.
Un sogno che durò, però, solo 24 anni: nel 1951, infatti, le suore vennero espulse e obbligate a lasciare il Paese.



Maria Francesca Saverio Cabrini venne dichiarata Beata il 13 novembre 1938, e Santa il 7 luglio 1946.

E' stata la prima cittadina americana ad essere proclamata santa. 

Fra i miracoli a lei attribuiti, il più importante riguarda un neonato di nome Pietro Smith, ricoverato proprio nel suo ospedale di Chicago e rimasto cieco a causa di un tragico errore dei medici di quell'ospedale.
Cecità irrimediabile, dissero i numerosi specialisti consultati, disperati e sconvolti dal senso di colpa.
Cecità che poi, però, svanì.
 
Ecco, cari amici di Aria Fritta, se da umile peccatore mi posso permettere di suggerire, forse un piccolo (enorme) miracolo, santa Maria Francesca Saverio Cabrini potrebbe proprio farlo anche oggi.
E cioè illuminare la mente di chi può, o di chi potrebbe, e far rinascere l'ospedale italiano di New York - il "Columbus Hospital", poi chiamato in suo onore "Cabrini Medical Center" - che per 114 anni, ha curato, garantendo ottime prestazioni con personale sanitario italiano, connazionali immigrati e cittadini americani.
Malati poveri e meno poveri.


Il "Cabrini Medical Center", era un ospedale all'avanguardia nella cura per il diabete e le sue conseguenze, per l'Aids, per la cura della demenza senile.
Aveva un reparto di cardiologia all'avanguardia e un servizio di visite a domicilio per i pazienti anziani che abitavano nella zona.

Poi, dopo 114 anni al servizio degli italiani, nel 2006 arrivò la scure del Governatore dello Stato di New York George Pataki, repubblicano, che alla fine del suo mandato presentò un piano di risparmio che prevedeva la chiusura di nove ospedali, di cui cinque a Manhattan, per 4mila posti complessivi. 
Ospedali che erano troppo piccoli per i costi che dovevano essere sostenuti, si giustificò.

E fra questi, appunto, il Cabrini che, per quanto ritenuto piccolo, si sviluppava su 16 piani.



Cavoli, ma vi immaginate come si sarà incazzata la nostra amica Francesca quando l'ha saputo? 
Ma porca miseria, altro che "santa pazienza"! 
Con tutti gli sforzi che fece 114 anni prima per aprirlo! 

Niente da fare...

Ormai chiuso, nel 2006 l'edificio in cui sorgeva l'ultima sede è stato venduto per 130 milioni di dollari, con i quali vennero ripianati i debiti.
Le sue attrezzature furono dirottate verso altri ospedali.
Che peccato.
Davvero un peccato.

Non appena arrivò a Nuova York, nella prima lettera che scrisse al proprio padre spirituale, suor Francesca Saverio Cabrini scrisse: 

"Eccoci sulla banchina di New York, negli ultimi anni del diciannovesimo secolo. 


Qui, alla ricerca di migliori condizioni di vita, vi sbarcano ogni anno fra cinquantamila e duecentomila italiani! 

Tutti sognano di far fortuna, ma intanto vengono relegati nei quartieri popolosi delle grandi città; d'estate, lavorano in qualità di manovali, scaricatori, muratori, minatori, o ferratori; d'inverno, eccoli ridotti alla disoccupazione. 
Ignorando la lingua, i «dagoes», come sono chiamati, sono ampiamente sfruttati".

Già, così venivano chiamati gli italiani: con quel termine derivato dalla parola "dagger", che significa "coltello", "accoltellatore". 
Soprannominati così perché gli italiani erano ritenuti più o meno tutti una manica di delinquenti, ognuno solito ad avere sempre con sé, un coltello. 
E ad usarlo con facilità...



L'8 settembre 1952, santa Maria Francesca Saverio Cabrini venne proclamata "Celeste Patrona di tutti gli emigranti".
Da allora, nel calendario cattolico sarebbe stata ricordata ogni 22 dicembre, giorno della sua morte.


"La missionaria non conosce distanze. 
Per lei, lo spazio, è un punto impercettibile".
(Maria Francesca Saverio Cabrini)



© dario celli. Tutti i diritti sono riservati