PERSONE CHE HANNO LETTO O CURIOSATO

sabato 29 marzo 2014

Buona notte!

Paragonerei la vicenda che voglio raccontarvi al giorno in cui, nel corso del mio primo viaggio americano, in un supermercato di non so più quale città cercavo un semplice sacchetto di patatine chips.

Una cosa semplice, appunto.
Pensavo...






Avete mai provato, in un supermercato americano, a cercare un pacchetto di patatine chips "normali"?
Praticamente introvabili, sembra trattarsi di una vera rarità da "intenditori".
Molto più facili da trovare, invece, quelle cotte senza olio, o moderatamente salate, o quelle al peperoncino, o all'aglio, o al bacon, o alla cipolla, o al formaggio, o all'aroma di carne barbecue, o agli inquietanti mix "sale-aceto", "cipolla-aglio" (raccomandato per un'alito fresco...) e "panna acida-cipolla". 
E tutte in confezioni, ovviamente, che a volte arrivano ad essere grandi come un bambino di due anni. 

La logica che guida il commercio (e non solo quello degli alimenti) in America è una sola: soddisfare ogni tipo di gusto...
(Reparto di cibo "Kosher" in un supermercato di Boca Raton, Palm Bieach, Florida)



... rispettado tradizioni alimentari (anche religiose) ma scovando anche nicchie di consumatori insoddisfatti e anticipare ogni tipo di tendenza.
E non solo per il commercio di alimenti.

Mi sono venute in mente queste cose quando ieri ho partecipato ad un piccolo dibattito sui letti americani.

L'antefatto è questo: un'amica di Facebook che l'anno scorso è stata baciata dalla fortuna vincendo la Green Card alla lotteria annuale, sta preparandosi - con marito, figli, grande entusiasmo e una discreta dose di coraggio, devo dire -  al grande passo: il trasferimento negli Stati Uniti.
Precisamente a Naples, in Florida, splendida cittadina nel golfo del Messico (che poi, forse è inutile dirlo, vuol dire Napoli).





Il dibattito è stato scatenato da una sua semplice domanda: "Cosa mi consigliate di portarmi dall'Italia? E che mobili?"
Un problema non secondario, visto che riempire un container di mobili che dovrà attraversare l'Atlantico è una spesa non certo di poco conto, e che magari (anche senza "magari"...) i mobili negli Usa sono decisamente meno costosi, anche se, forse, non hanno la qualità italiana.
Un problema complicato e di difficile soluzione se si confrontano due tesi contrapposte: quella italica del "mobilio (camera da letto, cucina, salotto) per "tutta la vita", o quella del "meglio comprare mobili più economici così da poterli cambiare magari ogni cinque anni" (quando, cioè, una donna mediamente si stufa: noi maschietti siamo più tontoloni e non ci badiamo molto...).

Ok portarsi in America piatti, posate, pentole, soprammobili: ma che fare di armadi e - e qui ci siamo - del letto?

Dovete sapere che, in generale, le case americane vengono vendute con l'intera cucina (su misura) già installata. Dunque il massimo problema di fronte al quale ci si può trovare, è il cambiare gli sportelli, se lo stile non è gradito. 














Anche il capitolo "armadi" nelle case americane è, in generale, presto risolto, visto che le abitazioni sono piene di provvidenziali e capienti armadi a muro (che, signora mia, sono tanto comodi!).
Il capitolo camera da letto appare più complicato, perché se da una parte spesso questa "appare" forse più piccola, non si tiene conto che spessissimo, quasi sempre, le camere da letto "padronali" sono dotate oltre che di bagno "autonomo", anche di "cabina armadio": spesso così grande che ci si può passeggiare dentro (tanto che si chiamano "walk-in-closet", che letteralmente vuol dire, più o meno "camminando al chiuso") in grado di contenere anche gli abiti dell'altra stagione.

Dunque, che fare?, si chiedeva l'amica Donatella: faccio smontare gli armadi italiani, li metto in un container, imbarco questo in una nave, lo faccio arrivare negli Usa per poi farlo  trasportare fino alla mia nuova casa? 
E se poi gli armadi sono troppo alti per gli standard delle case americane, le è stato fatto notare?
"Ok, va bene: cercherò di sapere quanto sono alti i soffitti", ha detto l'amica. "Ma almeno il materasso no! Il letto me lo porto!".

E (anche) in questo campo le cose si fanno complicate...
Perché affrontare il capitolo "letto negli Usa" aiuta molto a 
capire l'America (e l'Italia).

Come ben sappiamo, in Italia le cose sono assai semplici. 
A meno che non si opti per un materasso "su misura", generalmente i formati di questi, in Italia, sono tre (ok, fanno eccezione i letti Ikea, di formato leggermente differente).

Come sappiamo, in Italia, il letto singolo misura 80cm per 190cm.
Il letto da "una piazza e mezza" è grande 120cm per 190cm.
Quello matrimoniale (generalmente) 160 per 190 centimetri; anche se vi sono aziende italiane che producono in serie materassi 165 per 195 o 170 per 200.
(Ma con un costo maggiore...).
Insomma: ci accontentiamo.

Ma così come per le patatine chips citate all'inizio, negli Stati Uniti le cose in questo campo si fanno complicate...

Per letti e materassi, negli Stati Uniti, sono troppo semplici tre misure.
E giustamente, a mio parere.
E poi, non dimentichiamolo, agli americani piace stare comodi

La tabella che segue, spiega visivamente il complicato universo dell'american bed, del letto americano. 
E soprattutto evidenzia misure assai diverse da quelle italiane (con grande rischio per le italiche lenzuola del corredo, mi sa...).






















Riassumendo: negli Stati Uniti, il materasso singolo (quello più piccolo) misura "39 in" x"75 in": che corrisponde a 99 cm x 191 cm.
Che nelle camere da letto americane si presenta in coppia, con il nome "Twin bed", i famosi "letti gemelli", onnipresenti nei film americani degli anni '50 (quando la morale allora imperante negli Usa riteneva "sconveniente" far vedere che un uomo e una donna, seppur sposati, potessero dormire nello stesso letto...).

Il letto "Queen" (che si trova nella maggior parte delle camere d'albergo, soprattutto a New York) misura "60 in" x "80 in" (cioè 152 cm x 203), più grande della nostra "piazza e mezza" ma un po' più piccolo di quello matrimoniale, dunque.
(Ciao, Gio!)
In molti motel (come in questo da me fotografato), a volte, due per stanza. Per farci stare, in uno dei due, anche i figli.
Negli Usa esiste poi (ma è rara) la misura "Olimpic Queen", la più vicina a quella del nostro "matrimoniale: 66 in x 80 in, cioè 168 cm x 203.


Infine eccoci al mitico "King Size Bed"
Quasi una piazza d'Armi, roba da quattro cuscini, un letto (ehm...) "da capriole".
Perfetto per la coppia "oversize": 76 in x 80 in, che corrispondono quasi a due metri per due. 
Precisamente 193 cm di larghezza per 203 centimetri di lunghezza.
Del quale esiste la variante "California King": leggermente più stretto (183 cm) ma più lungo (213 cm), adatto, perciò, ai super alti. Versioni "extra long" (più lunghe) disponibili per tutti i letti e tutti i materassi.

Insomma: per chi si trasferisce negli Usa, sarà impossibile utilizzare le lenzuola italiane.
A meno che non si porti dietro il letto...

Il discorso si conclude con un altro delicato capitolo: quello sugli armadi. 
Negli Usa, come già accennato, le abitazioni sono piene di armadi "a muro" e quasi sempre, le camere da letto sono dotate - come si può vedere nella piantina qui sopra - della "walk-in-closet", la (mitica) cabina armadio.
Che, senza andare nel lusso più sfrenato, possono essere semplici come queste, per esempio:






















Va da sé che, generalmente, le camere da letto delle case (e degli appartamenti) americane siano più piccole di quelle italiane, visto che non debbono lasciare spazio per l'armadio.


Dunque (cara Donatella) è un bel problema.
Portarsi dall'Italia un container di mobili senza conoscere con esattezza le dimensioni della casa che si andrà ad abitare, può essere un rischio.

Assai più costoso del comprare (quasi) tutto una volta arrivati negli Usa.
La soluzione migliore, forse, è fare arrivare i mobili quando tutto è più certo.
Rassegnandosi al fatto che una vita nuova ci obbliga a lasciarci alle spalle un po' di vecchiume.

Ok, meglio dormirci su e decidere tutto con calma.
Buona notte, appunto...



© dario celli. Tutti i diritti sono riservati

martedì 25 marzo 2014

Il salvadanaio della piccola Alessia

Tutta colpa di Billie Joe Armstrong...
Non mi dite che non sapete chi è! (Beh, tranquilli, confesso che non lo sapevo nemmeno io...).
Per inquadrare il personaggio, ho pescato questa sua fotografia.
Eccolo: un gran pezzo di ragazzo, devo ammettere.
E secondo voi, poteva, nel 1994, una quattordicenne di Savona dai capelli rossi non prendersi una cotta micidiale per lui, per il cantante dei Green Day? (Ora sapete chi è...).
No, non poteva resistergli.

E per la proprietà transitiva delle cose, poteva quella ragazza non innamorarsi anche del suolo che lui calpestava, e del cielo che lui vedeva, e del mare nel quale magari lui faceva il bagno, financo all'aria che lui respirava nel leggendario - qui sotto in un paio di foto - campus universitario di Berkeley?









E dunque, come poteva, quella ragazzina del 1994, non essere innamorata perdutamente della California e di San Francisco...
No, non poteva.
"Era il mio pensiero fisso, in quegli anni: facevo il primo anno del liceo artistico, sognavo di mollare Savona (chissà quando e come...) e trasferirmi nella Bay Area possibilmente con il teletrasporto per fare prima, e andare a vivere il più vicino possibile a lui, al mio Billie Joe. In California".

Ora sorride, la nostra Alessia, ma possiamo immaginare quali scontri abbia affrontato in quegli anni con il padre siciliano e la mamma piemontese, che mai - ai tempi di queste foto - avrebbero immaginato in quale angolo di mondo sarebbe andata a finire la loro figlia.


Mamma che al massimo, da giovane, sarà stata innamorata di Gianni Morandi o di Massimo Ranieri: certo, difficilmente raggiungibili anche loro, ma almeno italiani, per la miseria!
Alessia mi racconta che la prima conseguenza di quel suo pensiero fisso fu l'istituzione di un "fondo California", per rimpinguare il quale si sottopose ad una rigidissima politica di risparmio: "Sì, in attesa della 'grande fuga' dovevo intanto mettere da parte abbastanza soldi per raggiungere la California non appena avessi compiuto i 18 anni. 
Era un piano perfetto". 
Ma intanto lei viveva a Savona e abitava in famiglia, e il tempo libero lo passava come tutti i ragazzi e le ragazze di quell'età e di quella città.

A studiare, certo, ma soprattutto ore e ore a parlare (e parlare, parlare, parlare...) in spiaggia o in qualche locale come questo qui sotto, di idee, progetti, sogni, bisogni...
Sogno dopo sogno, anno dopo anno, per Alessia arrivò finalmente il tempo dell'esame di maturità. E con lui il momento di mettere in pratica il "piano perfetto" che prevedeva che, al raggiungimento della maggiore età lei sarebbe partita alla volta dell'America.

Bisogna ammettere che ("almeno allora", dice ora) Alessia era decisamente una buona risparmiatrice: al 2 giugno '98, giorno del suo 18° compleanno, il saldo del suo "fondo California" ("per il quale ancora oggi mia madre mi prende in giro") cinquecento lire dopo cinquecento lire, mille lire dopo mille lire, ammontava alla bellezza di 5 milioni di lire.
All'epoca (e per un'adolescente) una sommetta niente niente male...

"Puoi immaginare mia madre... Che tirò però un sospiro di sollievo quando seppe che invece di partire per la California, avevo deciso di iscrivermi alla scuola di restauro a Firenze". 
Senza però nasconderle, però, che si trattava soltanto di un rinvio. 
Era infatti sua intenzione partire per la California 3 anni dopo: meglio che niente, immagino abbia pensato la mamma, paziente come sanno essere tutte le madri di fronte ai "colpi di testa" delle figlie (e dei figli) adolescenti.
"Ammetto che decidere di rinviare la partenza mi pesò non poco: ma lo feci sperando di arrivare poi in America con un titolo di studio in più, e senza dover sentire i rimproverei dei miei per i secoli a venire perché mi ero rifiutata di fare l'università...". 

Ma la nostra Alessia era un genio: chissà come, aveva saputo che i Mormoni di Savona - sì, i missionari della "Chiesa di Gesù Cristo dei santi degli ultimi giorni", tutti americani e giovani - offrivano (e offrono) corsi gratuiti di conversazione di inglese. E senza pretendere che venisse (e venga) abbracciata la loro fede. 
"Erano simpatici, interessanti, tutti con la camicia bianca e la cravatta scura, tutti alti, ma, soprattutto, tutti americani. E visto il pessimo livello del mio inglese per me sono stati quasi miracolosi", racconta. "Dunque, in attesa del 'grande passo', intanto perfezionavo il mio inglese". 
A Savona prima e a Firenze poi.

Per alcuni anni, per la verità, Alessia e le sue due migliori amiche iniziarono a frequentare la Danimarca, "dove andammo sia come premio per la maturità - conseguita con il massimo dei voti; era una testa calda ma pur sempre un po' secchiona, la nostra amica - sia per i 18 anni compiuti: e mi piacque subito. Non mi era mai capitato, il giorno dell'arrivo in un posto, guardando dal finestrino di un autobus, di sentirmi 'a casa'". 
E infatti ci tornò parecchie volte, in Danimarca, Alessia: fino al punto di decidere un - sempre momentaneo - trasferimento. "Sì, insomma, 'per il momento', accantonai la California. Optai per sei mesi di soggiorno ad Hellerup, dove avrei fatto la ragazza 'alla pari' in una famiglia".

Oggi definisce quella con la Danimarca "una storia d'amore" che voleva fortemente. 
"Potrei davvero paragonare il mio rapporto con la Danimarca come quello con un uomo. Mi piaceva tanto, mi illuminavo anche solo a parlarne. Ma...". 
Ma alla fine, quella "storia d'amore" non ha funzionato.
Alessia capitò, infatti, in una famiglia terribile: "Dalla quale scappai dopo cinque mesi".
E con dieci chili di meno.

Fallita l'esperienza danese, in Italia con un mese di anticipo, Alessia tornò a casa dei suoi. Di nuovo nel limbo italiano, senza nessuna prospettiva di lavoro. Niente, poi, che c'entrasse anche solo lontanamente con il restauro. 
"Sentivo un grande freddo, dentro. E fuori, poi, non è che si stesse molto più caldi. Vissi in pieno l'inevitabile italico sconforto di chi, rientrando in Italia, è costretta a 'svegliarsi' dai sogni di gioventù. Con tutto ciò che si ha intorno (e quasi tutti coloro che ti sono intorno) che ti consigliano di 'volare più basso', di 'non volere la luna', di essere realista, di ringraziare Dio di ciò che hai. 
I miei sogni da adolescente e quelli successivi di giovane donna sembravano arrendersi alla mentalità italiana".

E tutto ciò che aveva intorno sembrava aver vinto: "La voglia di andare via, di andare lontano, di migrare, e di raggiungere il mio Billie Joe, stava infatti scemando pian piano. I pochissimi soldi che riuscivo a guadagnare tra un lavoretto e l'altro, li spendevo in piccoli viaggi. Cercavo di accontentarmi, appunto. E continuando (erano anni, ormai...) con il corso gratuito d'inglese dei Mormoni. 
Ero diventata così brava che mi chiesero persino di insegnare il livello base".

Nel 2003 i suoi amici mormoni americani la convinsero a fare domanda di ammissione alla Brigham Young University di Provo, nello Utah. "E proprio nello stesso periodo venni a conoscenza della DV lottery, la lotteria Green Card.
Decisi di partecipare: lo concepivo come una specie di 'piano di riserva' nel caso in cui non venissi accettata all'università".
E la rigidissima politica di sacrifici e di risparmio (niente viaggi, niente cene fuori, niente scarpe nuove o vestiti) riprese con maggior vigore: obiettivo, questa volta, permettersi l'iscrizione all'università americana. 
Poi due corsi, anche questi gratuiti, per sostenere il Toefl.
Ma...

"Fu una botta terribile. Alla BYU non venni ammessa. Ci contavo, lo confesso. Mi sentivo a terra. 
Ero, a terra! Sentivo su di me come non mai il peso di questa lotta solitaria, una lotta contro un destino che non mi capiva. A quel punto, però, decisi di affrontare la situazione con un po' di incoscienza: presi tutti i risparmi messi da parte per la retta universitaria e comprai un biglietto di andata e ritorno per gli Stati Uniti. 
Sarei stata là due mesi. 
Da sola. 
In un Paese dove non ero mai stata.
In America!
Al diavolo i soldi per l'Università! Avevo intenzione di vedere più che potevo! Il mio itinerario prevedeva un bel 'coast to coast' su Greyhound, sui pulman del levriero. Sarei atterrata a Newark, vicino a New York, poi sarei andata subito a Toronto, in Canada, a trovare i cugini di mia madre che non avevo mai conosciuto. Poi, finalmente, sarei volata a San Francisco.
Proprio lì dove abitava l'uomo dei miei sogni.
Non ci potevo credere!
Sarei davvero andata in California!".


E' vero: l'incoscienza aiuta i giovani (anche quelli di spirito, spero...) ma nel suo primo viaggio americano Alessia non incrociò il suo bel Billie Joe - "anche se quando ero là mi guardavo attorno continuamente, non si sa mai...

Feci un itinerario bellissimo: in Greyhound, in pullman, ho raggiunto la costa est. E passai anche dNew Orleans, città che mi attirava moltissimo...".





"Fu un viaggio pazzesco, pieno di emozioni, di fortissime sensazioni, di immagini che ad ogni miglio mi entravano nella mente e nel cuore. Conobbi un sacco di persone interessanti, alcune un po' assurde, altre davvero completamente matte.
Arrivai fino in Arizona, dove, a Sedona, mi son fatta scattare la foto qui sotto...


















E poi, corsa dopo corsa (sempre sui pullman Greyhound) fino al Pacifico, dove, anche qui, mi feci scattare una foto, felice e libera come non mai, mentre passeggiavo sulla spiaggia di Santa Cruz, in California.
Scrissi tre diari, e ogni tanto, quando oggi li rileggo, rido ancora come una matta. Pensando anche a quanto matta fossi, a fare quel viaggio da sola".

Oh, quanto aiuta, il destino, l'incoscienza dei giovani (e, speriamo, anche dei meno giovani...): sarà un caso o no, ma proprio quando tornò in Italia, Alessia si ricordò di non aver ancora inviato il modulo della lotteria Green Card: "Strano, perché nei due anni precedenti l'avevo inviata il primo giorno: mentre proprio l'anno del mio super viaggio americano, me la stavo quasi scordando". 
Si ridusse all'ultimo, e fece in tempo a spedirla "per un pelo". Nelle ultime ore utili. 

Chi ha partecipato alla Lotteria "Diversity Visa"  sa che una volta inviato il modulo, una volta aver cliccato il tasto "invio", è bene non stare a pensarci su (troppo). 
Almeno fino al 1° maggio successivo, ovvio: cioè il giorno della notifica dell'estrazione.
E infatti "un po' mi ero messa il cuore in pace: in fondo, le altre due volte che avevo partecipato non ero stata estratta... E con la gente che da tutto il mondo invia la domanda, quante chance potevo avere io?"
Mi racconta che i primi due anni, dopo aver inviato la domanda e aspettato più o meno senza pensarci il primo maggio, correva ogni giorno alla cassetta delle lettere. 
Quell'anno, invece, niente: "Ero serenamente preparata a non ricevere nulla e non correvo più verso la cassetta delle lettere per controllare".

Fino a quel 4 maggio 2006.

"Quel giorno tornai a casa dal lavoro e trovai sulla consolle dell'entrata del mio palazzo un bustone bianco gigante. 
Mi sentii paralizzata.
Con il cuore in gola mi chiesi se era per me.
E allora guardai il destinatario.
Era per me.
Col cuore in gola, allora, guardai il mittente. 
E vidi parole in inglese.
Col cuore in gola lessi e rilessi il mittente.
E poi il mio nome con il mio indirizzo.
E ancora il mittente. 
Ed era proprio QUEL mittente...".

Già: era la busta del KCC, il Kentucky Consular Center, l'ufficio del Governo americano incaricato di notificare ai fortunati l'avvenuta estrazione con i moduli da compilare.
E con l'elenco di tutti i documenti da procurarsi. 
"Sono stata estratta!
Sono stata estratta...
Dannazione".

Vorreste anche voi, o no?, avere a disposizione una macchina del tempo che ci faccia entrare nella mente di Alessia per sentire cosa pensava in quel momento, e per sentire il battito del suo cuore, in quel momento?

"Non lo dissi a nessuno.
Decisi di dirlo soltanto a mia madre. Che rimase a bocca aperta e con gli occhi interrogativi, poveretta...
Poi arrivò la notte. 
E fu una lunga, lunghissima notte. 
Rimasi ovviamente sveglia, incantata a leggere e rileggere quei fogli in inglese.
Ero immobile, mi sentivo paralizzata: dovevo fare il secondo passo, compilare quei benedetti moduli, ma ero come in trance. 
Fu una tortura.
Credo che tutti gli aspiranti emigranti si siano sentiti così, in quel momento: entusiasti, euforici. 
Ma anche impauriti, torturati dalle incognite che derivano dal lasciare la via vecchia per la nuova". 

Dobbiamo capirla, Alessia: mi sono dimenticato di dirvi che nel frattempo aveva pure trovato un lavoro.
A Savona. E come restauratrice. Il suo lavoro. 
E a tempo indeterminato ("anche se pagato una miseria"). 
E qualche mese prima si era pure iscritta per affrontare l'esame di guida turistica regionale. "Il mio piano di riserva. Non si sa mai...".
E invece, dannazione, arriva l'America.

"Ero figlia unica, avevo un gatto a carico.
Mi sentivo un'ingrata, una stronza, una senza cuore, disumana e incosciente al sol pensare di andare via, di lasciare l'Italia".

Alessia decise però almeno di tentare, di inviare lo stesso quei maledetti (benedetti?) moduli. Era stata estratta, è vero, ma in fondo mica era certo che l'avrebbe davvero ottenuta, la Green Card! (Dai, Alessia: dai, che c'è ancora speranza di restare a Savona!).

"Contemporaneamente un'altra vocina mi diceva che non potevo permettermi di buttare via quell'occasione. Che era unica, che sapevo che non mi sarebbe più ricapitata. 
E poi, porca miseria, non ero forse io, la piccola Alessia, che fin da bambina avevo messo su il 'fondo California'? 

D'altronde non ero io che ero andata, come una pioniera, ad esplorare il Nuovo Mondo a bordo di un autobus? 

Non ero io che per 10 anni, avevo frequentato i corsi organizzati dai mormoni, senza che questi, peraltro simpaticissimi e per nulla insistenti, riuscissero a convertirmi?

Eccheccavolo: in fondo sentivo che un po' mi spettava di diritto, questa Green Card!".

Mi racconta che per mesi passò notti insonni. Davvero non ricorda di aver dormito serenamente nemmeno una notte, in quel periodo.
Almeno da quel 4 maggio - il giorno del mezzo collasso nell'androne del suo condominio - al successivo 25 ottobre. 
Il giorno fissato per l'intervista a Napoli.
A Napoli ci andò con sua madre. Entrambe, mi racconta oggi divertita, non ci erano mai state e non conoscevano niente della città. Tranne ciò che si dice.

"Prendemmo quei tre giorni, per me molto stressanti, come un'occasione per fare un viaggio insieme. 
Forse l'ultimo, per un lungo periodo.
Povera mamma: visto le nostre ristrettezze economiche la costrinsi a pernottare all'ostello di Mergellina, con lei che, ovviamente, non ne era mai entrata dentro ad uno. 

Rido perché mamma sembrava la parodia di un film anni ottanta: un misto tra Fracchia e Totò in piazza del Duomo a Milano, con tanto di marsupio con i soldi che lei cercava di nascondere sotto i vestiti.
Eravamo comiche.
Durante la prima giornata, ammetto di essermi sentita veramente una migrante dei primi del '900... La cosa positiva furono le persone conosciute durante le lunghe attese tra una trafila e l'altra: tutte molto diverse, ma tutte in moderata ansia, con la speranza di uscire dal Consolato con quella pagina incollata in una pagina del passaporto".

"C'era un ragazzo di Monte di Procida, anche lui estratto, che sarebbe andato a fare il pizzaiolo da un suo zio...

C'era il ballerino romeno (con accento bresciano!) che non vedeva l'ora di vedere Broadway...

C'era un'adorabile famiglia peruviana, in Italia da 20 anni, lì per il ricongiungimento con la sorella del capofamiglia.

Credo proprio che senza mia madre, e senza quel farci coraggio a vicenda che si era instaurato fra noi aspiranti, io sarei crollata sotto il peso dell'ansia.
Faccio spesso paragoni tra me e un immigrato di inizio '900 con la valigia di cartone: e davvero mi sono sentita così al Consolato americano, e poi in quello studio medico un po' datato, con la bilancia da bagno montata con lo scotch da pacchi sulla pedana di quella medica, quando mi fecero le lastre ai polmoni per controllare gli eventuali focolai di tubercolosi, o durante l'esame del sangue.

Praticamente, visita medica, esami clinici e il successivo colloquio con il Console furono soltanto una formalità.

E alla fine, la Green Card la ottenni.
Quel 25 ottobre credo sia stato uno dei giorni più felici della mia vita. 

Dopo tutti quei mesi a tenere il segreto, a fare sacrifici, a recuperare documenti, a mettere da parte soldi e altri soldi, era tutto finito bene".

Tornata a Savona, per Alessia era venuta finalmente l'ora di gridare a tutti i suoi amici della vincita, di dire della Green Card, del suo essere stata sorteggiata alla Lotteria.
"E con mio grande dolore, non tutti la presero bene. Ricordo che appena tornata da Napoli, chiamai immediatamente la mia migliore amica. 
Ci conoscevamo dalla prima media, eravamo da sempre molto legate, conoscevo i suoi sogni e lei conosceva i miei. 
E quando io, emozionata, euforica, le gridai che avevo vinto la Green Card, lei divenne di ghiaccio e mi chiese se ero proprio sicura di volere Bush come mio Presidente. 
Poi mi disse: 'Scusa, ora devo andare. Devo riprendere a vedere il dvd con il mio fidanzato'.
Quando Barak H. Obama venne eletto Presidente degli Stati Uniti, sorridendo, per un istante, pensai a lei".

"Altri miei amici mi festeggiarono, erano contentissimi per me, anche se un po' tutti erano senza parole, attoniti, increduli. 
E tristi che me ne andassi. ma nello stesso tempo felici che davvero fossi riuscita a realizzare una cosa che desideravo da tempo.

"Molte persone mi dissero 'come sei coraggiosa': ma io non mi sono mai sentita coraggiosa: forse ero solo incosciente.
E per di più con una paura fottuta".

Ma non è coraggio, se non hai paura, cara Alessia...

Alessia aveva 6 mesi per entrare negli Stati Uniti e non voleva andarci per fare un normale viaggio turistico.
"Non mi sarebbe piaciuto tenere quella GC nel portafoglio come 'souvenir': la fortuna me l'aveva data lasciando a bocca asciutta qualcun altro. A quel punto, trasferirmi, lo sentivo come un obbligo morale. O almeno ci dovevo provare".

Poi, a volte, sembra proprio che le cose succedano una dietro l'altra. 
E che la sorte si diverta davvero ad aiutare gli audaci. 

"Capitò che nel frattempo andai a Milano per seguire un convegno sul restauro di opere artistiche. E che mi trovai al tavolo con tre colleghe americane. 
Incredibile, il destino, eh?
Decisi di farmi forza, di superare l'imbarazzo, e chiesi consiglio per la compilazione del mio curriculum vitae, sapendo che c'era un'abissale differenza con il 'resume' americano. 
Con mia assoluta sorpresa, le conversazioni con queste tre signore si conclusero con una di loro che mi diede l'indirizzo email di un suo amico restauratore che aveva studiato un Italia".

Io non so se è poi proprio vero che la fortuna aiuti gli audaci, ma so che Alessia, una volta tornata a casa, scrisse a questo sconosciuto. 
Che le rispose immediatamente. 

"Mi fece le congratulazioni per la GC e i complimenti per l'inglese, e poi, con mia grande sorpresa, mi offrì un lavoro per due mesi nel suo laboratorio".

Robe che succedono, forse, solo in America.

"Oltretutto non sapevo nemmeno bene dove fosse, il suo laboratorio. 
Ero ovviamente piena di dubbi.
Ancora".

Ecco.
Io, Alessia, l'ho conosciuta a questo punto della sua vita.
Esatto, avete letto bene.
Io e Alessia ci "conoscemmo" esattamente a questo punto della sua storia; assolutamente per caso, frequentando il sito di Italiansonline.

Dove una sconosciuta mi raccontò che faceva la restauratrice; 
e che aveva vinto la Green Card;
e che a Milano, ad un convegno, aveva conosciuto tre restauratrici americane; 
e che grazie ad una di loro aveva inviato il curriculum ad uno sconosciuto restauratore di Santa Barbara; 
e che questo ("Maledizione..."), le aveva offerto un lavoro.
Seppur solo di due mesi. 
Ma non in Italia, figuriamoci!
Ma lì, in California.

Alessia, riga dopo riga, chiedeva a me, ad uno sconosciuto, un consiglio, domandandomi cosa pensavo di tutto ciò.
E io la lasciai "parlare", raccontare... 

Ricordo che le dissi soltanto di aver l'impressione che negli Stati Uniti i restauratori italiani (per di più usciti dal prestigioso Istituto per l'Arte e il Restauro di Palazzo Spinelli, a Firenze) potessero essere assai ricercati. 
Non mi sembrava il caso di "convincerla": ricordo solo che alla fine della nostra chiacchierata le scrissi, semplicemente: "Senti, ma secondo te, il destino, cosa ti sta dicendo?"

Lei digitò semplicemente un :-) , e con quel sorriso ci salutammo.
Non ebbi poi più nessuna notizia di lei.

...

Quel che successe successivamente me lo ha raccontato qualche giorno fa, quando io e Alessia ci siamo incontrati - di nuovo per caso, di nuovo sul web - questa volta nella pagina Facebook della mia amica Renata, la "Sala da tè per expat". 
Peraltro, inizialmente, senza ricordarci assolutamente l'uno dell'altra.

"Dunque, caro Dario, non sai che partii l'8 febbraio 2007: ironia della sorte, proprio il giorno in cui avrei dovuto fare l'esame di guida turistica regionale che inseguivo da anni: il mio 'piano b'.
E invece, quel giorno, al posto di essere in un'aula di Savona,  ero su un aereo. E me la facevo sotto dalla paura".

Destinazione: Santa Barbara, California. 
Stati Uniti d'America.

"Ricordo ancora tutto, di quel giorno... 
Le lacrime prima della partenza;
il mio ripetermi che sarebbero stati solo 2 mesi;
lo sguardo di mia madre che sembrava già sapere come sarebbe andata a finire;
la mia paura di non farcela; 
il terrore di essere sola, di sentirmi sola.

Ricordo l'arrivo a Los Angeles;
la corsia doganale speciale per i nuovi immigrati; 
il fatto di essere l'unica a non aver potuto usufruire di un'interprete perché in quel momento non c'era nessuno dell'immigrazione che conosceva l'italiano;
ricordo la spietata consapevolezza che da quel momento in poi potevo contare solo sulle mie forze.

E ricordo che quando mi trovai davanti alla mia 'Golden Door', alla mia 'porta dorata', piansi (oh, quanto ho pianto...).
Lacrimavo, singhiozzavo in silenzio, come una bimba.
Mi sentivo, quasi ero tornata ad essere, la piccola Alessia".

"Mi chiedi come sto, Dario...
Sai, l'essere immigrato è uno status difficilissimo.
Ho sempre un po' invidiato chi è venuto negli Usa per frequentare una scuola, o con il compagno, o per lavorare per un'azienda italiana.
Io, niente di tutto questo.
Oltretutto credo di essere l'unica mezza siciliana a non aver uno straccio di lontano parente in tutto il continente nord americano. 
Alla fine mi sono convinta che il destino ha voluto che fossi io la prima della famiglia. Magari potrò essere io ad aiutare miei futuri parenti a trasferirsi qui...".

Alessia mi racconta che i primi due anni sono stati duri, molto duri, con gli americani che sono molto distaccati nonostante l'apparente disponibilità, nonostante l'amicizia immediata che ti dimostrano.
La sua grande fortuna è stata aver incontrato Sue, la sua prima coinquilina. "Senza di lei - mi dice - probabilmente sarei tornata in Italia".
"Sue è stata un po' la figura 'materna' di cui avevo bisogno, la mia guida in questo mondo nuovo e sconosciuto. Per esempio è stata lei ad accompagnarmi in banca per l'apertura del conto, ed è stata lei a prestarmi la macchina per l'esame della patente".
"Anche ora, a distanza di anni, anche ora che non abitiamo più sotto lo stesso tetto, ora che abitiamo a migliaia di chilometri di distanza, io considero Sue un 'punto di riferimento', un punto fermo. Ci sentiamo spesso: l'anno scorso, per Carnevale, è anche venuta a trovarmi e mi ha fatto tanto piacere visto che ha fatto 1900 miglia, più di tre mila chilometri!, per venire da me.
Erano 3 anni che non ci vedevamo".

Carnevale. 
Già, perché dopo il primo, tormentatissimo, periodo californiano Alessia si è trasferita a New Orleans.
"Questo è il luogo dove sarei voluta venire sin dall'inizio, ma 'col senno di poi' mi rendo conto che, se questa fosse stata la mia prima città, la mia carriera di emigrante sarebbe durata davvero pochissimo.
New Orleans è una città meravigliosa, ma molto complicata.
La burocrazia è peggio di quella italiana, il clima mette a dura prova e talvolta i vari razzismi sono ancora palpabili".

Poi c'è la solitudine, e l'amarezza di constatare che la lontananza allontana a sua volta coloro che pensavi fossero i veri amici, le vere amiche.

"A 26 anni, quando sono partita, credevo di essere più o meno un'adulta fatta e finita. Consideravo gli amici, allora 'di una vita', come 'amici per sempre': mai avrei immaginato che 
un oceano di mezzo e se o nove ore di fuso orario li avrebbero allontanati da me e che avrei chiacchierato a voce con loro non più di 3 volte in 7 anni. 
Perché sì, per carità, scriversi è bellissimo: ma ci sono momenti in cui si ha bisogno di sentire la voce delle persone. Perché la voce accorcia le distanze, perchè mi manca sentire dalla loro voce che le parole che pensano sono proprio rivolte a me.

Certo: poi ci si mette di mezzo anche la differenza di fuso orario, senza dubbio una delle croci più grandi. Ci sono dei giorni, i cosiddetti 'giorni no', che uscita da lavoro, dallo studio di un medico o da un appuntamento andato male, vorrei soltanto prendere il telefono e chiamare qualcuno. 
Qualcuno con cui esprimermi nella mia lingua, qualcuno che mi voglia bene davvero, che non mi trovi buffa per le cose che dico o che, peggio, non si offenda per qualche equivoco 'culturale', come qualche volta succede con gli americani.
Una voce amica, insomma.
Invece no. Perché magari in Italia in quel momento è notte fonda e non mi pare il caso di chiamare dopo le 10 di sera, un orario che in Italia è riservato alle telefonate per fatti gravi.
E allora, in quei momenti, resto lì, con un groppo in gola, sola. E con tanta rabbia. 
Mi pesa tantissimo non poter godere del lusso di chiamare qualcuno nel momento del bisogno. 
Qui in America ho dunque imparato a contare davvero solo sulle mie forze.
Certo, potrei chiamare i miei amici di qui, i miei amici americani: ma ho capito che sentiamo le cose in modo diverso. Che discutiamo in modo differente. Quante volte mi è capitato di offendere qualcuno, senza volere, ovvio, per differenze linguistiche, ma soprattutto culturali: l'americano, per esempio, in genere non ama molto le critiche degli altri, nemmeno quelle che noi riterremmo 'costruttive'. E poi l'americano non ama, non capisce, il trasporto che talvolta noi italiani usiamo nelle discussioni: quante volte mi sono sentita dire 'Oh, Alessia, too much passion!', 'Ci metti troppa passione, Alessia!'.
E allora ho imparato a smorzare i toni e ad essere meno spontanea...".

Poi torniamo a parlare della sua scelta, dei motivi che l'hanno spinta al di là dell'Oceano...
"C'è forse chi pensa che si migri verso luoghi come gli Stati Uniti per motivi diversi dal passato. Io non credo sia affatto vero.

Io, per esempio: in Italia con quello stipendio da fame che pagano ai restauratori non mi sarei mai certo potuta permettere di vivere da sola. D'altronde come si fa se si viene pagati, come oggi vengono pagati molti miei colleghi italiani, dai 3 ai 5 euro all'ora? 
Come si fa a crescere professionalmente in una categoria come quella italiana perseguitata dal nepotismo e dalle conoscenze 'che ti piazzano bene', dove se non hai queste conoscenze sei condannato a restare per anni, magari per decenni, nel circolo vizioso della collaborazione, dello stipendio 'miseria', mentre magari regali la tua manodopera e le tue doti artistiche a persone che poi le spacciano come proprie.
E solo perché sono loro ad avere gli 'agganci' giusti.

Io qui, in America, sono partita dallo stesso livello che occupavo in Italia: da zero. Ma qui, negli Stati Uniti, sono riuscita ad evolvermi come mai avrei potuto in Italia: qui sono passata da essere parte di un équipe di un laboratorio, a divenirne io, nel giro di pochi anni, supervisore di quella équipe.
Io, porca miseria.
E questo fino all'anno scorso, quando poi ho deciso di licenziarmi e di mettermi in proprio.

Non oso pensare cosa abbiano fatto in questi anni, e cosa facciano ora, le mie colleghe e i miei colleghi dell'Istituto Spinelli di Firenze...

Per carità: non tutto è 'rose e fiori', qui. Qui è difficile, è una giungla, ma con caparbietà e mostrando le proprie doti, qui si può crescere, aspirare a realizzare qualcosa di proprio.
Certo, non sono ancora arrivata ad avere un laboratorio di restauro tutto mio, come vorrei, ma io credo che fra non molto ce la farò. 
Non me ne volere, ma in Italia non vedevo nemmeno la possibilità di essere un giorno capace di essere indipendente   dalla mia famiglia".

Sono passati sette anni da quando ho conosciuto Alessia, da quando lei ha lasciato l'Italia.
Un tempo più che sufficiente, direi, per fare un (primo?) bilancio.
E lei appare sicura nelle sue considerazioni: "Guarda, nonostante le mie paure iniziali non mi pento assolutamente della scelta fatta.
Ho imparato tanto, sono cresciuta tantissimo. Quanto sono cresciuta, mamma mia... Certo, ho fatto anche mille mestieri, in questi anni: l'insegnante di italiano, la cassiera di supermercato, perfino la commessa in un negozio 'voodoo'... Ma continuando sempre a lavorare in un laboratorio di restauro.
Che adesso è il mio unico lavoro".

Mi racconta che in questi anni ha scoperto lati di lei che non conosceva: come scoprire di avere nostalgia dell'Italia: "E sì, ciclicamente la malinconia per il nostro Paese , così come mi assale quando meno me l'aspetto quella gli affetti che ho in Italia. 
Mi spiace, poi, (e tanto) che i miei non siano mai venuti a trovarmi, qui. Decisamente il cromosoma migratorio non l'ho preso da loro!  
Sì, certo: ogni tanto torno in Italia... Ma se tornare è bellissimo, ripartire è davvero un po' morire. Mi sono trovata a parlarne tante volte con le persone che sono espatriate e ho capito che è una sensazione comune a tutti: ogni volta è sempre più difficile. Ed è sempre più straziante.

L'ultima volta, per esempio: le lacrime hanno inizato a scorrere un paio di giorni prima della partenza. I motivi, tanti e sempre gli stessi. Primo fra tutti il non sapere quando (e se...) si potranno rivedere i propri cari. Non so se la prossima volta, per esempio, ci sarà ancora nonna Ottavia, la donna che mi ha cresciuta e che ormai mi godo se va bene una volta l'anno... Questo mi lacera.

E poi ci sono cose semplici, ricordi atavici che ci portiamo dentro e che riemergono prepotenti solo quando siamo lontani, come il desiderio di mangiare quotidianamente il cibo della propria terra.
O semplicemente vedere la luna che si riflette sul proprio mare.
Quello di Savona.
Che non sarà certo quello californiano, però...

... Però è il 'mio' mare. 
Il mare di quand'ero bambina".

"Bada bene, Dario: nonostante tutto non passa però giorno in cui io non benedica quella busta bianca che ho ricevuto quel 4 maggio di otto anni fa.
Sono certa che in questa storia, i 'pro' pesino certamente più dei 'contro'. 
Così come sono cosciente che vincere la Green Card sia stato il giorno che ha cambiato in meglio la mia vita". 

"Ed infatti son passati cinque anni.
E sono ancora qui".

Cari amici, il racconto della storia di Alessia è finito.

E termina, in fondo, con questa foto del 1° novembre 2012...



Quando Alessia (la piccola Alessia del "fondo California", quella innamorata del cantante dei Green Day, ricordate?) restituisce la sua Green Card, quella vinta per sorteggio. 


Perché quel quel giorno Alessia è diventata cittadina americana.
E il suo sorriso (e i suoi occhi lucidi) raccontano bene la sua emozione.

Sì, certo, cara Alessia: quell'8 febbraio del 2007, quando sei partita dall'Italia, te la sarai anche fatta sotto dalla paura.
Ma stai certa che nello stesso tempo ignoravi quanto tu fossi piena di coraggio.

Perché non è coraggio, se non hai paura...



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