PERSONE CHE HANNO LETTO O CURIOSATO

mercoledì 22 febbraio 2012

Stati Uniti: "Il Crogiolo di tutte le razze"...

New York, Manhattan
"L'America è il crogiolo di Dio, la grande pentola in cui tutte le razze d'Europa si fondono e si riformano! Quando vi vedo, immigrati, qui ad Ellis Island, voi brava gente con i vostri cinquanta gruppi dalle cinquanta storie e dai cinquanta linguaggi diversi, con i vostri odi e le vostre rivalità di sangue, dico: non rimarrete a lungo così, fratelli, perché questo è il fuoco di Dio che arde nel Crogiolo che vi contiene tutti!
Dio sta forgiando l'americano... La vera razza America non è ancora arrivata. Questo è solo il Crogiolo che fonderà tutte le razze".
Così scriveva 104 anni fa, nel 1908, lo scrittore americano Israel Zangwill nella sua "piece" teatrale che esaltava - con una buona dose di retorica, impossibile non ammetterlo - il ribollire del "calderone", del "crogiolo americano"


E questa è forse, davvero, la prima cosa che un italiano nota non appena sceso dall'aereo, soprattutto quando arriva negli Usa la prima volta. 
Ed è una cosa che, sinceramente, non smette mai di stupire nemmeno me, che pur, ormai, dovrei esserne abituato... Un insieme di realtà che, alla lunga - ma anche da sùbito - manca al ritorno in Italia: quelle "differenze", quei colori diversi della pelle, quelle genti che vivono tutto sommato pacificamente e che sono arrivate (loro o i loro genitori, o i loro nonni, o i loro antenati) dai luoghi più disparati della Terra.
Arrivavano dopo giorni e giorni di viaggio, in nave, così come oggi arrivano in aereo turisti e non. A quel tempo, fino al momento della sua chiusura, nel 1954, l'attesa veniva premiata all'improvviso: e quando la vedevano significava che le peregrinazioni erano finalmente davvero finite...




Oggi, pochi fra coloro che atterrano al Jfk, con la fretta di uscire e di tuffarsi immediatamente nella vita degli Stati Uniti, notano la lapide che all'aeroporto di New York riproduce la poesia del 1883  della poetessa americana di origine portoghese e di religione ebraica Emma Lazarus, posta alla base della Statua della Libertà...


“Tenetevi i vostri antichi Paesi 
con la vostra storia fastosa.
Datemi le vostre masse stanche,
povere,
oppresse,
desiderose di respirare libere,
miserabili rifiuti dei vostri lidi affollati.
Mandateli a me
i diseredati,
gli infelici, 
i disperati:
Io
alzo la mia lampada 
accanto alla porta dorata”.
Proprio un sognatore non è stato, Israel Zangwill: gli Stati Uniti oggi sono davvero un crogiolo, un incrocio di culture, di tratti somatici, di genti provenienti (ancora) da tutti gli angoli del mondo.
Basta pensare che i 2750 morti delle Torri Gemelle erano di ben 87 nazionalità differenti...
New York
Può succedere - ne ho parlato tanto con persone giunte negli States la prima volta - che almeno nei primi momenti di fronte a tanta "diversità" ci si possa sentire quasi "intimoriti". Un timore irrazionale che si trasformerà poi in curiosità e poi in assoluta normalità. 
E sono forse proprio queste "differenze" a farci sentire, una volta giunti qui negli States, un po' al centro del mondo. 
All'inizio, dal 1500, in questa parte del continente americano arrivarono gli inglesi, ovviamente. Poi i tedeschi, gli olandesi, gli irlandesi. Ai quali, nei secoli, si unirono - a milioni - italiani, greci armeni, cinesi, polacchi, rumeni, indiani, russi, bengalesi, coreani, vietnamiti, africani, arabi, messicani, sudamericani. Tutte popolazioni, culture, che costrinsero (e costringono) gli Stati Uniti a cambiare costantemente.
New York





Cento anni fa il 90% degli abitanti degli Usa era formato da "bianchi non ispanici", insomma di origine europea. Nel 1990 la percentuale era scesa al 75%. Una conferma di come il "melting pop" americano si sia modificato con gli anni, arriva dall'elaborazione dei vari censimenti. Interessante è osservare cosa è accaduto ai cognomi più diffusi negli Stati Uniti: nel censimento 2000, per la prima volta nella storia americana, fra i primi dieci posti nella classifica entrarono due cognomi "ispanici": Garcia e Rodriguez, passati rispettivamente dalla 18a e dalla 22a posizione del 1990, all'ottava e alla nona.
La prima posizione era però ancora saldamente in mano ai signori e alle signore Smith. Con buona pace dei razzisti del Ku Klux Klan, i dati del censimento 2000 rivelavano che il 75% degli americani che si chiamano Jefferson e il 90% dei signori Washington (cognomi dei due Padri della patria, fondatori nel 1776 degli Stati Uniti d'America) oggi sono afro-americani.

Tante "etnie", e tante religioni.
Amish a Bird in Hand (Uccello in mano), Pennsylvania.
(La cittadina si chiama proprio così!)
Secondo dati pubblicati dal New York Times desunti dal  Censimento 2000, il 57,9% degli americani è di religione cristiano-protestante: che negli Usa significano ben 36 confessioni differenti! 
Il 21% è cattolico romano, l'8,7% è "ateo-agnostico", l'8,4% si riconosce nel variegato mondo americano delle "altre religioni", il 2,1% è di religione ebraica, mentre l'1,9% è di religione musulmana.
New York, Manhattan
            Moschea e Centro Islamico
La presenza di tante confessioni religiose, non smette mai di stupire il viaggiatore italiano negli Stati Uniti. 
Anche in questo caso, tutto è nato dalla Costituzione Americana, anzi, da Primo Emendamento della Costituzione Usa: "Il Congresso non potrà porre in essere leggi per il riconoscimento ufficiale di una qualsiasi religione, o per proibirne il culto; o per limitare a libertà di parola o di stampa; o il diritto dei cittadini di riunirsi in forma pacifica e d'inoltrare petizioni al governo per la riparazione di ingiustizie".
Correva l'anno 1789, 159 anni prima della nostra Costituzione repubblicana.

D'altronde era logico: è noto che i primi coloni europei arrivati nel Nuovo Mondo erano (anche e soprattutto) sospinti dal desiderio di trovare un luogo dove poter vivere una assoluta, totale, libertà di religione senza alcuna interferenza.
New York, Manhattan. Tempio Buddista
E oggi, infatti, il Congresso americano - il parlamento Usa - a parte quattro casi di parlamentari che si sono dichiarati "laici" o "atei", conta deputati e senatori di ben 24 confessioni religiose differenti. Anzi, 25, visto che nel 2006 fece il suo ingresso al Congresso Keith Ellison, avvocato afro-americano primo parlamentare Usa di religione islamica, qui con il Presidente Barak H. Obama.

Gli Stati Uniti sono destinati a divenire sempre più una nazione multirazziale. Lo dimostra un rapporto pubblicato qualche giorno fa da un istituto specializzato, il Pew Research Center, secondo il quale la percentuale dei matrimoni costituita da coppie "interrazziali" nel 2010 era del 15%, un dato doppio rispetto al 1980.  
San Francisco, California




Tra coloro che si sono sposati nel 2010, il 9% di bianchi, il 17% degli afroamericani, il 26% degli ispanici e il 28% degli americani di origine asiatica si è unito in matrimonio con un coniuge di una etnia differente dalla propria.
Taos Pueblo, New Mexico
L'America cambia, e con lei cambiano anche gli americani: oggi il 43% di loro considera l'aumento dei matrimoni interrazziali "un fattore positivo per la società", mentre solo il 10% ritiene questa tendenza "negativa".

New Orleans, Louisiana

"Io ballo da sola", il trombone e... la bionda :-)


E se si tiene conto che fino al 1967, in 16 Stati degli Usa i matrimoni fra persone di razze diverse erano impossibili, anzi, "illegali" non è certamente un dato di poco conto... 




© dario celli. Tutti i diritti sono riservati

lunedì 20 febbraio 2012

giovedì 16 febbraio 2012

"Freedom, oh freedom..." (2). L'America del patriottismo (e delle libertà)

L'America era ancora spaventata, stordita.
Le macerie delle Torri Gemelle fumavano ancora, e dal giorno del più disastroso e sorprendente attentato mai avvenuto in territorio americano era passato soltanto un mese.


Mentre il Governo Bush annaspava ancora cercando di capire come tutto poteva essere accaduto, all'allora ministro dell'Istruzione Pubblica Rod Paige venne in mente intanto di istituire (anzi, in realtà di rilanciare) in tutte le scuole americane - dalle elementari alle superiori - la "cerimonia di giuramento di fedeltà alla bandiera". Si trattava, infatti, di una tradizione nata il 12 ottobre 1892, paradossalmente da una operazione pubblicitaria adottata da un giornale per bambini, che regalava un vessillo in ogni copia. 
Il ministro Paige, decise dunque che la sua operazione promozionale (della quale però gli Usa umiliati avevano proprio bisogno) dovesse partire proprio dal 12 ottobre 2001. In quel giorno, infatti, 52 milioni di bambini e ragazzi  recitarono all'unisono, nello stesso istante, dalle Hawaii al Maine, dalla Florida all'Alaska, il "Pledge of Allegiance", la "dichiarazione di lealtà" alla bandiera. 
Una cerimonia non obbligatoria e dunque solo volontaria, stabilì la Corte Suprema nel 1943, durante la quale gli studenti giurano "fedeltà alla bandiera degli Stati Uniti d'America e alla Repubblica che essa rappresenta: una nazione al cospetto di Dio, indivisibile, con libertà e giustizia per tutti".
A mettere in crisi il clima didattico/patriottico ci pensò, due anni dopo, una studentessa poco più che ventenne, Toni Smith, che frequentava l'ultimo anno di Sociologia al Manhattanville College di New York. Capitano della squadra scolastica di basket, lei, all'inizio di ogni partita - proprio al momento della diffusione dell'inno nazionale - decise, per protesta, di voltare le spalle alla bandiera.












Una iniziativa, la sua, che attirò al Manhattanville College di New York giornalisti e troupe televisive da tutti gli States. Aveva le idee chiare, Toni: per nulla intimorita, a tutti rispose più o meno sempre così: "Lo faccio proprio per patriottismo. La corsa alla guerra dell'amministrazione Bush rovinerà l'America, credetemi". Ci aveva visto lungo, la ragazza che, ricordo, quando provocò quel casino aveva vent'anni...

Su di lei si scatenarono polemiche infinite, con minacce di provvedimenti disciplinari (mai adottati, però). Contemporaneamente ci fu chi manifestò a suo favore inneggiando alla "libertà di opinione" garantita dal Primo Emendamento della Costituzione Americana...

La storia di Toni Smith, mi ha fatto tornare in mente quella di un'altra giovane, Natalie Young, alunna alla MS210, scuola superiore del Queens, New York.

Lei, 14 anni, lesbica, salì alla ribalta della cronaca perché un giorno del 2002 si presentò in classe indossando una maglietta nera con la scritta rosa che diceva "Barbie è lesbica".
Questa:
Possiamo facilmente immaginare tutto lo scenario possibile di un avvenimento del genere in Italia: l'intervento furioso del preside; 
il provvedimento disciplinare; 
gli articoli sui giornali; 
gli ammonimenti della Chiesa e il pontificare di pedagoghi dagli schermi televisivi, unitamente agli inevitabili interventi di qualche politico che, con sguardo severo, avrebbe stigmatizzato la decadenza dei costumi, della televisione e il mancato ruolo educativo di famiglia e scuola.
Infine, la richiesta di qualche parte politica di dimissioni del ministro unitamente a quelle del Governo  che avrebbero preceduto salutari elezioni anticipate...

In questo caso, davvero "tutto il mondo è paese": e infatti la nostra Toni venne effettivamente convocata dalla sua Preside non appena la notizia giunse all'orecchio di quest'ultima, che altrettanto subitamente decise di sospenderla dalle lezioni.
Ah! Possiamo anche immaginare quale sarebbe stata la fine della vicenda in Italia: la ragazza intervistata da "Porta a Porta"  durante la quale avrebbe chiesto - magari proprio di fronte al ministro - scusa alle istituzioni scolastiche.

Beh, se seguite con encomiabile costanza queste pagine immaginerete che la vicenda, negli Usa, non si concluse esattamente in questo modo.

La scuola la sospese? E lei, Natalie Young, rispose con una bella azione legale, dalla quale il liceo MS210 ne uscì con le ossa rotte.

Poco tempo dopo, un giudice del Tribunale di  New York riconobbe infatti che con il loro provvedimento disciplinare, preside ed insegnanti della scuola violarono il “diritto di espressione” della giovane cittadina Natalie Young,  diritto autorevolmente tutelato sempre dal Primo emendamento della Costituzione americana. 

Il Tribunale, dunque, censurò il comportamento della presidenza imponendo alla scuola di pagare alla ragazza un risarcimento di 30 mila dollari. 

La Corte fece poi sue le richieste dell’avvocato di Natalie, Ronald L. Kuby - uno dei più noti legali americani in fatto di difesa dei diritti civili - stabilendo che insegnanti e  personale amministrativo delle scuole dello Stato di New York avrebbero dovuto obbligatoriamente seguire da quel momento appositi e periodici corsi di aggiornamento didattico per essere in grado di affrontare adeguatamente il rapporto con i propri alunni/e gay o lesbiche.

La sentenza riconobbe contemporaneamente il diritto di qualunque studente di New York ad indossare liberamente magliette, distintivi, bandane e pins vari con slogan che esprimessero preferenze “ideologiche” personali. 

Unica restrizione: inneggiare o esprimere simpatia per Osama Bin Laden e Hitler...

© dario celli Tutti i diritti sono riservati



domenica 12 febbraio 2012

"Stars & Stripes": quel che non riusciremo mai a capire veramente dell'America (fin quando non ci vivremo, mi sa...)

Le bandiere americane...
E' un'altra di quelle cose che si notano subito arrivando (e non solo la prima volta) negli Stati Uniti. Si vedono, sonodappertutto. Le vedremo non appena arrivati, in aeroporto. O nelle stazioni dei treni...
Grand Central Station, Manhattan, Ny
Magari le vedremo, immense, stese su un muro di qualche edificio...
New York, Wall st.
              New York Stock Exchange
O lungo le strade della sterminata provincia americana, nelle aree di sosta, su altissimi pennoni che svettano come fari...
o nelle aiuole "Memorial" di qualche minuscolo paesino, che così ricorda le vittime di guerra, con una bandierina per ogni soldato americano morto, in Afghanistan o in Iraq...
E ancora nelle città, ai pennoni dei palazzi, pubblici o privati che siano...
E ai giardini pubblici o all’ingresso dei parchi nazionali, o anche solo all'esterno di un ristorante che si incrocia lungo la strada...
Saranno lì, accanto alle porte di ingresso delle case dei centri di provincia...




























O la vedremo portata a "bandana", come la indossava questo signore che ho fotografato a New York; evidentemente (anche) sostenitore del Presiden Barak H. Obama.

Inizialmente - è successo anche a me - percepirete questa orgia di stelle e strisce, questa costante presenza di blu, rosso e bianco, semplicemente come una nota di colore e niente più. Poi penserete che è una specie di sostegno psicologico, di  incoraggiamento collettivo, una sorta di costante cerimonia riparatrice dopo la “profanazione” dell’11 settembre. 
Ma in realtà la tragedia delle Torri Gemelle non ha fatto altro che rafforzare l’amore nei confronti della bandiera, sentimento che fa parte del dna degli americani e che "unisce", compatta, uomini e donne di ogni razza giunti da ogni dove, e così i loro figli, e i figli dei loro figli. 
Fra i mille stimoli che si ricevono nel corso di una vacanza americana, considereremo poi il tutto una semplice manifestazione di orgoglio nazionale diventata negli anni "moda", e osserveremo questo tripudio di “stars and stripes” con atteggiamento sorridente, quasi di simpatia folkloristica.  


Ma con il passar dei giorni si insinuerà un tarlo: no, tutto troppo semplice, c’è qualcosa che non va in questo ragionamento.


D’altronde per noi - che tiriamo fuori il tricolore (semmai lo facciamo) solo in occasione dei campionati mondiali, o come è accaduto nel corso delle celebrazioni dei 150 anni della bandiera italiana - è assai diverso:  fatta eccezione per il lontano periodo del Risorgimento, la nostra bandiera, nella sua storia, è stata spesso legata ai conservatori se non ai nostalgici, che si consegnavano la patente di “veri patrioti” sfilando orgogliosamente con la bandiera "bianca-rossa-e verde". Tricolore che spesso si contrapponeva alla bandiera rossa innalzata dai ribelli, dalla sinistra progressista, dai riformatori; da parte dei quali per decenni c’è stato una specie di imbarazzo a considerare completamente loro “la bandiera dei tre colori”.

New York, Brooklyn, Little Italy


E che dire, poi, del nostro atteggiamento nei confronti della bandiera americana, a volte odiata, vituperata, trascinata a terra o bruciata durante le manifestazioni in Italia (e in mezzo mondo) contro le sciagurate guerre del Vietnam, dell'Afghanistan o, più recentemente, dell’Iraq…  
Arrivare negli Stati Uniti con questo bagaglio di condizionamenti, più o meno inconsci, è insomma quasi inevitabile. 
Ma l’America sarà sempre lì a sconvolgere le nostre certezze e metterci in crisi. 

Come quando vedremo la vettura di un afroamericano - i cui nonni dei suoi genitori erano sicuramente schiavi in catene - con una piccola "Old Glory" (“Vecchia Gloria”, come viene affettuosamente chiamata dagli americani la bandiera “stelle e strisce”) legata all’antenna. O quando noteremo la bandiera Usa sventolare con orgoglio questa volta nei territori autonomi dei nativi Sioux, Navajo, o Hopi - magari anche con l'immagine di "Cavallo Pazzo" sovrapposta - nativi che proprio in nome di quella bandiera due secoli fa furono sterminati e le cui terre furono occupate. 

                                                         Arizona, Havasupai Indian Reservation








O come quando la vedremo legata all'antenna della Harley-Davidson di un inguaribile hippy che incontreremo lungo una Highway, magari mentre ha uno spinello (illegale) fra le labbra.
  Sulle strade della Pennsylvania
Ma è il continuare ragionare con la mentalità “italiana” a mandarci fuori strada, negli Stati Uniti. Quando poi ci renderemo conto che qui, nella bandiera americana, da sempre, si identificano sia gli americani “wasp” (“Wite Anglo-Saxon Protestant”, bianco di discendenza anglosassone e di religione protestante), che gli immigrati; sia i poveri che i ricchi; sia  i militari che i pacifisti, avremo la conferma che evidentemente qualcosa nel nostro ragionamento non funziona. 
Saremo ancor più sbalorditi quando a New York assisteremo alla prima manifestazione del movimento "Occupy Wall St." e "Siamo il 99%" e vedremo accanto alle bandiere rosse e ai pugni chiusi (negli Usa!)...

New York, manifestazione "Occupy Wall Street"

















... sfilare orgogliosamente qualcuno con la bandiera "stelle e strisce".

New York, manifestazione "Occupy Wall Street"



E la nostra perplessità diventerà incredulità quando verremo a sapere che negli Stati Uniti la bandiera nazionale tanto è rispettata e venerata, quanto la Costituzione americana ne difende la libertà di vituperarla, oltraggiandola o bruciandola. 

Avete capito bene: se in Italia chi brucia una bandiera americana può, teoricamente, essere denunciato e processato, negli Stati Uniti il deturpare, scarabocchiare, financo bruciare la bandiera nazionale è riconosciuto come un diritto alla libera espressione garantito dal Primo Emendamento della Costituzione.
Non che questo sia stato completamente digerito dai conservatori americani - alcuni dei quali vedrebbero volentieri friggere sulla sedia elettrica chi si rende protagonista di questo atto -: ogni tanto, infatti, qualche deputato o senatore Usa tenta di introdurre nel codice penale americano questo reato. Tentativo, finora, andato sempre a vuoto grazie alle sentenze della Corte Suprema Federale e alle votazioni del Parlamento americano.
Anche fra le lacrime (nel senso letterale) dei parlamentari americani più conservatori, molti dei quali si sono trovati a votare contro i provvedimenti di legge che andavano in questo senso. Come il senatore del West Virginia Robert Byrd, che anni fa - fra le lacrime, appunto - di fronte ad una proposta di legge che voleva introdurre negli Usa il reato di "dissacrazione della bandiera" disse piangendo al momento della sua dichiarazione di voto contrario "Amare la nostra bandiera va bene, ma ancor più dobbiamo amare la nostra Costituzione".

California, manifestazione "Occupy Oakland" 

D'altronde, in questo senso, si è finora pronunciata numerose volte la Corte Suprema americana, che in una delle sue sentenze su questo argomento affermava: "Se c'è un principio fondante che ispira il Primo Emendamento è che il Governo non può proibire l'espressione di un'idea solo perché la società trova quell'idea offensiva o sgradevole".
Niente male, eh?

Così come per l'inno nazionale. 
La prima volta che mi trovai ad ascoltarlo dal vivo fu inaspettatamente ad un rodeo, nell'arena di Cody, in Wyoming; la città di William Cody, appunto, il cui nome d'arte - quando smessi i panni di militare si mise a fare altro - era Buffalo Bill. Quando dunque tutto stava per iniziare, le luci vennero spente, con gli altoparlanti che iniziarono a diffondere la voce di John Waine che leggeva la "Preghiera del cow boy". 
E già quello mi sembrò incredibile facendomi non poco sorridere. 
Rimasi ancor più di stucco quando alla riaccensione delle luci, nell'aria si diffuse "The star spangled banner", "La bandiera adornata di stelle", l'inno degli Stati Uniti d'America: con gli occhi sgranati io e i miei amici vedemmo le persone intorno a noi alzarsi in piedi e cantarlo, e non pochi con la mano destra sul cuore. 
Tutti: bianchi, afroamericani, asiatici, nativi americani. Tutti: sia chi aveva l'aspetto di essere un agiato impiegato, sia chi aveva tutta l'aria di lavorare sodo per arrivare a fine mese, chi era giovane, chi era più o meno anziano. Uomini e donne. 
Rimasi interdetto, stupito, emozionato. Perché davvero, io, non mi ero mai trovato dentro a qualcosa di simile. Ed eccola ancora lì, l’America, sempre pronta a sconvolgere le mie certezze e mettermi in crisi. 

Con l'inno americano viene aperta ogni manifestazione pubblica americana. Anche quelle sportive, per esempio. E spesso, in queste occasioni, c'è una persona che "guida" il pubblico al microfono, dal centro del campo. E spesso questa persona rappresenta un'associazione del posto, o un gruppo di volontari, o una scuola, o lavoratori di una fabbrica e così via.
Così come avvenne al Fenway Park di Boston, nello stadio dei "Red Sox", all'apertura di un incontro di baseball. Quel giorno (era il 2 luglio 2007) a cantare l'inno fu una persona affetta da autismo.
Che ad un certo punto inciampa, si emoziona e poi si perde. Con la gente, il pubblico, che allora...



© dario celli

mercoledì 8 febbraio 2012

Clint Eastwood, Barak Obama e gli spot del Super Bowl (visti da 111 milioni di americani...)

E' l'evento (sportivo) americano dell'anno.
Altro che finale della Champions League: in quel giorno praticamente tutti gli Stati Uniti si fermano, con centinaia di milioni di persone paralizzate davanti ai televisori e le strade deserte.
Non è una esagerazione: l'altro ieri a guardare la finale di football americano c'erano qualcosa come 111 milioni e 300 mila persone, superando i dati dell'anno scorso.


Facile, dunque, immaginare anche il giro di denaro che ruota intorno agli investimenti pubblicitari decisi annualmente per l'occasione: uno spot da 30 secondi costa, infatti, dai 3 milioni e mezzo ai 4 milioni di dollari.


La fanno da padrona gli spot delle automobili: come quello intimista e vagamente introspettivo realizzato da Clint Eastwood 
per la Chrysler , del quale si è parlato molto.


"It's halftime in America", "L'America è a metà partita", dice la voce roca di Clint in pieno stile "Callaghan" nell'intervallo dell'incontro: e molti (avranno ragione?) hanno interpretato lo spot del regista premio Oscar - che peraltro non ha mai nascosto, in passato, le sue simpatie repubblicane - come una dichiarazione di appoggio al Presidente Barak H. Obama, arrivato ormai a metà mandato.


"Siamo a metà partita. Le due squadre sono chiuse nello spogliatoio a discutere cosa possono fare per vincere, alla fine.
E' la fine del primo tempo anche per America.
La gente non ha lavoro e soffre. E si stanno tutti chiedendo che cosa si può fare per riprendersi. 
E tutti siamo spaventati: perché questo non è un gioco. 
La gente di Detroit ne sa qualcosa. 
Aveva perso quasi tutto. 
Ma ci siamo rimessi al lavoro insieme, e adesso 'Motor City' è tornata a combattere ancora una volta. 
Ho visto un sacco di tempi difficili e un sacco di rovesci nella mia vita. A volte sembra che abbiamo perso la nostra anima; la nebbia della divisione, della discordia e delle accuse rendono difficile vedere cosa abbiamo davanti. 
Ma dopo queste tribolazioni siamo sempre ripartiti da ciò che è giusto rimanendo uniti, insieme.
Quello che importa è come andremo avanti, come possiamo rimanere uniti per vincere.
Detroit ci sta dimostrando che si può fare, perché quello che vale per le squadre, vale anche per tutti noi.
Questo Paese non può essere messo al tappeto con un pugno. Si rialza subito.
E quando lo faremo, il mondo sentirà il rombo dei nostri motori.
Sì, questa è la fine del primo tempo, America! 
Il secondo tempo, sta per cominciare...".


"Appoggio a Obama? Il contenuto politico del nostro messaggio è 'zero' - hanno tagliato corto alla Chrysler -. Il nostro è un messaggio universale e neutrale rivolto a tutti".
Sarà... 
Ma pare proprio che questo spot di Clint - costato qualcosa come 14 milioni di dollarii repubblicani non l'abbiano proprio digerito. 
Anche perché l'inizio del testo (scritto dal copy a quattro mani con Marchionne?) richiama vagamente lo slogan elettorale che il Presidente Ronald Reagan utilizzò per la sua rielezione del 1984. "E' una nuova alba per gli Stati Uniti", diceva, frase con la quale Reagan concluse anche il suo testamento spirituale quando annunciò agli americani di essere malato di Alzheimer. 


Negli intervalli del Super Bowl, molti sono stati gli spot pubblicitari di automobili. Non meno belli.
Ecco quello della nuova Hyundai, girato nello stabilimento di Montgomery, in Alabama. 

Per tornare alle auto, ecco quello del nuovo Maggiolino...

Ma ci sono stati, ovvio, anche spot non "automobilistici": questo lo trovo esilarante... 


Notevole lo spot che annuncia l'apertura, la prossima estate, del nuovo parco "a tema" della Universal, a Hollywood: 


Carino questo del "Vampire Party" dell'Audi:


Infine quello nuova Fiat 500 Abarth, con l'attrice romena Catrinel Marlon che nello spot americano parla così come sentite, in italiano.

domenica 5 febbraio 2012

L'ex poliziotto che fa il fotografo, Roberto Saviano, Gaetano Salvemini e Giuseppe Garibaldi...

Succede che io, ogni tanto, dia uno sguardo al New York Times. (Per guardare "le figure", ovvio...).
Così due giorni fa, leggendo il quotidiano di New York ho scoperto una storia che mi ha fatto pensare.
E' la storia di un poliziotto.

Si chiama Antonio Bolfo. 

30 anni, è nato da genitori immigrati a New York: il padre dall'Italia, la madre dalla Corea...
L'agente scelto Antonio Bolfo ha lavorato nelle zone più difficili di New York: come la Police Service Area n.7, un gruppo di vie nella parte sud del Bronx.
Una scelta "di vita" la sua, assunta dopo aver capito che il lavoro  di design e architetto trovato dopo la laurea conseguita alla "Rhode Island School of Design", alla lunga non lo rendeva soddisfatto. "Volevo fare 'esperienza di strada' - ha raccontato -; fare qualcosa che potesse essere utile agli altri". 
E per far questo, cosa c'è di meglio del fare il poliziotto a New York?

E' proprio durante il suo lavoro fra "le peggio" case popolari del Bronx, che un giorno decide di prendere in mano anche la sua macchina fotografica per immortalare momenti di vita del policeman di New York.
Foto che piacciono: non solo ai colleghi, ma agli amici, e anche ai suoi ex compagni di corso. Ma soprattutto ai suoi ex insegnanti, che lo segnalano a qualche gallerista della Grande Mela.


E' così, con il passar del tempo, Antonio capisce che nella sua vita può fare (anche, o di nuovo) altro: si licenzia dalla Polizia e decide di fare della fotografia il suo lavoro.
Eccolo mentre posa (sembra assai divertito) davanti alla sua prima collezione esposta: la vita quotidiana degli agenti del Nypd - poliziotti di New York - ma "vista da dentro", in diretta. 
Un lavoro - il titolo è "Operation Impact" - recensito due giorni fa, appunto, dal New York Times in questo link http://lens.blogs.nytimes.com/2012/02/03/on-the-beat-with-a-gun-and-a-camera/ 
Nel suo sito, però, potete vedere tutte le sue (bellissime, devo dire, alcune particolarmente crude) fotografie. 














La storia di Antonio Bolfo - prima design, poi poliziotto e ora, a 30 anni, fotografo professionista assai quotato - lascerebbe sbalordito ogni suo coetaneo italiano, se solo in Italia si conoscesse.


Ma negli Stati Uniti non stupisce certamente: è la "mobilità" lavorativa made in Usa, è l'opportunità che questo Paese ti dà per reinventarti, per rimetterti in gioco.

E' il concetto al quale, credo, facesse riferimento il nostro Presidente del Consiglio Mario Monti quando nei giorni scorsi parlò a Matrix di "monotonia del lavoro fisso", affermando, forse un po' incautamente, che "è bello cambiare e accettare delle sfide".
Negli Stati Uniti, caro Monti: ma nell'Italia di oggi, "flessibilità"  significa solo precariato e sfruttamento...

So che può sembrare strano, ma negli Usa, invece, perdere un posto di lavoro è considerata davvero una opportunità. Nei miei racconti di questa estate riferivo della moglie americana di un amico italiano che, manager, si era licenziata da viceresponsabile dell'ufficio del personale di una azienda per fare - "finalmente!", mi disse - quello che era sempre stato il suo sogno: la truccatrice.
"Di bellezza" quasi ogni giorno in un hotel di lusso e "di scena" ogni tanto sui set cinematografici (molto meglio pagata...). 

Il concetto di "mobilità americana" lo racconta benissimo Mario Calabresi, attuale direttore de La Stampa, nel suo libro "La fortuna non esiste", frutto delle interviste da lui raccolte quando era corrispondente da Washington per La Repubblica.
Come la storia degli operai della General Motors qualche anno fa vittime della crisi del "dopo Bush" e licenziati su due piedi.
E' chiaro che perdere il lavoro è un trauma anche negli Stati Uniti, ma qui molti sanno trasformare il "trauma" del licenziamento in - appunto - "opportunità".
Proprio "grazie" infatti alla perdita del posto di lavoro in fabbrica, ognuno di loro ha potuto - "finalmente!" - raggiungere il sogno della propria vita: con la liquidazione e il sussidio di disoccupazione c'è chi si è iscritto ad un corso per diventare cuoco, chi per fare l'infermiere, chi è diventato agricoltore biologico e chi, appunto, ha fatto il corso per entrare in Polizia.

Proprio come era Antonio Bolfo prima di fare il fotografo e vivere di fotografia.

L'ex poliziotto Antonio Bolfo è il fotografo che ha seguito per alcuni giorni Roberto Saviano - che ha abitato sei mesi nella Grande Mela per insegnare alla Columbia University -  immortalando suoi momenti di vita finalmente "normale".
Sue sono le fotografie che hanno accompagnato l'articolo di Saviano dove l'autore di "Gomorra" racconta questo periodo sul settimanale "Vanity Fair".

"Sorrido come un bambino - ha scritto Saviano nel reportage pubblicato sul numero del 18 gennaio -. Sono un animale che per tanto tempo dalla sua gabbia, attraverso le sbarre, ha visto il cielo, gli alberi, e se n'è stato lì pensando che fosse inutile voler volare. Che volare non serviva a nulla". 

"Il giorno dopo il mio arrivo, sotto l'effetto del jet lag, sono uscito alle sette del mattino, ma in realtà già fremevo dalle cinque. In strada non c'era nessuno, solo io e la mia scorta. Senza parlare abbiamo camminato per cinque ore. Ho bevuto un cappuccino e ci ho inzuppato dentro un muffin, ho comprato una cartina di Manhattan e, in quella sola mattinata, sono certo di aver camminato come non avevo mai fatto". 
(foto Vanity Fair)
"Sono tornato a casa con le piaghe ai piedi, mi facevano male da morire, ma quel dolore che non credevo esistesse più mi rendeva euforico. Avevo la sensazione di essere tornato a vivere completamente, di aver riacquistato l'uso di arti sopiti da tempo. Per la prima volta ho iniziato a vedere le scarpe consumarsi, e ai piedi mi sono venute le vesciche".

Ecco.
Questa è anche New York.
"Del resto New York è sempre stata il Refugium Peccatorum dei fuoriusciti, degli esiliati", scrisse Oriana Fallaci nel suo ultimo libro.
La New York dove il secolo scorso trovarono rifugio gli antifascisti Girolamo Valenti, Carlo Tresca, Arturo Giovannitti, Gaetano Salvemini, il maestro Arturo Toscanini, lo scrittore Emilio Lussu e, prima di loro, anche Giuseppe Garibaldi.
Ma questa è un'altra storia.
O è sempre la stessa, forse...  

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