PERSONE CHE HANNO LETTO O CURIOSATO

domenica 4 dicembre 2022

Il baffo di Carolyn

Ho cercato, ma non sono riuscito a trovare una sua foto di allora dell'amica che oggi entra qui, nelle pagine di Aria Fritta. 

D'altronde, Carolyn, al tempo, (siamo nel 1971) era una normalissima studentessa della facoltà di Design della Portland State University, e quelli non erano certo i tempi in cui si avevano - con sé (e di sé...) - mille o duemila foto fatte con i cellulari. 
Che, ovviamente, non esistevano ancora.

Al massimo di foto, al tempo, lei aveva solo quella della sua tessera universitaria. E sua mamma in qualche album custodito in un cassetto di casa.

Ma possiamo immaginarla: come centinaia di migliaia di studentesse universitarie americane di quel tempo, era certamente bellissima, esattamente come lo erano un po' tutte le ragazze del mondo di inizio anni '70, con quei capelli lunghi, al massimo parzialmente raccolti dietro la nuca.


E con lo sguardo che esigeva di andare lontano. 


In realtà giunse alla facoltà di grafica della Portland State University, Oregon, dopo aver frequentato quella di giornalismo, che abbandonò per la perdita di stimoli.
E quella mancanza di stimoli del giornalismo fu la sua fortuna... 

Nella nuova facoltà non ci volle molto tempo perché lei venisse  notata e tenuta d'occhio, quasi da subito, da
l prof. Phil Knight, uno dei suoi insegnanti.

Che qui vediamo in una sua foto d'oggi...               

Per arrotondare il magro stipendio di docente, il prof, insieme ad un collega e amico, aveva messo su la "Blue Ribbon Sports", un piccolo negozio che importava dal Giappone le "Onitsuka Tiger", uno dei primi modelli di "sneakers" esistenti al tempo. 

Le cose non andavano male, ma la loro sensazione è che forse sarebbero potute andare ancor meglio.
Insomma, il prof e il suo socio decisero di mettere su qualcosa di differente e "più americano", piuttosto che limitarsi semplicemente ad importare un prodotto che poteva essere essere tranquillamente "Made in Usa", fatto negli Stati Uniti... 

Andarono a "step": da una parte iniziarono a contattare un po' di aziende americane del settore delle calzature; 
dall'altra si misero a lavorare sul marchio. 

E qui il prof. Knight decise di scommettere sulle capacità creative della sua alunna più promettente, quella che in aula si mostrava sempre più fantasiosa ed entusiasta, piena di idee e di spirito di iniziativa, come si sa essere quando non si ha nemmeno 30 anni. (E negli Stati Uniti d'America, se mi si permette...). 
Alunna promettente e senza un dollaro, ovviamente, tanto che più volte ai compagni di corso raccontava di averne talmente pochi, di dollari, da non potersi nemmeno permettere l'acquisto dei colori ad olio che le servivano per dipingere in aula. 

"Vabbè, senti un po': vediamo come te la cavi... Butta giù un po' di idee per il nostro marchio e poi vediamo...", le disse il prof. 
Rassicurandola contemporaneamente: "Tranquilla, verrai pagata!".

Ovvio che la nostra Carolyn accettò con entusiasmo la proposta, anche perché per lei - studentessa squattrinata e fuori sede - due dollari l'ora erano pur sempre meglio di un calcio al fondoschiena.

Così, un giorno di maggio del 1971, iniziò a lavorare al progetto.
(Facendo, ovviamente, scattare il cronometro...). 

                                        

Il 30 maggio tutto era pronto per la registrazione del marchio. 

Secondo il conto che poi presentò al professore, Carolyn Davidson impiegò esattamente 17 ore e 5 minuti a disegnare quello che sarebbe diventato uno dei marchi commerciali più famosi (e uno di maggior valore, oggi) al mondo.

Che si ispirava - raccontò - all'ala della dea Nike, la dea greca della vittoria: la celebre Nike di Samotracia, scultura in marmo conservata al museo del Louvre di Parigi, attribuita allo scultore greco Pythokritos, - Pitocrito, figlio di Timocare di Rodi - anch'egli scultore e che venne scolpita fra il 200 e il 180 avanti Cristo.

Il marchio, il disegno, avrebbe dovuto rimandare immediatamente al movimento, allo scatto, alla leggerezza, alla velocità... 
Proprio come scattanti, leggere, veloci dovevano essere le scarpe Nike

Carolyn battezzò il suo marchio con il nome di "swoosh" ("fruscìo"): e infatti, se si pronuncia ad alta voce la parola inglese, ci si può accorgere che il suo suono rimanda proprio al fruscìo provocato dallo spostamento d'aria di chi corre molto veloce. (Ma con le scarpe giuste...).

Pare che Philip Knight, quando presentò nome e marchio ai suoi soci, lo definì, non troppo convinto, "il meno peggio".
Aggiungendo un laconico "vabbè, ok, mi dovrò abituare...". 

Un marchio che però fu un successo, anche se oggi nessuno lo chiama 
"swoosh", ma direttamente "Nike": segno che la scelta commerciale sarà anche stata "la meno peggiore", ma certo fu la più azzeccata. 
 

                               

Dieci anni dopo il "fruscio della Nike" si era ormai imposto in tutto il mondo occidentale, con l'ex professor Knight che, l'anno successivo, decise di ricompensare l'ex studentessa Carolyn Davidson con un regalo: un anello d'oro massiccio incastonato dal marchio "Swoosh" da lei disegnato, formato da svariate decine di piccoli diamanti.
Insieme all'anello di diamanti, 
una busta
Contenente 500 azioni

Che nel 2011 - 40° anniversario di fondazione del gruppo - sono arrivate a valere 1286 dollari.
Ad azione


Nella busta per l'ex studentessa Carolyn, dunque, c'erano (anello di diamanti a parte) 643 mila dollari: cioè più di 610 mila euro di oggi

Nel 2020 il valore del marchio Nike è stato valutato 34 miliardi e 400 milioni di dollari.

                               

Il "baffo di Carolyn" oggi si attesta al 15° posto fra i marchi commerciali più importanti al mondo. 

                                   
Carolyn Davidson dal 2000 è in pensione, e oggi si dedica ai suoi hobby e al volontariato, onorando i suoi impegni settimanali alla Ronald McDonald House e al Legacy Emanuel Hospital & Health Center di Portland, Oregon. 

Hanno portato lontano, le ali della dea Nike...

O meglio, le ali di Carolyn.


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