PERSONE CHE HANNO LETTO O CURIOSATO

martedì 16 giugno 2015

Le galline del professor Antonio

Il mercato è a Grant Park, nella parte sud del "centro" di Atlanta.
Un parco pubblico che ricorda, con i suoi prati e le sue collinette, un po' Villa Borghese a Roma, un po' il Parco del Valentino a Torino, un po' qualunque parco italiano, a ben vedere.
Solo che qui, per terra, non c'è un pezzo di carta, non un mozzicone di sigaretta: è vietato fumare, nei parchi e nei giardini pubblici degli Stati Uniti.
E, soprattutto, la gente rispetta il divieto.

Una volta la settimana, questa parte di Grant Park si trasforma in un "farmers market", un mercato di contadini "a chilometro zero"
Ok, ora non sono una grande novità nemmeno in Italia: ma consultando l'elenco nel sito del Dipartimento dell'Agricoltura della Georgia, si viene a sapere che soltanto ad Atlanta (447mila abitanti, poco più che Bologna) di "farmers market" ce ne sono 41.
Quarantuno.

Qui i contadini arrivano dalle campagne attorno alla Capitale della Georgia per vendere direttamente i loro prodotti, a patto però che - così dice il regolamento - siano esclusivamente frutto di agricoltura biologica e solo se le loro fattorie hanno la relativa certificazione "bio" del Ministero della Salute e del Dipartimento dell'Agricoltura della Georgia, e dell'Usda, il Dipartimento dell'Agricoltura degli Stati Uniti. 
I cui severissimi ispettori effettuano controlli ed esami periodici a sorpresa.

In questi mercati, i prodotti eventualmente trattati con erbicidi o fertilizzanti sintetici devono essere preventivamente segnalati alla direzione, che esaminata la documentazione rilascia (eventualmente) l'autorizzazione alla vendita.

"Community Farmers Markets crea in questo modo l'opportunità di rafforzare l'economia locale e promuovere stili di vita sani", si legge ancora nel regolamento. 

Tutto quello che viene messo in vendita, poi, deve essere elaborato totalmente a mano e "in casa" da chi li vende: muffin e torte, per esempio, non possono contenere ingredienti "semilavorati" precedentemente altrove.

Chi vende carne e derivati deve certificare tutta la filiera della lavorazione: dalla provenienza dell'animale, da come e dove questo è stato allevato, al tipo di erba e di mangime biologico utilizzato per il suo nutrimento.

E anche l'elenco di questi ingredienti deve essere pre-approvato dalla direzione del Grant Park Atlanta Farmers Market, alla quale stagionalmente deve esserne presentato l'aggiornamento.

Nel mercato sono presenti anche artisti e artigiani locali. I primi si esibiscono in cambio di offerte suonando in precisi spazi affidati ad ognuno di loro; 
gli altri vendono i loro manufatti: borse, scarpe, camicie, maglie, ceramiche, bigiotteria, stoviglie.
Artigianato meglio se - dice sempre il regolamento - realizzato grazie al riciclo e al riuso. 

Basta compilare la domanda on line entro il termine previsto ogni anno (quest'anno era il 13 febbraio), inviare la quota di iscrizione non rimborsabile (25 dollari, 22 €uro e 43 cent) e presentare tutta la documentazione, "che non verrà esaminata prima del ricevimento della quota di iscrizione".

Tutto abbastanza semplice.
Siamo in America.
Arrivo al Grant Park con alcuni amici americani con i quali avevo appuntamento: "Conversazione italiana in Atlanta", si chiama il loro gruppo che ho trovato su MeetUp.com.
Sono "atlantini" (si dirà così?) che amano a dismisura tutto ciò che è Italia: la lingua, la cultura, la musica, la letteratura, la cucina.
E forse anche il suo caos, la sua disorganizzazione.


Insomma, amano l'Italia in quanto tale e tutto ciò che è Italia. Italia dove ognuno di loro si reca appena può.
Sorrido...
Quanto tutto è relativo, eh?


"Ti portiamo da un italiano", mi dicono quando entriamo nel parco.



Capisco di essere arrivato, quando mi trovo di fronte allo striscione "Antonio's Fresh Pasta".
E lui, Antonio, era lì che digitava qualcosa sul suo telefonino. 

Aspetto: davanti ho una piccola coda di clienti. 
C'è chi compra tagliatelle, chi lasagne, chi penne, chi qualche etto di "paglia e fieno".
"Ehi, un altro italiano! Scusa, chiacchieriamo subito, appena smaltisco questi in fila.
Ma quanti italiani ci sono ad Atlanta? Sono appena venuti due marchigiani. Avevano nostalgia dei nostri ravioli e allora sono venuti a prenderne un bel po' di porzioni...".

Il bello di attaccar discorso con gli italiani all'estero è che solitamente ognuno di loro è custode di storie sempre interessanti.
Come quella di Antonio, che in Italia, fino alla fine degli anni '80 faceva l'insegnante: professore di Matematica e Fisica in una scuola di Montelupo Fiorentino.

Aspetto che faccia pagare una cliente che ha preso mezzo chilo di sue tagliatelle fresche.
E rimango a bocca aperta...
Lui, infatti, prende la carta di credito che la donna gli ha dato e la fa scorrere nella piccola fessura di un marchingegno inserito nella presa destinata normalmente allo spinotto degli auricolari...
 
Insomma, quel cosetto infilato nell'attacco delle cuffiette era un "lettore" per bancomat o carta di credito.
Dopo aver strisciato la carta, Antonio ha digitato il totale del conto; poi ha passato alla cliente il telefono, con questa che ha inserito il proprio codice segreto.

Finito, stop.
Niente contanti nel portafoglio? Nessun problema!
Tutto molto semplice. 
Siamo in America.

Ci ritroviamo qualche sera dopo, davanti ad una birra, una Coca Cola e due bistecche.
E lì, con calma, Antonio mi racconta la sua storia.

La storia di lui, insegnante quarantenne, che una ventina di anni fa si innamorava di un'americana in vacanza in Toscana. Una storia che lo ha portato qui, in Georgia, in un paesino di 592 abitanti a 15 chilometri da Athens, cittadina gemellata con Cortona.

"Ti confesso che da tempo mi ero stancato dell'Italia e della mia vita italiana. 
Il mio lavoro, poi: ero insegnante, un lavoro statale, sicuro, certo... Ma non sai quanto, con gli anni, mi sentissi sempre meno utile a quei ragazzi.
In Italia non ero, non mi sentivo, competitivo da nessun punto di vista: economico, sociale... Avevo combattuto per fare l'insegnante: ma sempre più, per me, quella era diventata una professione che serviva solo a tenermi 'a galla'.

E poi gli amici, i colleghi di lavoro... 
Chissà se oggi qualcuno di loro penserà ogni tanto a che fine io abbia fatto in America. 
Sai, a quel tempo eravamo tutti intorno ai 40 anni: adulti, e ormai, bene o male, ormai 'formati'. Ognuno si faceva un po' i fatti suoi.
In fondo, se ci penso, non è che fra noi ci fosse molta solidarietà e comprensione...".

E' dovuto crescere in fretta, il nostro Antonio: il padre morì quando aveva 15 anni, la madre quando ne aveva 23. 
"Insomma, nella vita sono partito male. E tardi".
Ho sorriso...

L'andarsene dall'Italia, mi dice, in fondo non è stata "una scelta"Ma il destino, ad un certo punto, gli ha fatto passare accanto una ragazza americana.
"Ci siamo innamorati subito. E subito, come fosse la cosa più naturale, ci siamo trovati a parlare di vita in comune, di matrimonio, di figli, di andar via con lei. 
Di andare in America". 

E' come se qualcuno gli avesse indicato la strada giusta, a lui che vagava senza meta.
A lui, che si sentiva perso...


Azzerare il passato. Ricominciare da zero.
Rinascere, in qualche modo.

Posso immaginare quale sia stata la sensazione che sentiva il nostro Antonio. 
Più o meno quella descritta, nel lontano 1776, dal rivoluzionario americano Tom Paine, che scrisse: "Abbiamo la possibilità di cominciare da capo a costruire il mondo. Una situazione simile all’attuale non si è verificata dai giorni di Noè". 
Credo proprio sia questa l'irrazionale sensazione che fortemente sente dentro ogni persona che, anche al giorno d'oggi, emigra in America.

E infatti: "Ti confesso che quando ho intravisto finalmente una via di uscita non mi sembrava vero: una famiglia, gli Stati Uniti, ma soprattutto, appunto, ricominciare da zero, una nuova vita".

"Sono partito senza voltarmi indietro una sola volta, credimi".

Cari amici, avrei potuto intitolare queste righe "Le tre vite di Antonio", ma c'è già un racconto (una straordinaria storia di un italiano in America) con questo titolo, qui su Aria Fritta.
"Tre vite" perché, dopo la prima vita italiana, dopo il matrimonio americano, Antonio inizia la sua terza vita. 

Dieci anni di matrimonio (e un figlio), si riempirono ad un certo punto quasi solo di incomprensioni, di tensioni, di litigi. "Eravamo diventati due estranei, al limite dell'odio. Non potevo andare avanti così...".
E così Antonio si trova a ricominciare ancora una volta "da zero". 
Ad andare "a capo" per la terza volta.
Nella sua mente maturava da tempo un progetto.

Intanto riprende l'Università. "Mi iscrissi alla facoltà di Scienze dell'Alimentazione che avevo cinquant'anni suonati. Guarda, qui non c'è niente di strano: anzi, il rimettersi in gioco in età matura è visto come un valore, in America. Diventi una risorsa".

All'interno dell'Università - come è possibile negli Usa - Antonio studia e lavora. 
E con il lavoro e con i finanziamenti che le banche concedono agli studenti, si mantiene e riesce a comprarsi anche una casa.
Nel 2003 arriva così il dottorato in Scienza dell'Alimentazione.
"Ho sempre avuto un grande amore per la buona cucina, soprattutto buona cucina italiana! E allora...".
E allora, nel 2004, ad Athens, un centinaio di chilometri da Atlanta, Antonio apre il suo negozio di gastronomia, specializzato nella vendita di prodotti italiani importati: salumi, formaggi, pasta, olio d'oliva.
Poi, due anni dopo, inizia a fare la pasta "in casa". 
E lì "vede lungo"...

"Sì, fu nel 2006 che decisi di iniziare a fare pasta fresca. Dall'Italia feci arrivare una macchina che mi avrebbe permesso di farla artigianale ma in grandi quantità. E con quella, ho iniziato a fare tagliatelle e ravioli. E ho visto che la cosa funzionava".
A quel punto, Antonio decide di chiudere il negozio e di vendere tutta l'attrezzatura. 
Tutta tranne la macchina per la pasta.

Sul piccolo appezzamento di terreno che aveva in quel microscopico paesino di 592 abitanti a 15 chilometri da Athens, Antonio costruisce la casa alle sue galline: una piccola costruzione in muratura per il loro ricovero notturno.




Tutto attorno, un'ampia area in cui i pennuti possono scorrazzare in libertà all'aria aperta. Con le galline alle quali non rimane che fare il loro lavoro: uova.

Uova a volontà.


Uova certificate "bio", visto che le galline di Antonio vengono nutrite con mangime rigorosamente biologico.
Antonio spiega ai suoi clienti che la sua è pasta "fatta a mano".
Gli americani, ovviamente, non hanno la cultura della pasta, anzi, non ne sanno "un fico secco","e allora chiarisco loro che in commercio esistono diversi tipi di macchine per pasta. Ci sono quelle che fanno 'tutto da sole', automaticamente: basta inserire la farina qui, le uova là, un po' d'acqua, eventualmente il ripieno in quell'altro punto della macchina e schiacciare un paio di tasti".

Lui, invece, racconta agli americani che il suo procedimento è fatto tutto "a mano", con quelli attenti come se ascoltassero una favola. "Dico loro che  non c'è nulla di "magico" in ciò che faccio, e che potrebbero farlo loro, se solo a casa avessero tempo (e voglia)".
Spiega che dopo aver fatto l'impasto, passa questo lentamente attraverso due cilindri, e poi ancora, fino a quando non raggiunge lo spessore che desidera.

Un po' come faccio io, con la mia vecchia Atlas "tipo Lusso mod. 150" degli anni '60, rigorosamente manuale ("prezzo di vendita, lire 8900", come si può vedere se si clicca sulla foto e si ingrandisce l'immagine) ereditata da mia mamma...






Gli affari vanno, le richieste aumentano: e allora Antonio compra un'altra macchina. Le sue (una Modula e una Estro, comprate rispettivamente nel 2007 e nel 2013 e fatte arrivare direttamente dall'Italia) lavorano esattamente allo stesso modo della mia, a parte il fatto che sono elettriche e progettate appositamente per piccoli laboratori artigianali.
Agli americani, che lo ascoltano quasi a bocca aperta, lui spiega che la sfoglia di pasta, per diventare pappardelle, tagliatelle, tagliolini e ravioli, viene poi tagliata "a mano: si tratta di un sacco di lavoro".
Per fare il quale viene aiutato da una dipendente assunta apposta.
Il suo menù è notevole, come possiamo vedere. Tutto sommato, fedele alla tradizione italiana.
Ci sono anche le tagliatelle "gluten free".
E ha successo: "Sì, si guadagna", ammette.
Gli americani, la qualità, la pagano senza problemi.

A chi gli chiede informazioni spiega bene tutta la "filiera" di lavorazione: dall'allevamento delle galline (esclusivamente ruspanti e nutrite con mangime bio), e a come le uova e la farina diventino poi pasta, tagliatelle, lasagne, o ravioli ripieni di carne o di spinaci e ricotta. 

Pasta agli "artichoke, asparagus, lemon zest, sweet potato, butternut squash, smoked salmon, eggplant, 4 Cheese"; ai carciofi, agli asparagi, alla scorza di limone, alle patate dolci, alla zucca, al salmone affumicato, alle melanzane, ai quattro formaggi.
Financo ad un sinceramente un po' inquietante "Chocolate Cheesecake": ma si sa, gli americani,
 con i loro gusti si spingono spesso laddove noi nemmeno immaginiamo. 
Gusti che in qualche modo lui deve soddisfare, suvvia... 

Oltre a quello di Grant Park, Antonio vende i suoi prodotti anche in un altro mercato "bio" di Atlanta dove anche lì ha, ormai, affezionati clienti. I quali ogni settimana gliene presentano sempre altri: "Quasi la mia vera famiglia", mi dice.
"A parte la mia compagna, ovvio", si affretta ad aggiungere subito. 
Siamo in una steak house di Atlanta, che fa parte di una catena. Abbiamo esitato un po' prima di entrarci, perché lui avrebbe preferito un ristorante più "familiare". Ma non era mai stato in questa zona della città. E si rischiava di far troppo tardi...

E allora, davanti ad una buona bistecca, mi racconta di una Italia (ormai) lontana: di un fratello con il quale non ha mai avuto un rapporto troppo facile, dei quotidiani italiani che definisce "illeggibili".
"Da osservatore esterno quale mi ritengo essere, mi pare che più che informare il pubblico i giornali italiani mandino messaggi 'cifrati' a politici o a non so chi...". E mentre la bistecca finisce mi chiede se sono davvero libero di scrivere ciò che voglio.
Continuo a mangiare e ascolto...


Mi racconta di quando era in Italia e leggeva la Repubblica e l`Espresso: "Ora leggo volentieri i giornali americani, il New York Times, al quale sono abbonato, o l'Atlanta Journal... Sono chiari, ben scritti e interessanti.

Insomma, non seguo molto le notizie dall`Italia, ma leggo avidamente tutto quello che i giornali qui scrivono dell'Italia".

Mi chiede se il sistema sanitario è sempre quello di 30 anni fa, e mi dice che gli manca un po' quel che di noi piace agli americani: il nostro carattere aperto e spontaneo.
Che, non c'è dubbio, è anche una sua caratteristica.
Degli italiani mi confessa che però non sopporta la "furbizia", componente mal vista dagli americani: "In Italia ci hanno detto sempre, fin da bambini, 'Fatti furbo!'. Ecco: ho un po' l'impressione che in Italia, per sopravvivere, devi essere 'furbo', e devi saper fregare quelli che non sono furbi come te".

Mi racconta di quando lui, per esempio, è stato fregato da "un amico" italiano, che gli ha incassato (tenendolo per sé!) un suo vecchio rimborso di tasse, e va giù duro: "Non mi pare possibile che un Paese dove si vive di tali sotterfugi abbia la possibilità di successo nell'economia globale di oggi: la piccola mentalità italiana 'furbista' produce diffidenza e l'altrui sospetto. E diventa un circolo vizioso".


Parliamo degli italiani in America e lui mi racconta di diversi Italiani conosciuti ad Atlanta o ad Athens "che sono arrivati, hanno cominciato un business magari nel campo dei ristoranti, hanno fatto un po' di soldi", ("perché gli Americani si fidano ciecamente del genio italiano in cucina, mi dice) ma che poi sono finiti a gambe all'aria "per avidità, presunzione e mancanza di umiltà".



Mi parla degli unici due amici con i quali è ancora in qualche modo in contatto in Italia: Angelo, che fa il medico, e Ranieri, il dentista.
Mi parla dell'America, di quanto è grande, di come qui ci si senta in pace.
E del fatto che l'America gli ha regalato una cosa enorme: una nuova vita. 

"Sai, Dario: hai ragione ad avere l'impressione che qui, in America, ci sia posto per tutti. 
Io qui mi sento a casa. Forse perché gli americani sono molto tolleranti nei confronti degli stranieri. 
Come sono io, come ero io.
Sì, hai ragione: forse gli americani hanno nel dna la consapevolezza che anche loro sono d'origine straniera, che anche loro (o i loro genitori, o i loro nonni, o i loro bisnonni) sono arrivati da qualche altra parte, da qualche altro angolo di mondo... 

E infatti gli americani sono simpatici con gli stranieri. 
Non hai idea di quanto piaccia a loro il mio accento italiano: e quando al mercato un nuovo cliente mi sente parlare, vuole sempre essere sicuro che io sia 'un italiano, un italiano vero' , non un 'italo-americano' come ce ne sono tanti, qui. 
Qui, in America, c'è veramente da sentirsi orgogliosi ad essere italiani".

E quando gli dico tutta l'America che ho visto (e che non mi basta mai...) Antonio sgrana gli occhi e ammette di non essere uscito molto dalla sua Georgia: "Mi piacciono New York, Boston, San Francisco. Ma al contrario di te non mi piace per nulla viaggiare in auto, spendere lunghe ore in macchina. Anzi, non lo sopporto proprio".

Parliamo di una mia professoressa del mio liceo, che ad un certo punto mollò l'insegnamento per aprire un negozio di mobili di design: una scelta che mi lasciò sbalordito e un po' perplesso, a quel tempo. "Guarda, io sono molto contento della mia scelta. Sono contento del posto dove vivo e dell'attività che svolgo.
Ti assicuro che vendere la 'MIA' pasta è la cosa più divertente e gratificante che io abbia fatto nella vita mia...".

Già... Ancora una volta mi trovo a pensare che, in fondo, il  confine fra nutrire la mente e il nutrire il corpo è davvero labile. 
A pensarci bene non c'è molta differenza, no?

Parliamo un po' di politica: non di quella italiana ("per carità!, davvero mi pare che in Italia non sia sostanzialmente cambiato nulla...") ma di quella americana.

Mi racconta che si considera un "liberal" e che ha votato democratico: "Ho votato per Obama, che considero ancora un buon Presidente. Forse nei giorni della sua elezione in Italia qualcuno ha tentato di trasformarlo in 'macchietta', ma il suo arrivo alla Casa Bianca, in America è stato davvero un fatto storico, una rivoluzione. Ha avuto l'enorme effetto di migliorare a dismisura le relazioni fra i bianchi e gli afroamericani. 
E' un po' come se questi ultimi non debbano più dimostrare nulla, adesso; adesso che uno di loro siede da due mandati alla Casa Bianca, ora che hanno raggiunto quel 'vertice sociale' grazie al loro voto e a quello della maggioranza dei bianchi.
Nonostante ciò che si può credere, ti assicuro che negli Stati Uniti la tensione sociale è diminuita, come sono diminuite quelle razziali. E davvero, oggi, in America una coppia 'interrazziale' non fa più alcun effetto; anzi: nelle situazioni normali, se non ci sono afroamericani fra i dirigenti o i lavoratori la cosa 'suona' strana, insolita.  

Ti assicuro: oggi, in America, 'si respira' molto meglio, e secondo me Barack Obama rimarrà uno dei Presidenti più importanti della Storia americana".

Parliamo della sua riforma sanitaria: "Coraggiosa, storica, ma certamente insufficiente agli occhi di noi europei. Ma nonostante la resistenza dei repubblicani, resta comunque un grande passo avanti rispetto al nulla di prima".

"Certo, negli ospedali americani, anche se i servizi sono eccellenti, la cosa più importante resta comunque ancora il profitto, e questa cosa a me non piace per nulla...".

Si salta da un argomento all'altro, e quando gli dico che il ragoût di carne è una delle mie specialità, lui, con assoluta tranquilla "operatività americana" mi dice subito "Dai, se vieni qua, vieni in America. Tu ti occupi dei sughi. 
Dario, se vuoi venire, un lavoro con la pasta e i sughi te lo trovo.
La settimana scorsa ho assunto una donna ma non sono sicuro che sia la persona adatta. E' un po' lenta e non sa niente di pasta. 
Qualche sugo lo faccio già. Questa settimana ne ho fatto 15 libbre (quasi 7 chili, NDA), e li ho venduti tutti.
Avevo anche un paio di chili di lasagne di carne. 
Vendute tutte. 
Ma i 'Farmers Market', i nostri mercati, qui ad Atlanta sono tanti, e il bello è che non hai spese, se si esclude il costo della tenda e una modesta cifra per affittare il sito al mercato, 25 dollari al giorno".

Prima di abbracciarmi mi stuzzica ancora: "Dai, vieni! Ti prendi un nuovo mercato, perche` ad Atlanta ci saranno una trentina di Farmers Markets (no, caro Antonio: sono 41..., NDA), e io posso andare solo in uno per volta".

Non c'è dubbio, ormai è assolutamente "americano": pragmatico, pratico, sognatore, ottimista. 
Serio ed immediatamente operativo. Arriva al punto senza girarci troppo intorno.

Sa benissimo che il mio mestiere è tutto un altro, ma non trova nulla di strano a farmi una proposta del genere, e a farmela seriamente. 
D'altronde, lui, nell'altra sua vita, non era forse un professore di matematica e fisica? 
E infatti di lì a poco insiste: ancora "Guarda che parlo sul serio, Dario, ti aspetto a lavorare con me!".

Gli do appuntamento in Italia, e lui - sorridendo - me lo dà in America...
Parleremmo ancora ore, ma per arrivare a casa Antonio deve fare più di un'ora di strada con la sua station wagon, un po' vecchiotta e senza navigatore.
Ci salutiamo.

Un abbraccio, quasi da vecchi amici.


Lo guardo mentre si allontana nella notte di Atlanta...

Ad un certo punto - mi racconterà più tardi - ad un incrocio fuori città si rende conto di essersi perso.
Niente da fare: non trovava più la Interstate 85 South...
Fermo ad un semaforo, con espressione interrogativa, guardava continuamente da una parte e dall'altra dei finestrini senza trovare risposta.

Mi racconterà che sarà restato così, nella strada deserta, perplesso, per un paio di minuti, con il semaforo rosso che diventava verde, e poi ancora rosso, e poi ancora verde...
Fino a quando non gli si è affiancata un'auto guidata da una donna che gli ha chiesto "Are you lost?".

"Ti sei perso?".

E allora lei, con la mano fuori dal finestrino, indica la strada.
A lui che rischiava, di nuovo, di perdersi. 

E con la mano lo saluta sorridendo.



© dario celli. Tutti i diritti sono riservati

9 commenti:

  1. Bel racconto Dario, come tanti altri dei tuoi...io l'avrei anche intitolato "che fantastica storia è la vita" come il ritornello di una canzone di Venditti. Bello perdersi, ricominciare e riperdersi e ricominciare, se poi riesci a trovare la tua dimensione penso sia il top. È vero che nutrire la mente e come nutrire il corpo...ma in fondo cosa importa veramente?
    Di la verità, stai veramente pensando ai sughi??:-)
    Complimenti ancora ciao Danilo

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    1. Grazie dei complimenti, Danilo!
      I sughi?

      d.

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    2. Mi riferivo con una semplice battuta (magari non ben riuscita) alla parte del tuo racconto dove accennavi alla proposta di lavoro nella produzione dei sughi per la pasta...:-)metafora che ho usato per chiederti se pensavi sul serio di imbarcarti in un'avventura del genere.
      Danilo

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    3. No no, era riuscitissima!
      E' la mia risposta che è stata incomprensibile, per la verità...

      Doveva forse essere scritta così:
      "I sughi? Mah, chissà..."

      :-)

      Ciao Danilo e grazie per i tuoi passaggi da queste parti.
      E ora mi metto sotto per scrivere altro...

      d

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  2. Dario come sempre i tuoi articoli sono intensi e carichi di vita.
    Mi piacerebbe approfondire meglio però, il discorso tasse. Come si regolano con queste micro attività con tanto di banco ambulante? In Italia ti dissanguano e sinceramente minaccerebbe sapere come funziona in USA.
    Grazie per queste tue perle di storie.

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    1. Cara Mary,
      Antonio ha il suo da fare, in questi giorni, e dunque non ha potuto rispondere personalmente qui su Aria Fritta.
      Ma ti trascrivo cosa mi ha scritto via sms:

      "Il controllo da parte dell'ufficio delle tasse è minimo.
      Io devo mandare ogni mese il rendiconto e pagare il 3% sulle vendite.
      Ma non essendo io tenuto a dare la ricevuta ai clienti, il solo record possibile è sui pagamenti con credit card via internet con lo 'square', quell'aggeggio che hai fotografato.
      Alla fine dell'anno faccio all'Irs (Internal Revenue Service, l'ufficio delle tasse, NDR) la denuncia dei profitti, calcolo le deduzioni e invio l'assegno al Governo Federale e allo Stato della Georgia.
      La comunità locale vive sul 3% delle vendite, le cosiddette 'sale taxes') e sulle tasse immobiliari, che si pagano a parte".

      Non sai quanto io sia curioso di vedere ora la tua faccia.

      d.

      P.S.: "Perle", addirittura! Grazie, sei davvero generosa!
      Mi piace raccontare, tutto qui...
      A presto su queste pagine!

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  3. Ciao Dario, pensare alle tasse (eque) americane e paragonarle al 'pizzo' preteso dalle variegate istituzioni italiane (in cambio di nulla) mi.....altera leggermente! Comunque se un giorno potessi ottenere la Green Card mi ricorderò del professor Antonio. Sai, in famiglia abbiamo sperimentato la pizza siciliana, il famoso 'sfincione' palermitano, e subito ci siamo detti: "sai che successo avremmo negli States, magari da qualche parte già lo fanno, però l'America è grande, basta trovare una zona dove ancora nessuno lo ha mai assaggiato e ci facciamo i soldi"! Che male c'è a sognare ad occhi aperti.....questo è ancora gratis! Questo tuo spazio è utile anche per sognare. Grazie amico.

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    Risposte
    1. Per sognare e per incoraggiare la costruzione del sogno, amico...

      d.

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