PERSONE CHE HANNO LETTO O CURIOSATO

sabato 10 gennaio 2015

Il cerchio di Nancy


La giudice prese la parola e iniziò a raccontare alla platea silenziosa e attenta: 
"In questa giornata così speciale per voi, voglio raccontarvi la storia di un giovane di Haiti.
Ma per farlo dobbiamo tornare al 1969...".


1969, Haiti...

Se oggi Haiti è il Paese più povero dell'emisfero nord del mondo, possiamo immaginare quanto povero fosse 46 anni fa. 

Per esempio: oggi, ad Haiti, il reddito pro capite è di 759 dollari l'anno; cioè gli abitanti di Haiti guadagnano mediamente poco più di 642 €uro all'anno.

Che significano 53 €uro al mese.

Oggi i disoccupati, ad Haiti, sono il 60% della popolazione, ed è facile pensare come nel 1969, ovviamente, la situazione fosse addirittura peggiore.

A quel tempo il Paese centroamericano era schiacciato dal pugno duro del dittatore François Duvalier, soprannominato "Papa Doc"
Già, "doc", come "doctor": perché lui era un ex medico. E quanto gli piaceva essere chiamato così dai suoi cittadini-sudditi...

Dopo essersi paradossalmente opposto ad un colpo di stato, lui prese il potere nel 1957 grazie all'appoggio esplicito dell'esercito. Potere che mantenne per sempre, fino alla sua morte, visto che nel 1964 si era auto-nominato "presidente a vita".
Perché naturalmente, una volta divenuto lui "Presidente", non c'era certo bisogno di altre elezioni.

Preso il potere, Duvalier utilizzò la tradizione dei riti "voodoo" come arma di controllo psicologico sulla popolazione, che aveva l'indice di scolarizzazione più basso del nord e del centro America.

Non temeva niente e nessuno, Duvalier: d'altronde era spalleggiato e protetto dalla sua tetra milizia personale, i "Tonton Macoutes", che in haitiano significa "uomini spettro".
E non era una esagerazione.
Basta guardare qual era il loro stemma.
Si trattava di un gruppo paramilitare, una polizia parallela e non ufficiale, al servizio personale del dittatore. 
Squadracce armate che incutevano terrore fra la popolazione civile aggredendo, picchiando, violentando donne, arrestando senza motivo e sequestrando oppositori che spesso venivano torturati, bruciati vivi davanti a tutti, o uccisi, sempre in pubblico, a colpi di macete. 

Impunemente, ovvio.

Si calcola che nei 22 anni di dittatura, le squadracce di "Papa Doc" e di suo figlio che gli succedette, "Baby Doc", abbiano ucciso almeno 60mila persone. 
Quasi 250 persone assassinate ogni mese. 
Otto al giorno.
Senza mai un colpevole che venisse individuato o punito.

Ed è da qui, da questa situazione, che quel giovane di Haiti - quello al quale aveva accennato la giudice nelle prime righe di questo racconto - un giorno fugge.

Un giorno del gennaio 1969 riesce a raggiungere gli Stati Uniti d'America.


Continua il suo racconto la giudice.
E la platea quasi non respira, mentre la sua voce inizia a tremare.

"Pensate, quando quell'uomo è arrivato a New York, aveva in tasca soltanto tre dollari e un foglietto con l'indirizzo di un amico haitiano già nella Grande Mela, che forse, lui lo sperava, poteva aiutarlo.
Non diceva una parola di inglese, quel giovane. E non aveva un lavoro.


A New York era arrivato solo: sua moglie, infatti, era rimasta ad Haiti. 
Era incinta e poi doveva badare agli altri  loro otto figli: il più piccolo di dieci mesi, il più grande di 12 anni.

Aveva le tasche vuote, ma il suo cuore e la sua mente erano pieni di speranze: prima fra tutte la speranza di iniziare una nuova vita conscio di ricominciare da zero.
Una nuova vita per sé e per i figli che aveva lasciato a casa.     

Sei mesi dopo, nel luglio del '69 - continuava a raccontare la giudice - arrivò qui anche sua moglie.
E anche lei non sapeva una parola d'inglese.
Non solo: aveva un bassissimo grado di istruzione. Anzi, quasi non era mai stata a scuola".














"La platea era emozionata, non si sentiva volare una mosca", mi ha raccontato la mia amica Renata.
Già, perché quel giorno lei era lì: a sentire con le sue orecchie queste parole. 

Era lì ad assistere alla cerimonia di giuramento che avveniva nel Milwaukee Area Technical College, durante la quale 205 immigrati di 62 nazioni differenti sarebbero diventati cittadini americani.

205 persone che ascoltavano con il nodo alla gola le parole del giudice Nancy Joseph, così come avevano un nodo alla gola e le lacrime agli occhi le decine di parenti e di amici che li accompagnavano.

Così come le aveva la mia amica Renata, che non voleva perdersi nemmeno una parola di quelle che uscivano dalla bocca del giudice:
"Questo è un Paese di immigrati, e ciascuno di voi sa che in questo momento sta iniziando la propria nuova vita.

Così come fecero proprio quei due giovani di Haiti, che immediatamente, e per anni, lavorarono duro. 
Lavorarono ogni giorno e ogni notte, quei due ragazzi, e con nella mente un solo pensiero: far crescere i loro figli negli Stati Uniti d'America.

E ce la fecero.
Giorno dopo giorno, lavorando sodo, quei due ragazzi riuscirono prima a pagarsi un affitto, poi a comprare una casa, poi a far venire negli Stati Uniti tutti i loro figli.
Poi, come voi, riuscirono a coronare il loro sogno più importante, il più grande: diventare cittadini degli Stati Uniti d'America".

Poi la giudice Joseph fece una pausa.
Sembrava quasi commossa... 
Fece un lungo respiro e sorrise, dicendo poi alla platea attenta: 

"Sapete, io conosco molto bene la loro storia, la storia di quei due giovani...
Perché quei due ragazzi, pensate un po'...
... quei due ragazzi erano i miei genitori. 

Sì, esatto, avete capito bene: quella che vi ho appena raccontato è la storia di mio padre e mia madre".


I 205 neo-cittadini americani e i loro parenti e amici presenti in sala rimasero per qualche secondo senza parole
con gli occhi spalancati, 
la bocca aperta, 
senza fiato...

Uno stupefatto silenzio durato un paio di secondi che poi esplose in un gigantesco applauso, e in urla, e in fischi di approvazione, e ancora in applausi e urla...

La giudice Nancy Joseph sorrise, rimanendo lì a godersi quel momento in silenzio: perché se lo aspettava, e sapeva che il suo racconto, il racconto della vita dei suoi genitori, avrebbe provocato stupore, gioia, euforia.

"Già... Avevo dieci mesi quando mio padre partì per gli Stati Uniti e avevo otto anni quando arrivai qui", disse mostrando alla folla un vecchio passaporto haitiano con la foto di una bambina con un vestitino bianco e uno sguardo severo. 

"Sì sì, questa sono io: ma non so proprio perché in quel momento avessi uno sguardo così arrabbiato!".

E tutti giù a ridere...

Poi il giudice Nancy Joseph raccontò a tutti di quando fu lei a diventare cittadina americana.

"Avevo 18 anni e quel giorno nell'aula del Tribunale Federale di Newark, in New Jersey, ero emozionata esattamente quanto lo siete voi in questo momento. E oggi, presiedere questa cerimonia, mi riporta a quel giorno, a quando ero una ragazza con le vostre stesse emozioni.

Vorrei che voi sappiate che per me è un vero privilegio presiedere questo giuramento e condividere questo giorno speciale con voi.
Vi garantisco che questa è la parte del mio lavoro che amo di più...".


46 anni, il giudice Nancy Joseph è cresciuta in New Jersey. 
Una volta giunti negli Usa da Haiti, possiamo immaginare che "mazzo così" si fecero i suoi genitori: per comprarsi la casa, per mantenere i loro nove figli, per pagare gli studi a lei e ai suoi otto fratelli.

La giovane Nancy frequentò prima la Howard University di Washington DC, dove si laureò in Scienze Politiche; e poi la Rutgers University of New Jersey, dove nel 1993 conquistò la seconda laurea, questa volta in legge.
  

"Ho voluto diventare avvocato per aiutare la gente", ha detto quel giorno il giudice Nancy Joseph in un'intervista al Journal Sentinel, quotidiano di Milwaukee. Una vocazione che l'ha portata a esercitare per anni il ruolo di "difensore civico" a Milwaukee. 
Poi, una volta nominata giudice, ha chiesto espressamente di presiedere lei le cerimonie di "naturalizzazione".

Come se il cerchio - il suo cerchio - si chiudesse ogni volta, con quel giuramento collettivo.
Come se lei, ad ogni giuramento che presiede, vedesse - sentisse di avere davanti a sé - suo padre e sua madre.
Con i loro sogni.
I sogni di due giovani emigranti.

Insomma, avete capito?
Agli occhi di noi italiani questa appare come una storia incredibile.
Decisamente irrealizzabile in Italia.

Perché questa è la storia di una figlia di immigrati quasi analfabeti, che studia, si prende due lauree e che diventa magistrato. 

Eddai, fatemelo scrivere ancora: proprio come da noi in Italia, vero? 

"Oh, non sapete quanto godo a vedere gli sguardi di quei nostri neo-cittadini americani quando, durante la cerimonia di giuramento, sentono quella storia, la mia storia. Persone che provengono da ogni angolo del mondo", ha detto ridendo al giornalista del Journal Sentinel.

Come Fatou Jawo, 29 anni, emigrata dal Gambia che vuole diventare infermiera professionale.
"E' proprio come ha detto il Presidente Obama nel video che ci è stato fatto vedere all'inizio della cerimonia: 'Non c'è sogno che non sia realizzabile'
Il mio primo sogno era quello di venire in America, il secondo era di diventare 'cittadina americana'. 
Ora il mio sogno è quello di essere una cittadina americana produttiva".

O come Nicolas Grasset, 36enne fotografo francese, sposato con due figli, arrivato negli States nove anni fa: "Volevo diventare un cittadino, perché ho intenzione di vivere qui il resto della mia vita".
Nicolas Grasset
O come Poe Chit, 22 anni, rifugiato politico thailandese, negli Usa con la sua famiglia: "Per me è stato importante diventare 'cittadino'. Per me vuol dire 'libertà'".
Poe Chit
   (photo Mike De Sisti)
Dopo il giuramento, e prima della consegna dei certificati di cittadinanza, il giudice Nancy Joseph ha esortato i nuovi americani di informarsi costantemente su quello che succede negli Stati Uniti, e di non sprecare il nuovo potere che da quel momento ognuno di loro aveva nelle mani: il potere di voto.

Ma ha anche esortato ognuno di loro a non dimenticare la propria storia: "Ricordatevi di condividerla con i vostri figli, e poi con i vostri nipoti. 
Non dimenticate mai di raccontare a loro le vostre radici, la vostra scelta: per far sì che loro, e poi i loro figli, e poi ancora i figli dei loro figli, conoscano il ricco tessuto della loro storia".

Parole dette di fronte a persone con le lacrime agli occhi.
Lacrime che non potevano che scendere anche sul viso della mia amica Renata, che mi ha raccontato quell'emozionante giornata.
Terminata per lei e sua figlia Francesca con la foto ricordo davanti ad una gigantesca bandiera.

Dopo il giuramento e l'applauso liberatorio, è iniziata la lunga cerimonia della consegna dei certificati, con il giudice Nancy che ha voluto salutare uno ad uno tutti neo cittadini di fronte ai quali, a ognuno, ha detto qualche parola nella loro lingua d'origine.

E poi ecco i nuovi "americani" che si salutavano fra loro, che si abbracciavano fra sconosciuti, che si facevano foto a vicenda.

Avevo già assistito a una cerimonia del giuramento, quella in cui cittadini stranieri "diventano" americani, e l'ho già raccontato in queste pagine...
Sono cerimonie aperte, e non solo ai parenti o agli amici dei "neo-cittadini": io stesso, a New York, chiesi anni fa il permesso di assistere ad uno di questi eventi.

La mia amica Renata, invece, quel giorno a quell'appuntamento si è recata lì con la classe della figlia.

Sì, avete letto bene.

Le scuole, negli Usa, portano i loro alunni ad assistere alle cerimonie di "naturalizzazione"le cerimonie in cui gli stranieri diventano cittadini americani, facendo vivere anche ai ragazzi quei momenti solenni ed emozionanti.

Facendo vedere così a loro "chi sono" i nuovi cittadini degli Stati Uniti.
E da dove sono venuti.

Cerimonia di giuramento che è avvenuta, tra l'altro, nel corso dell'Holiday Folk Fair International di Milwaukee, manifestazione con stand colmi di prodotti di ogni Paese del mondo.
Con musica, danze e cibi tipici.
Perché ognuno di quei neo-cittadini è giunto negli Usa con quel ricco bagaglio.

Che rende ancor più ricchi gli Stati Uniti d'America.


© dario celli. Tutti i diritti sono riservati

6 commenti:

  1. ...
    mentre prendevo appunti pensavo a te. E inizialmente volevo mandarla direttamente a te: sapevo che avresti fatto un ottimo lavoro. Poi ho pensato di metterla sul mio blog semplicemente perché era un qualcosa che mi apparteneva. Io sono sempre convinta che NULLA ACCADE PER CASO e se io ero lì in quel momento, è perché io dovevo essere lì in quel momento.
    Grazie Dario, hai reso l'idea dell'intensità delle mie emozioni!

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    1. Eri lì in quel momento perché dovevi ben iniziare a studiare la lezione, no?
      ;-)
      Grazie a te, invece...

      d.

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  2. Beh devo dire che il blog non è niente male. Bella.

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    1. Grazie, Oracolo!
      Fatti un bel giro fra queste pagine, allora. E torna a trovarmi!

      d.

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  3. Avevo letto questa bellissima storia sul blog di Renata....naturalmente Dario la saputa ben arricchire di particolari come ogni suo racconto...rendendola ancora più coinvolgente...senza nulla togliere a Mom!...:-) Certo se solo penso che in Italia ottenere la Cittadinanza sia invece un pro-forma burocratico...mi rende triste...gente che la ottiene per il semplice motivo x, senza neanche saper parlare in maniera degna la nostra lingua, non dico da professori di grammatica, ma almeno....figuriamoci conoscere un minimo di nostra storia...che penso sia una tra quelle più ricche di cultura a livello mondiale!
    PS:in fin dei conti forse e proprio meglio cosi, non portare i nostri figli a vedere chi sono i "nuovi italiani", poichè già bastiamo di quelli vecchi per rendere questo paese il più...lascio ad ognuno di voi la scelta finale.

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    1. Suvvia, non è proprio un "pro forma burocratico" ottenere la cittadinanza in Italia...
      Grazie per essere passato da qui, Danilo!

      d.

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