PERSONE CHE HANNO LETTO O CURIOSATO

lunedì 25 agosto 2014

I pugni del piccolo Giuseppe

Cosa pensassero è facile da immaginarlo.
D'altronde cosa vogliamo che pensasse quella coppia che, a bordo del piroscafo North American, passava davanti alla Statua della Libertà...
Erano di fronte alla "porta dorata" e poco dopo sarebbero sbarcati ad Ellis Island.
L'America, immensa, era lì, di fronte a loro.
Ellis Island, come saprete, è l'isola di New York oggi sede dell'Ellis Island Immigration Museum, il Museo dell'Immigrazione voluto nel 1990 dal Presidente Bill Clinton. 
Ma per 62 anni - dal 1892 al 1954 - è stata la prima tappa per 12 milioni di immigrati giunti nel Nuovo Mondo alla ricerca della felicità.
Fra questi milioni e milioni di italiani: 2.045.877 solo fra il 1901 e il 1910, per la precisione. 
Passeggeri che, una volta sbarcati, venivano intervistati, visitati e registrati uno ad uno.
Quel giorno, era il 17 marzo 1904il "passenger record" - il registro passeggeri della nave a vapore "North American" salpata da Napoli 14 giorni prima - annotava il protagonista della nostra storia al numero 0020: prima di lui troviamo il padre - Di Melfi Domenico, anni 29 - e la madre: Di Melfi Rosa, anni 26. Si facevano presto, in quegli anni, le scelte coraggiose. 
Poi ecco il suo nome - "Di Melfi Guiseppe, anni 6" - e quello della sorellina Angela Maria, 3 anni.

No, non è stato un refuso: guardate qui sotto. Sul registro c'è scritto proprio "Guiseppe": non era infatti per nulla raro che, giunto ad Ellis Island, un immigrato si vedesse storpiato il proprio nome di battesimo o, peggio, il proprio cognome non anglosassone. 

Cosa sentissero nella loro testa in quell'istante Domenico, Rosa, e i figli Giuseppe e Angela Maria, lo possiamo immaginare: smarrimento, "madovecazzosiamocapitati", paura boia, "maperchénonsiamorestatidoveravamo", voglia di ricominciare da zero, "mammamiaorachecavolofacciamo", desiderio di rivalsa... 
Pensieri formulati in quest'ordine, a ripetizione, e poi in ordine contrario, e infine in ordine sparso.
D'altronde cos'altro avrebbero mai potuto pensare due giovani nemmeno trentenni che arrivavano in America dal civico 15 di  via Lilio, Anzi, provincia di Potenza: oggi 1700 abitanti. 
Allora nemmeno mille.
E tutti praticamente in miseria.

Che rabbia mi fa, cari amici, non sapere di più, non aver trovato alcuna notizia sulla vita della famiglia Di Melfi in Italia ma soprattutto a New York.
Non so niente, non ho trovato niente...
Niente di niente.
E' pur vero che stiamo parlando di cento anni fa, del secondo decennio del 1900.

Quel poco che so, è che il piccolo Giuseppe - che probabilmente aveva tutte le ragioni per essere arrabbiato con il mondo - ad un certo punto della sua adolescenza iniziò a dar di pugni. 

Nel senso di boxe. 
Ma perché e dove iniziò non sono riuscito a saperlo. 

Non c'è alcuna notizia di quel suo primissimo periodo. E pochissime foto: una è questa, che lo ha fissato mentre, assorto in una pausa durante un allenamento, il nostro Giuseppe pensava chissà a cosa.
Quel che si sa è che Giuseppe Di Melfi, essendo assai piccolino (era alto 1 metro e mezzo) rientrava nei "pesi mosca", categoria che comprende i pugili dal peso inferiore alle 114,6 libbre, 52 chili.
Una specialità che sempre ha fatto fatica a farsi strada negli Stati Uniti, dove il pubblico era più affascinato dai "giganti della boxe" come Rocky Marciano o Primo Carnera, italo americani anche loro, ma decisamente più famosi.
E decisamente più ricchi, visto che "la borsa" che vincevano dopo ogni incontro sembrava essere direttamente proporzionale al loro peso e alla loro altezza.

Quanto mi dispiace saper poco, pochissimo del nostro  Giuseppe. 
Ho impiegato giorni e giorni a cercar notizie, foto, appunti, a consultare archivi o vecchie tabelle di pugilato: ma non sono riuscito a far luce su tanti punti oscuri della vita da pugile professionista di Giuseppe Di Melfi.
Per esempio: so che gli era stato affibbiato un nomignolo ("the fighting newsboy", che più o meno potrebbe significare "lo strillone combattente", perché - come molti ragazzini dell'epoca - tirava su un po' di soldi vendendo i giornali e difendeva l'angolo nel quale si piazzava a suon di pugni...) ma all'inizio della sua carriera rinunciò al suo nome. Perché diavolo ne assunse uno finto non si sa: forse perché lui o il suo manager ritenevano quello vero troppo difficile? 
O forse perché era troppo "italiano", per una categoria già di per sé poco considerata negli States?

Sta di fatto che il pugile Giuseppe Di Melfi, diventato professionista nel 1912, cessò di esistere - almeno sul ring - per lasciar posto a "Young Zulu Kid"; ("il giovane ragazzo zulù") nome che oggi appare assai improbabile. 
Ma forse, per i tempi, con più "appeal".
Improbabile o meno, con quel nome "di battaglia" il nostro piccolo Giuseppe dal pugno di ferro iniziò - affamato come tutti gli italiani che in America si davano al pugilato - ad imporsi un incontro dopo l'altro.
Nel 1916 mise al tappeto l'allora campione dei "pesi gallo" Monte Attel, vincendo poi nello stesso anno un'altra sfida questa volta con Johnny "Kewpie" Ertle.

Gli Stati Uniti non degnarono praticamente di alcun interesse le categorie  "peso mosca" o "peso gallo" almeno fino a quando non giunse il momento di sfidare l'allora campione mondiale (inglese) Jimmy "Atomic" Wilde. 
Gli Usa, allora, raccolsero il guanto mandando all'Holborn Stadium di Londra il loro "peso mosca" migliore: "Young Zulu Kid", di Broccolino, New York City.
Il nostro Giuseppe Di Melfi, appunto.

Il 21 aprile 1917 uno dei più importanti giornali americani della costa dell'est, il "The Day" di New London, Connecticut, 


così annunciava (nel titolo!!) la sfida:
“Young Zulu Kid is not colored boy”
"Young Zulu Kid non è un ragazzo di colore".


Il trafiletto è tutto uno spiegare che, seppur "ad orecchio" quel nome poteva trarre in inganno e sembrare quello di un "colored boy" - di un afroamericano, si direbbe oggi - "Zulu è italiano, nato vicino a Napoli e compirà 21 anni domenica".
Per aggiungere, qualche riga sotto: "Zulu Kid è venuto in America quando aveva tre anni e combatte da cinque. Un paio di anni fa ha affrontato a New Orleans Kid Herman e Pal Moore dimostrando la sua classe contro numerosi  pugili della sua categoria".
"Zulu è già stato sconfitto da Wilde 'braccio di ferro' in Inghilterra, ma ha comunque ricevuto elogi dalla stampa sportiva britannica. Un paio di anni fa ha concluso in pareggio un incontro con Kid Herman (il cui vero nome, in realtà, era Pietro Gullotta!, NdA) e con Paul Moore", due dei "pesi gallo" più forti di tutti i tempi.

No, non vinse nemmeno quella volta il nostro Giuseppe. D'altronde Jimmy Wilde era uno dei più grandi boxeur di quei tempi: roba da 100 ko sui 130 incontri vinti.

Ma quell'incontro - terminato anche quello per ko all'11° round - fu sufficiente a far uscire dall'anonimato "Young Zulu Kid", il nostro Giuseppe Di Melfi, da Broccolino. 
Pardon, da Anzi, provincia di Potenza.
Furono le Olimpiadi di Anversa del 1920 a far cambiar la rotta, rendendo un po' più popolare negli Usa la boxe dei "pesi gallo" e dei "pesi mosca": quando cioè l'americano Frankie Genaro (qui sotto nella foto) vinse la medaglia d'oro. 
Genaro che in realtà si chiamava Franco Di Gennaro. Ad Ellis Island gli agenti dell'immigrazione storpiarono nome e cognome anche a lui, porello... 
Fu quella medaglia olimpica americana (ma tutta italiana) a dare la spinta perché fosse introdotta da allora anche negli Stati Uniti la categoria "peso mosca" fra gli incontri di boxe professionisti.

Gli mancò solo il titolo mondiale, al nostro Giuseppe Di Melfi, il quale, però - con i suoi 132 incontri ufficiali - una vittoria dopo l'altra riuscì a restare saldamente tra i primi dieci pugili professionisti della classifica mondiale di categoria per oltre 12 anni. 
Charley Rose, leggenda fra i manager della boxe Usa, lo ha posto alla decima posizione dei "pesi mosca" americani di tutti i tempi.
Nonostante i 132 incontri disputati, la carriera di "Guiseppe" Di Melfi, detto "Young Zulu Kid", non durò molto.
Così si ritirò dal ring, per venire assunto alla New York Transit Autority, l'azienda dei trasporti pubblici di New York, dove vi lavorò fino alla pensione.

Morì a New York il 1° aprile 1977, a 79 anni.

Suo figlio, Joseph Di Melfi, vive ancor oggi a Brooklyn. 
L'ho cercato, ma non sono riuscito a trovarlo.
Volevo solo dirgli che in Italia qualcuno si ricorda ancora di suo padre.
(A' Giusé: non è che questa notte me l'assesteresti per bene, dall'aldilà, un pugno dei tuoi, così me dò 'na svegliata?)



© dario celli. Tutti i diritti sono riservati

2 commenti:

  1. Dolce.
    Adesso lo conosco anche io.

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  2. ellis island
    la lampedusa di NY

    differenza li erano tutti in regola coloro che sbarcavano

    ciao cristian

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