PERSONE CHE HANNO LETTO O CURIOSATO

domenica 29 luglio 2012

Giorgio e gli altri

Ho visto gente piangere, quella volta (bell'inizio, eh?)...

Ho visto labbra serrate, occhi chiusi, o spalancati, di uomini e donne, piangere in silenzio. 
Lacrime che scendevano sulle guance di chi era di qua, con me, fra il pubblico, e altre - forse più paradossalmente composte - che scendevano sulle gote di chi era al di là della transenna di legno.

L'appuntamento era per le 11, e data l'occasione avevo lasciato a casa l'abbigliamento casual che sceglievo per andare al corso di inglese che seguivo, optando per un più formale vestito grigio chiaro, camicia azzurra e cravatta rossa di Gucci già citata in queste pagine, quella che metto per le "grandi occasioni". (Vi risparmio - anzi, no... - i cinguettii delle mie compagne di classe giapponesi, nemmeno poi più tanto ragazzine, quando girando la cravatta con venerazione quasi fosse stata una reliquia di San Domenico Savio, videro la marca: "Oooohh... Uuuuhhh... Iiiiihhhh... Ghiuciiiiiiii!!").

Il permesso di entrata mi fu firmato da un dirigente del Department of City Planning di New York, Joseph J. Salvo, che non fece alcuna difficoltà quando gli chiesi se era possibile assistere alla cerimonia, che a Manhattan si svolge, se non sbaglio, ogni settimana. 
Ho ritrovato - e spiegherò più avanti il perché ho cercato gli appunti che presi allora (era il 1998) - il piccolo quaderno dove avevo annotato il suo indirizzo e il suo telefono.


E così, non poco emozionato, mi trovai dentro un'aula di tribunale, simile proprio a quelle che di vedono nei film. Anzi, uguale-ugualissima a quelle che si vedono nei telefilm della serie Law&Order, che infatti si gira proprio lì, in quel palazzo stile classico (piace tanto, agli americani, lo "stile classico greco-romano" per gli edifici pubblici) della parte bassa di Manhattan, dove si trovano vari uffici amministrativi di New York: la City Hall (il Municipio), l'ufficio delle tasse, della Polizia, i tribunali...
Ground Zero è lì, non molto lontano, al di là della Quinta strada.


Arrivai che mancavano pochi minuti all'inizio della cerimonia di naturalizzazione. Per tutti coloro che erano lì, era il "gran giorno". Tutti erano ai loro posti: chi da lì a poco sarebbe diventato finalmente american citizen, "cittadino americano", i loro parenti dietro alle transenne (in mezzo ai quali mi ero intrufolato io), i poliziotti, i funzionari del palazzo di Giustizia.
Poi, proprio come nei film, da una porta posta a fianco lo scranno del giudice uscì un impiegato che con vocione baritonale urlò qualcosa. All'istante tutti si alzarono in piedi e ammutolirono.

E' straordinaria la cerimonia di giuramento alla quale partecipano tutti coloro che chiedono la cittadinanza americana. Non è come è quella ho visto nei nostri Comuni per la cittadinanza italiana, cerimonia che è "singola", con gli immigrati che giurano uno ad uno di fronte soltanto al funzionario comunale e un paio di loro amici  testimoni. No, qui negli Usa (forse per ovvie questione di numeri) il giuramento è di gruppo: un centinaio o più di persone la volta.

Il breve discorso del giudice, sorridente ed informale, precede l'invece solenne cerimonia, durante la quale tutti i "neo cittadini" prestano il loro giuramento.

E così, quell'arcobaleno di facce alza la mano destra per giurare fedeltà alla Costituzione e alla loro nuova Nazione.
Gli Stati Uniti d'America.

Il testo del giuramento americano è un po' drastico, laddove recita che si "rinuncia e si abiura" qualsiasi nazione straniera e si giura di servire gli Usa nell'esercito, se necessario.
Il testo non dice, però, che sono previste un bel po' di eccezioni via via introdotte dai legislatori, e che la formula da recitare può essere modificata in rispetto delle tradizioni e della  fede religiosa di ognuno. E' sufficiente comunicarlo prima e, appunto, rimarrà agli atti; per esempio - com'è noto - laddove c'è "reciprocità legislativa" si può mantenere se lo si vuole anche la cittadinanza (e il passaporto) del Paese d'origine. 


E' un momento solenne, quello, che definire "serio" è riduttivo. Guardandomi intorno, mentre i neo cittadini recitavano la formula, mentre cantavano poi l'inno nazionale americano, mi rendevo conto che quello, davvero, per tutti era la svolta della vita, rincorsa per tanto tempo.

D'altronde c'è chi arriva a quel punto dopo tre anni di matrimonio con un cittadino americano, sì; ma la maggior parte giunge in quell'aula dopo i cinque anni di Green Card e, spesso, dopo anni di clandestinità.
Basta guardare le espressioni - gli occhi, le labbra - di chi in quel momento è lì, con la mano destra alzata o sul cuore, fissate in queste foto. 
Ecco, in quel momento ho pensato davvero che avrei voluto essere dentro ognuna di quelle persone: nel loro cervello per sapere cosa pensavano, nel loro cuore per ascoltare come batteva e cosa sentiva.





Poi, uno per volta, i nuovi cittadini americani sono stati chiamati da un funzionario per la firma dell'atto, e che ha consegnato loro una copia della Costituzione Americana e della Dichiarazione di Indipendenza, una bandierina degli Stati Uniti, il certificato di cittadinanza con il quale avrebbero potuto ritirare il nuovo passaporto, quello americano, e il "diploma" di cittadinanza che molti appendono poi in casa. "Congratulazioni: lei è diventato cittadino degli Stati Uniti d'America", viene detto loro prima del congedo.
E' un momento emozionante, che (a quel punto nel casino generale) viene immortalato da amici e parenti. Che hanno apposta una macchina fotografica per ricordarlo per sempre.





















Improvvisamente, nella confusione di chi viene festeggiato da parenti e amici fra foto e abbracci, mentre ancora è in svolgimento la chiamata, sento nominare un cognome italiano. Allungo il collo e vedo un signore anziano che va dalla funzionaria, ritira il tutto (bandierina compresa) e se ne va, stringendole la mano con un leggero cenno di inchino del capo. Lo seguo con lo sguardo, con la paura di perderlo fra la folla; poi vedo che si avvicina ad una signora bionda che lo stringe in un lungo abbraccio.
Prendo coraggio...

Mi racconta che lui è, anzi, era, italo-argentino: là arrivò bambino con i genitori, emigrati da Veneto. Con un buffo italiano, mezzo argentino e mezzo americano, mi dice che dopo aver vissuto una vita in Argentina,  diventato vedovo, durante una crociera ha conosciuto "questa bellissima donna americana"; che, sorridendo, mi presenta. Che corteggiò, mi disse, con "paziente sapienza italo-argentina".
E come può resistere, una donna americana seppur di una decina di anni più giovane, di fronte a cotanto fascino, a cotanta costanza e cotanta sapienza...

Si era trasferito a New York, lasciando in Argentina i suoi figli e i suoi nipoti, perché decise che era venuto il momento di ricominciare da zero quel che rimaneva della sua vita.
Lui e la sua donna si sposarono, e dunque dopo tre anni aveva acquisito il diritto di essere cittadino americano. 
Ed eccolo qui.

Ho messo sottosopra mezza casa, questa mattina per trovare, anzi, ritrovare, il suo nome e cognome. Sotto una montagna di mezzo metro di carta, ho incredibilmente visto il taccuino di quell'anno, con tutto il mio diario di viaggio del 1998. Fra le tante pagine, c'era anche quella dove avevo scritto l'indirizzo del giudice Joseph J. Salvo (quella che avete visto sopra...), ma non ho (ancora) capito dove diavolo io possa aver scritto quel giorno - visto che non c'è - l'indirizzo del signore italo-argentino.
Anzi, da quel momento italo-americano.

Perché dopo aver ascoltato la sua storia che mi raccontò tutto felice, gli chiesi anche se potevo fargli una foto, promettendo che gliela avrei inviata. 
Un ricordo per me e per lui. 
Una promessa che non sono riuscito a mantenere.
Mannaggia a me e al mio disordine: quando ci penso, non mi do pace. Dove diavolo sarà finito, quell'indirizzo... Difficile trovarlo, dopo tre traslochi.
E chissà se lui avrà mai pensato alla foto...

Mi è venuto in mente tutto questo l'altro giorno, quando ho ricevuto un breve messaggio dall'America del mio amico Giorgio.
Si tratta di quel breve messaggio che ho trascritto nel mio profilo di Facebook "fra virgolette", come si deve con le citazioni, ma che molti hanno equivocato, pensando che fosse un mio messaggio, che fossi io, il soggetto.

Due brevi righe che mi hanno fatto venire i brividi alla schiena, quando le ho lette:
"Ehi! Oggi, 26 luglio 2012, sono diventato cittadino degli Stati Uniti d'America!
Se penso che quando sono arrivato ero un clandestino...".

La sua straordinaria storia - la storia di una normalissima persona che ce l'ha fatta a raggiungere un sogno che sembrava impossibile - la potete leggere cliccando QUI

© dario celli. Tutti i diritti sono riservati

12 commenti:

  1. Grazie per aver condiviso questa esperienza, Dario. Per tante persone dev'essere davvero il coronamento di un sogno, raggiunto dopo sacrifici e con tanta forza di volontà.

    E' interessante il riferimento che fai al concetto di "reciprocità legislativa", che non conoscevo. Secondo te si applica anche agli italiani che acquisiscono la cittadinanza americana (possono quindi mantenere anche quella italiana)?

    Grazie. Ti leggo sempre con piacere.

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    1. Esatto, Gianluca: gli italiani che diventano cittadini americani possono mantenere la cittadinanza italiana (in pratica avranno il "doppio passaporto"). Devono soltanto - come ho accennato in parole povere - scegliere la cittadinanza "principale".
      Normalmente gli italiani che diventano cittadini americani PRENDONO la cittadinanza americana e MANTENGONO come seconda quella italiana.

      Grazie per i complimenti, Gianluca...
      Stay tuned!

      d.

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    2. Grazie a te per la risposta precisa ed esaustiva, Dario.
      I will (stay tuned)! ;)

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  2. Un sogno... che non riesco a vedere...

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    1. (Shhh... I sogni si realizzano quando meno te lo aspetti...)

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  3. il nostro giorgio

    cristian

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  4. questo post è incredibile.
    grazie a un tuo commento sul mio blog sono capitata qui e mi sono emozionata. E non è che lo scrivo tanto per scriverlo.
    Quelle foto sono incredibile e anche io pagherei per sapere cosa stavano pensando quelle persone...
    chissà se un giorno...

    grazie

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    1. Grazie a te, Elena, per le tue parole...
      E stay tuned!

      d.

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  5. ....il pensiero di quelle persone...? "...adesso posso cominciare davvero! Richiamerò finalmente la mia famiglia, e avremo tutti un futuro migliore".
    Mio Nonno pensò questo, mescolato ad altre decine di persone.
    Mio Padre, da solo davanti al Giudice pensò che l'Italia era così diversa e così lontana.....

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    1. ...che fine ho fatto? Vivo in un paese che mio malgrado mi è stato imposto ma che non ritengo mio....nel frattempo .... sogno!

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    2. E cosa stai facendo per realizzare il tuo sogno?

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