E' facile scrivere, lamentarsi, immaginare - ma sì, fantasticare - finché si sta in Italia.
Facile scrivere (e pensare!) "Oh come vorrei andarmene!", "Non vedo l'ora di farlo!", "Prima o poi vi mollo (più o meno) tutti!" e così via...
Poi mi capita di pensare a come sarebbe veramente, e non so darmi risposte. Ci ho pensato - ancora una volta - ieri, per via di una stupida questione di armadio.
Guardavo la mia casa, i suoi (pochi) mobili, le montagne di cose cartacee che conservo, le foto appese, i libri, i piatti, il tappeto, Sofia (Sofiacanaamoremio...) e mi chiedevo: "Ma sarai capace davvero - DAVVERO - di mollare tutto e di ricominciare da zero in America?".
Credo di poter individuare, in questo senso, una serie di "fasi" nelle persone che sentono, o hanno sentito, l'esigenza di cambiare in qualche modo vita.
La prima è il fantasticare e bon.
La seconda è iniziare a leggere cosa scrivono le persone che hanno fatto questa scelta. (E questa opzione può durare anni...).
La terza è iniziare a parlarne, seppur ancora basando tutto sulle intenzioni teoriche.
Una diretta conseguenza di questa terza fase è la quarta, che porta a documentarsi (più o meno...) seriamente, mettere da parte, o memorizzare, appunti, ritagli, siti, blog, e iniziare a frequentare prima come osservatore, poi più "attivamente", forum sull'argomento, e poi sottoforum che si concentrano sui luoghi al centro dei nostri interessi, dei nostri sogni.
Il tutto, magari, mentre si iniziano a frequentare quei luoghi come turisti/viaggiatori, cercando di vederli dopo le prime volte con occhi più "critici"...
Quando questa quarta fase si consolida, si arriva ad un certo punto che si sa praticamente tutto.
Un punto in cui lo studio "teorico" è terminato, e che si dovrebbe, potrebbe, passare all'azione.
A quel punto arriva la quinta fase, composta in realtà, secondo me, da due sottofasi.
La prima (la "quinta fase a")ci porta a mollare, sopraffatti dalle stesse dettagliate informazioni che negli anni si sono raccolte, perché si sente il tutto "troppo pesante", "troppo impossibile", "troppo sogno"...
La "quinta fase b", invece, spinge ad agire. Con ulteriori altre due sottofasi: con prudenza (e relativa lentezza), la "quinta fase b1";
con speditezza, la "quinta fase b2".
La "quinta fase b1" credo abbia direttamente a che fare con un aforisma attribuito (ma mi pare che la cosa in rete sia - come al solito - controversa...) ad Oscar Wilde.
Quello che dice: "Attento a ciò che desideri: potrebbe avverarsi!".
A meno che non si imbocchi, con testa e cuore, con volontà e anche un po' di comprensibile paura e di incoscienza, la "quinta fase b2"...
Altrimenti, ecco che si torna alla settima riga di questo intervento: quella in cui mi chiedevo a come sarebbe veramente (e alle relative mancate - per ora - risposte).
So quello che io dico/scrivo agli altri, però.
Cioè ai tanti amici e amiche che mi raggiungono in qualche modo facendomi un sacco di domande, ritenendomi ormai un grande esperto. (Uuuhh, come son bravo da sempre a dar consigli razionali ed intelligenti... agli altri!).
Intanto dico che è legittimo immaginare (e anche sognare) una vita altrove (in qualunque altrove...). Poi a quelli che mi chiedono (in effetti un po' troppo) semplicemente "come si fa a trasferirsi in America?" rispondo che un traferimento si deve basare su un'approfondita analisi dei propri desideri, sulla conoscenza e sulle possibilità, e che trasferirsi negli Usa non è molto differente dal farlo all'interno dell'Italia.
Un mio punto forte è rispondere:
"Ma tu ti trasferirerti così, su due piedi, in base a consigli di sconosciuti, senza esserci mai stat*, da Quincinetto a Metaponto, o da Adrano a Bassano del Grappa, da Perdasdefogu a Firenze, o anche solo da Milano a Roma o da Torino a Roma? Evidentemente no! Chiederesti, leggeresti, ti documenteresti, e magari andresti anche a dare 'un'occhiata' iniziale a Metaponto, o a Bassano del Grappa, o a Firenze, o a Roma, o a Milano.
O sbaglio?...".
"Devi fare un piano.
Devi avere 'un piano'...".
Ma questa domanda non posso farla a chi è stato 12 (o son 14?) volte negli Usa. Come me, per esempio...
Ripeto (mi?) che non c'è in fondo molta differenza fra trasferirsi da Torino a Roma, come ho fatto io, nel 1987, praticamente senza paracadute, da solo, oltretutto.
Ovvio: Roma, allora, era distante sette-otto ore di treno.
Che però, a pensarci bene, non sono molto differenti a otto-nove ore di aereo. (Soldi a parte, ovvio...).
Certo, nel 1987 avevo 29 anni, e a Torino la radio dove lavoravo stava svaporando, abbandonando a se stesso e costringendo alla diaspora un collettivo di intelligenze che si sono dovute arrangiare altrove arricchendo poi quotidiani, radio, televisioni nazionali.
Fui decisamente fortunato, perché proprio un mese PRIMA del licenziamento - che sarebbe arrivato a fine febbraio - ricevetti una miracolosa e assolutamente inattesa telefonata durante la quale mi venne offerto un lavoro a Roma, seppur senza alcun contratto. "Famo 'na prova reciproca de sei mesi eppoi vedemo, ok?"...
Dunque tutto, davvero, dipende dall'età? Dall'incoscienza che ci pervade quando siamo giovani?
Ricordo benissimo chi mi fece quella telefonata e cosa mi disse: "Aò, so' anni che ce rompi li cojoni dicendo che vvoi venì a Roma, chiedendoci se cerchiamo quarcuno.
Ma te va davero de venì?
Aò, guarda che qui nun c'è nessun contratto, nun te ffa idee strane, eh?
Vie' qui, la casa te la trovi da te, e fra sei mesi vedemo che seppoffà. Magari prima o poi er contratto ce scappa...".
E ricordo benissimo come mi sentii quando ricevetti quella telefonata da Roma.
Ero nella mia piccola casa torinese di via Mazzini 36, che qualche anno prima era stata proprio la prima sede della mia Radioflash 97.7 che stava morendo.
Ricordo che abbassai la cornetta e piansi disperato.
Perché finalmente era arrivata l'occasione che speravo, perché finalmente sarei andato lontano, perché non sapevo cosa mi potevo aspettare, perché avrei dovuto abbandonare Torino la maledetta.
Quella Torino che con le gioie, e forse soprattutto con i dolori, mi aveva cresciuto.
E fatto maturare a forza.
Piansi perché avevo davanti l'incognito, e perché capii che il grande momento - quello di passare dai sogni alla concretezza - era inaspettatamente giunto.
Mai avuto, prima d'allora, un culo simile nella mia vita...
Ammettiamolo: quante volte succede di trovare un lavoro 34 giorni prima di perdere quello che si ha, e per di più senza nemmeno aver cercato ancora nulla né soprattutto cercato in quella direzione?
Era il mio sogno, allora, Roma...
Quelli sono davvero treni che passano raramente nella vita.
...
Beh, diciamo che quanto meno se vuoi sperare in un altro treno di quel tipo (casuale o meno), almeno dalle parti di una stazione ti devi mettere ad aspettare, no?
E un po' quel che dico alle mie amiche e ai miei amici storditi dall'ennesima delusione sentimentale: "Ok, stai chiusa/o in casa a lutto per tutto il tempo che vuoi, ma ad un certo punto basta. Apri almeno le finestre!
D'altronde non puoi pretendere che ti suonino al citofono dicendoti 'Immagino che tu sia senza fidanzato/a, ed eccomi qui che mi offro!'..."
Sorrido...
Dunque dico che a meno che non si conosce un/a americano/a e ci si innamora (possibilmente reciprocamente!), trasferirsi è frutto quasi sempre di un lungo, faticoso, meticoloso lavoro.
Un po' come cercare un lavoro: che, a mio parere, è appunto "un lavoro".
Mi spingo anche a fare lo spiritoso, consigliando, magari, di frequentare posti, luoghi, frequentati a loro volta da americani/e: "E chissà che Cupido non scocchi la freccia!".
Che poi è una cazzata fino ad un certo punto: prova ne siano tutte le amiche e gli amici che ora sono negli Usa proprio grazie all'amore...
Poi, lo riconosco, c'è la questione dell'età.
Un conto è cambiare vita a trent'anni (proprio come feci io, che di anni ne avevo 29), un conto a 40.
O, peggio?, a 50 passati.
Anche se (dannazione!) prima mi arriva il messaggio di My, uno dei protagonisti dei miei racconti, che mi scrive "L'America non guarda l'età ma guarda alla tua volontà"; poi mi arriva il messaggio di Franca e del suo compagno, che hanno fatto questo passo superati i 60...
E allora mi baso sulle esperienze degli altri, di coloro che l'hanno fatto questo salto. E che hanno sempre descritto come "convulsi", "un po' pazzeschi" gli ultimi giorni, l'ultimo giorno.
Quando ormai la decisione, però, era stata presa e tutto - a quel punto - appariva (era) in discesa...
Che spesso hanno descritto come faticosissima, questa loro scelta, piena di momenti di solitudine e di nostalgia (canaglia), ma quasi sempre giusta, con il senno di poi. Con la costante preoccupazione, che a volte si trasforma in angoscia, di non poter intervenire in tempo, se poi succede qualcosa in Italia.
Una scelta sofferta - una vita - che peraltro hanno già fatto svariate decine di milioni di persone, in Italia...
Considerazioni che cambiano decisamente se si tiene conto, però, il destino di eventuali figli.
Io, per ora sono qui.
Alla parte b1 della quinta fase.
Nel frattempo, quando trovo un blog di qualche fuoriuscito/a, vado sempre a leggere le pagine che riguardano gli ultimi giorni, il momento del distacco, financo al fatidico ULTIMO giorno.
Cercando di capire, di "sentire", come si fa, cosa si prova, a salutare gli amici, a fare i bagagli, lasciando gli affetti, la famiglia, i genitori, le sorelle, i fratelli, i compagni di scuola.
Come ci si sente a licenziarsi, a fare i bagagli, a scegliere cosa portarsi dietro, a sentire il rumore della serratura della casa (ormai ex casa) che si chiude.
Come ci si sente a chiudere tutto e voltare le spalle per andare dove non parlano la tua lingua, dove non ci sono radici...
Dove tutto, o quasi, è una incognita...
Mah.
Intanto mi limito a non stuzzicare troppo quel "timore" malandrino.
Quel desiderio che, davvero, potrebbe avverarsi.
Dal diario di bordo di Cristoforo Colombo:
"Tutto il venerdì e tutto il sabato, fino alle tre di notte, le navi galleggiavano immobili, in totale bonaccia.
E i marinai erano inquieti, poi spaventati, poi terrorizzati.
Sicuri di essere arrivati alla fine del mondo..."
(Venerdì 7 settembre 1492)
(Venerdì 7 settembre 1492)
Trentadue giorni dopo, alle due di notte, il marinaio Juan Rodriguez Bermejo era sulla coffa - la piattaforma di avvistamento sull'albero principale - della Pinta, una delle tre caravelle.
Improvvisamente vide prima il profilo di qualcosa sull'acqua, illuminato dalla luna.
Si stropicciò gli occhi e trattenne il fiato, senza dire una parola.
Poi, subito dopo, vide delle luci tremolanti.
Cazzo!
Erano, non potevano che essere, dei fuochi accesi!
Ebbe un altro comprensibile momento di esitazione, il nostro Juan Rodriguez: si stropicciò ancora gli occhi.
Guardò meglio...
E poi ancora meglio.
Poi alzò il braccio, indicò quel Nuovo Mondo e prese fiato.
E con tutta la voce che aveva in gola, svegliò tutti i marinai della Pinta gridando
"Terraaaa!!".
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