Cari amici,
qualche volta il titolo del mio raccontino qui su "Aria Fritta" mi viene subito, al volo.
Spesso ancor prima di iniziare a scrivere...
Questa volta, invece, di titoli me ne sono venuti in mente almeno sei: "La casa di Vera", "La vendetta di Vera", "La resistenza di Vera", "Vera contro Golia", "La soddisfazione di Vera", "Il trionfo di Vera".
Che scemo che sono...
Con i possibili titoli che mi sono frullati in testa, vi ho praticamente anticipato la trama di questo nuovo racconto.
Un racconto vero, come sempre.
Così come "Vera" è il nome della nostra amica di oggi.
Vera, che di cognome fa "Coking".
Eccola qui sotto, mentre - tutta affannata, concentrata e con l'espressione abbastanza arrabbiata e indignata (e come vedremo ne aveva tutte le ragioni...) - frequentava i corridoi del Palazzo di Giustizia di Atlantic City, New Jersey.
Oggi dunque siamo qui, nella "città del gioco" della East coast americana.
Che per secoli fu solo paludi e isole abitate tranquillamente dai nativi americani "Lenape", almeno prima che i coloni inglesi e francesi li cacciassero via verso la fine del 1700.
Città del New Jersey non lontanissima da Nuova York - poco più di 200 chilometri - Atlantic City, nelle intenzioni degli amministratori locali, avrebbe dovuto spodestare la "game city" del gioco d'azzardo del lontano west americano, Las Vegas.
O almeno tentare di farle un po' di concorrenza...
Nella foto di qui sopra, come accennavo, la nostra Vera Coking è stata immortalata da un fotoreporter di un quotidiano locale nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Atlantic City.
Per un bel pezzo della sua vita, infatti, la donna ha avuto il suo bel da fare per risolvere una "piccola" questione legale.
E con un giovanotto che nella foto praticamente non si vede, anche se gli sguardi dei presenti (il poliziotto, il fotografo e la persona che gli era di fronte) erano rivolti tutti a lui.
Si tratta di quel signore nascosto dal tizio con la mano in tasca alla destra di Vera.
Di lui - l'altro nostro protagonista di questa storia - in quella foto si intravvede appunto soltanto il vestito nero, la camicia bianca, una minuscola striscia di cravatta rossa e i pugni delle mani che lui sbatte fra loro.
Atteggiamento in effetti non proprio rassicurante.
Uh, quanto stava antipatico a Vera quel giovanotto!
Lo considerava soltanto un bambino viziato e arrogante.
(Per la verità, di lui, diceva cose ben peggiori: più avanti citerò fra virgolette - per puro dovere di cronaca, sia ben inteso - le pubbliche dichiarazioni su di lui che la nostra amica rilasciò negli anni ai giornali; tanto per farvi capire quale fosse il suo pensiero).
Ma per raccontare e capire meglio la vicenda, anche questa volta dobbiamo fare un passo indietro.
Fino al lontano 1961, quando Vera e suo marito Raymond acquistarono ad Atlantic City una palazzina di due piani al numero 127 di South Columbia Place.
Che possiamo vedere qui sotto:
Un sogno che stava per realizzarsi.
Nei loro progetti, i coniugi Coking l'avrebbero trasformata in un piccolo albergo, di quelli che oggi verrebbero definiti "boutique hotel": tranquillo, stiloso, intimo. Meravigliosa bomboniera di 29 camere, rifugio estivo per clienti in cerca di pace, che lì avrebbero trovato tranquille e romantiche stanze.
Lì, nel loro piccolo "Sea Shell Rooms", "Le Camere delle Conchiglie di Mare". Questo il nome del loro piccolo sogno, che si trovava a un centinaio di metri dall'Oceano.
Si trattò di un acquisto assai "impegnativo" per le loro finanze: nel 1961 dovettero infatti sborsare ventimila dollari, che corrispondono più o meno a mezzo milione di dollari attuali.
Ma i coniugi Coking erano certi che quello sarebbe stato un buon investimento.
E infatti, con gli anni, la posizione della loro piccola palazzina iniziò a fare gola a molti.
Nemmeno dieci anni dopo, per esempio, in previsione di una successiva ulteriore "esplosione" turistica di Atlantic City, Vera e Raymond ricevettero un'incredibile offerta nientemeno che da Bob Guccione, americano figlio di immigrati siciliani, che forse avrete sentito nominare perché fondatore della rivista patinata "Penthouse", nata per far concorrenza al già affermato "Playboy".
Penthouse che divenne immediatamente nota fra i giovani maschietti di metà anni '60 perché - prima volta in una rivista "per adulti" - mostrò il pelo pubico delle modelle.
(Narra la sua biografia che prima di intraprendere la carriera di artista-editore porno, il nostro Bob volesse farsi prete.
Ma non voglio assolutamente insinuare che vi siano correlazioni fra questi due eventi...).
Come forse saprete, la parola "Penthouse" in americano significa - letteralmente - "Attico", "Piano attico": sinonimo di lusso ed esclusività che negli ascensori dei condomini e degli alberghi americani viene normalmente abbreviata con le lettere "PH".
Personalmente mi ha sempre fatto sorridere che una rivista erotica si potesse chiamare "Attico"...
Insomma, Bob Guccione - assetato di metri cubi a quel tempo "preziosi come l'oro" ad Atlantic City - per la piccola palazzina di Vera e Rymond Coking si disse pronto a staccare un assegno da un milione di dollari per dar spazio, dopo un'inevitabile demolizione, ad un parcheggio a silos del suo "Penthouse Boardwalk Hotel and Casino".
Per la miseria: UN MILIONE DI DOLLARI!!
Cifra corrispondente a 3 milioni e mezzo di dollari di oggi.
Più o meno la stessa cifra in €uro.
Ma loro, niente.
Offerta respinta al mittente.
Che Bob si tenesse pure il suo milione...
(Ah, ora che ci penso, la nostra storia avrebbe potuto intitolarsi anche "Nessuno tocchi i Coking: è meglio per voi"...
E qui sorrido...).
Un po' italicamente sbruffone - oh, lo dico con affetto e simpatia, non vorrei beccarmi un'eventuale querela dagli eredi! - Bob Guccione lo doveva essere.
Guardate, infatti, cosa successe alla casa di Vera e Rymond dopo che la coppia rifiutò di vendere la loro casa a lui...
Successe che il suo albergone, Bob Guccione lo iniziò a costruire lo stesso: per la precisione letteralmente intorno alla palazzina dei Coking, come possiamo vedere qui sopra.
Che così sarebbe stata praticamente circondata.
Ma la nostra amica Vera non si mostrò per nulla intimorita: basta osservarla nella foto di qui sopra, con lei lì in posa, fiera, davanti al suo romantico "Sea Shell Rooms" (che a questo punto avrebbe potuto ribattezzare "Fort Apache Hotel") letteralmente assediato dalle strutture portanti in ferro del nascente albergone di Guccione.
Possiamo immaginare quanto l'editore miliardario fosse indispettito per non essere riuscito ad entrare in possesso di quei metri cubi, perfetti per il parcheggio multi-piano del suo nascente albergo attiguo.
Vabbè...
Alla fine Bob Guccione non se ne curò molto: intanto avrebbe costruito l'albergo.
All'insulsa casetta dei Coking, ci avrebbe pensato più avanti.
Le cose, però, non andarono esattamente come l'imprenditore italo-americano immaginava (o sperava...).
Rimasto a corto di liquidità, Guccione fu infatti costretto a sospendere e poi interrompere i lavori, con lo scheletro triste e solitario del mega albergo che per tredici anni restò attorno alla casa dei Coking così, nudo e incompiuto.
Bob Guccione che preferì gettare la spugna passando la "patata bollente" ad un nuovo acquirente.
Che se la vedesse "lui" con quella coppia di vecchi testardi che non volevano vendere quei due insignificanti piani di mattoni bianchi.
"Lui": universalmente conosciuto per essere imprenditore di successo, senza scrupoli, costruttore che mai si era fatto scappare un affare con potenzialità redditizie.
Lui.
Che di nome faceva Donald John Trump.
A questo punto possiamo ritornare alla foto iniziale. Quella in cui Vera usciva di corsa - peraltro vittoriosa - dal Palazzo di giustizia di Atlantic City.
In quella foto, del Donald Trump di allora (era il 1993, quando il tycoon ancora non si sognava nemmeno lontanamente di buttarsi in politica...), si intravede - a sinistra - solo la parte superiore della capigliatura, al tempo ancora castana, prima che esagerate tinture la trasformassero in biondo platino.
Come ho accennato all'inizio, la nostra Vera non lo sopportava. Anzi, diciamola tutta, lo odiava cordialmente. Per la verità probabilmente ricambiata.
Odiava la costante arroganza di quell'uomo;
il suo piglio cinico, freddo, disumano;
le sue smorfie piene di disprezzo;
le sue risate volgari;
il suo sguardo da "io so' io, e voi non siete un ...";
il suo atteggiamento costantemente altezzoso, supponente, la sua postura con quel mento alzato per rafforzare quel suo sguardo "sempre dall'alto", forte del suo metro e novanta d'altezza.
Niente: lei proprio non lo sopportava, Trump.
Il quotidiano dello Utah "Desert News" si divertì a raccogliere diligentemente alcune dichiarazioni che negli anni la nostra amica rilasciò sul suo vicino di casa.
Forte dalla simpatia che provocava nell'opinione pubblica - e dall'alto dei suoi settanta e poi ottanta anni - di volta in volta la nostra amica Vera definì Donald Trump "una persona impossibile", e poi "una briciola", e "un verme", financo "uno scarafaggio".
Che - come leggo in un sito a lui dedicato (allo scarafaggio, non a Trump...) - "trattasi di un insetto veicolo di numerose malattie che insozza ogni cosa con le proprie feci e la sua maleodorante saliva".
Non gliele ha mandate a dire, insomma...
La nostra amica, peraltro, rincarò la dose nel corso di una puntata della trasmissione "Real PeopleTv" del novembre 2017:
"Io dovrei vendere a lui? Ma non se ne parla proprio!
Questa è la mia casa, il mio castello, è la casa dove è cresciuta la mia famiglia!
Non la vendo per nessuna cifra al mondo, e tantomeno poi a quello lì!".
Con la giornalista che non riusciva a trattenere la risata mentre Vera Coking ribadiva: "Non la venderò mai. Almeno finché sarò in vita io!".
"Never, never, never!"
"Mai, mai e poi mai!".
Per la verità, a fare gola a Trump, oltre alla casetta dei Coking c'erano anche un piccolo ristorante-pizzeria italiano lì vicino - il "Sabatini's", di Vincenzo e Clara Sabatini, nella foto qui sotto - e il banco dei pegni "Isola d'oro", che comprava oro, preziosi e orologi dai giocatori d'azzardo bisognosi di contanti.
I Sabatini decisero quasi subito di "gettare la spugna" accettando l'offerta di Trump (pare 2.100.000 dollari).
"E' giusto così: chiudiamo la questione. D'altronde anche per noi stava arrivando l'età della pensione...", dichiararono con un tono a metà fra il rassegnato e il consolatorio.
Mentre il titolare del banco dei pegni "Isola d'oro", dovette accontentarsi (anche in questo caso, "pare") di 1.600.000 dollari.
D'altronde ad Atlantic City tutti si accorsero immediatamente che Donald Trump era potente e con gli "agganci giusti" anche solo dal fatto che nel marzo del 1982 la Commissione di Controllo dei Casinò del New Jersey gli rilasciò la necessaria licenza dopo un colloquio di sole due ore, quando normalmente erano invece necessari svariati mesi di istruttoria prima di avere una risposta, positiva o negativa che fosse.
Dunque i loro lotti, demoliti, si trasformarono in un grande prato a fianco della fermata dei taxi vicino al casinò.
I Coking, invece, niente.
La loro posizione era irremovibile: non avevano nessuna intenzione di arrendersi e anzi decisero di portare la vicenda in Tribunale facendosi tutelare da "Institute for Justice", organizzazione americana di avvocati "pro bono" (gratuiti) la cui missione - riporto fra virgolette ciò che è scritto nel loro statuto - consiste "nel porre fine agli abusi del potere governativo al fine di garantire i diritti costituzionali che consentono a tutti gli americani di perseguire i propri sogni".
E fu lì, in tribunale, che gli avvocati di Vera e Rymond Coking riuscirono a demolire la linea difensiva dei legali di Donald Trump.
I quali tentarono di appellarsi (cercherò di spiegarlo in parole povere, e mi scuso se non saranno giuridicamente precise...) al criterio del "dominio eminente": cioè al fatto che, pur essendo privata, l'iniziativa della società di Donald Trump avrebbe agito per un "interesse pubblico", in quanto grazie ad essa "sarebbe stato realizzato un giardino riccamente alberato a gratuita disposizione della cittadinanza, unitamente ad un parcheggio aperto a tutti e ad un'utile area per le limousine in attesa dei passeggeri".
Concetto di "Dominio eminente" che è presente nei nostri ordinamenti fin dal Medio Evo, quando indicava la "supremazia del Principe su tutto il territorio in quanto tutore supremo del bene pubblico".
Interpretazione che in questo caso trovo assai più calzante...
La trattativa andò avanti senza esclusione di colpi, con i coniugi Sabatini che denunciarono di essere stati sottoposti ad insopportabili pressioni: "Ad un certo punto spuntarono dei filibustieri che vennero da noi 'consigliandoci', diciamo così, di vendere, altrimenti, ci dissero, rischiavamo di essere portati fuori dal nostro ristorante in manette... Magari bluffavano: ma se invece avessero avuto ragione??
A quel punto abbiamo deciso di dire 'basta' e di vendere: siamo troppo vecchi, ormai...", dichiararono sconsolati alla stampa.
Tesi sul "dominio eminente", che peraltro venne respinta l'anno successivo da un giudice di Atlantic City, secondo il quale, appariva evidente che sarebbe stata la proprietà Trump a divenire la principale, se non l'unica, beneficiaria dell'operazione.
La vicenda giudiziaria arrivò fino alla Corte Suprema del New Jersey, che dopo cinque anni di udienze e perizie diede ancora ragione ai Coking.
Anzi, alla signora Vera, nel frattempo rimasta vedova.
La sentenza stabilì che lei aveva tutti i diritti "a mantenere integra e per sé la proprietà" poiché, alla fine, il Governo (per la precisione l'Agenzia Statale "Casino Reinvestement Development Authority") non sarebbe stato per nulla il destinatario finale del bene, in quanto risultava evidente che in realtà lo avrebbe poi surrettiziamente ceduto in uso ad un privato.
Donald Trump, appunto.
Entrando nel merito, il giudice Richard Williams sentenziò viepiù che "non vi erano sufficienti garanzie che la Trump Organization avrebbe utilizzato il terreno in modo appropriato", esistendo l'oggettivo e ragionevole rischio che le proprietà in oggetto potessero essere poi utilizzate della stessa "Trump Organization" per altri scopi non a vantaggio della cittadinanza.
Come, per esempio, ampliare ulteriormente il casinò.Casa da gioco - disegnata dall'architetto americano Alan Lapidus, specializzato nella progettazione di hotel-casinò - che costò un miliardo di dollari e che venne inaugurata il 15 maggio 1984, con festeggiamenti colossali.
Negli anni, il "Trump Plaza Hotel and Casino" fu frequentato dai più importanti Vip americani di quel periodo, come Madonna, Mohamed Alì, Barbra Streisand, Oprah Winfrey, Mick Jagger, per fare solo alcuni nomi.
All'interno di esso, per svariati anni, si svolsero poi anche i campionati mondiali di Wrestling, e incontri di boxe, mandati in onda dalle tv di tutto il mondo.
Quasi schiacciata dal gigantesco palazzone, resisteva la casetta di Vera Coking, la quale venne considerata dall'opinione pubblica la classica "eroina americana": donna sola contro i potenti e contro lo strapotere dei soldi.
Una sorta di "Davida contro Golia", titolò un giornale.
Proprio come visivamente risultava essere quella piccola palazzina di inizio '900 messa a confronto con il vicino, moderno e gigantesco, "Trump Plaza".
Ma per la nostra amica Vera Coking, le soddisfazioni non erano finite.
Nel 1993, infatti, l'incombente "Trump Plaza" - il gigantesco hotel casinò di Donald Trump, 8.471 mq, 906 camere, sette ristoranti, centro benessere, 39 piani per 98 metri di altezza, fiore all'occhiello di Donald Trump - iniziò a manifestare i primi segni di crisi: i costi erano altissimi e i clienti sempre meno.
D'altronde i giocatori dell'est americano non dovevano più per forza andare ad Atlantic City per "divertirsi" scommettendo: nel 2018, infatti, la Corte Suprema ha posto fine al divieto federale sulle scommesse sportive.
Nel settembre dello stesso anno la situazione iniziò a precipitare: per il Trump Plaza Hotel & Casino prima venne dichiarato lo stato di crisi, poi i 1300 dipendenti vennero licenziati, provvedimento che anticipò di qualche settimana la totale chiusura dell'albergo e la messa in vendita dell'edificio.
Brutta pubblicità per Donald Trump, che fece causa (senza però vincerla) affinché il suo nome venisse subito rimosso dal suo mega albergo non più attivo.
Nel 2014 l'epilogo: come spesso accade negli Usa, piuttosto che la sopravvivenza di un palazzone buio e vuoto, venne ritenuta più conveniente e più pratica la sua completa demolizione.
Anche perché nel frattempo vetrate e pezzi di cornicioni esterni del Trump Plaza, ormai in stato di abbandono, cadevano in strada mettendo in pericolo passanti e auto.
Eventi che spinsero il sindaco di Atlantic City, Marty Small, a dichiarare la situazione un "pericolo imminente" e a ordinare l'immediata demolizione dell'edificio.
Non solo: il sindaco attaccò duramente il proprietario: "Donald Trump ha apertamente preso in giro la nostra città, dicendo che qui ha fatto un sacco di soldi. Poi, però, se n'è andato...".
La demolizione arrivò alle 9,08 del 17 febbraio 2021, con una "implosione" controllata di tremila candelotti di dinamite che in 19,5 secondi distrussero i 38 piani dell'albergo di Tump.
Una demolizione avvenuta in puro "Atlantic City style", con pubblico pagante: prezzo base del biglietto 10 dollari, biglietti "Vip" da prima fila a 600 dollari. Non solo: era prevista anche un'asta per stabilire chi avrebbe avuto il privilegio di premere il pulsante dell'esplosione.
"Un modo per fare il dinamitardo in modo legale", recitava divertito l'annuncio pubblicitario.
Ma poi non se ne fece niente e l'asta - che inizialmente si pensava avrebbe potuto raggiungere il milione di dollari - venne sospesa "per motivi di sicurezza" quando raggiunse i 175.000 dollari.
Proventi che comunque andarono al "Boys & Girls Club di Atlantic City", organizzazione benefica che fornisce servizi alle bambine, bambini e adolescenti della città.
Quel giorno però, la nostra amica Vera - la nostra eroina, la combattente ormai 91enne di Atlantic City - non c'era: dopo aver vissuto in quella casa per 32 anni, nel 2018 aveva ormai lasciato la città e il New Jersey, per trasferirsi nella più mite California dove - nella baia di San Francisco - da tempo risiedevano la figlia e i nipoti.
Il "Sea Shell Rooms" resistette ancora qualche anno, fino a quando la figlia della signora Vera decise di metterlo all'asta.
Valutato 995.000 dollari, se lo aggiudicò per 583mila dollari l'investitore Carl Icahn, 26° uomo più ricco del mondo (peraltro amico e sostenitore di Donald Trump). Il quale partecipò alla gara forse per fare a lui un favore, visto che aveva un debito proprio con la "Trump Entertainment".
583.000 dollari: prezzo decisamente inferiore rispetto al milione e ottocentomila dollari che a suo tempo Trump aveva offerto ai coniugi Coking per trasformare il loro alberghetto in un silos per auto...
Ed eccoci dunque alla fine, cari amici di Aria Fritta.
La nostra storia finisce il 19 novembre del 2014.
Gli americani sono più pratici di noi europei.
Noi siamo accumulatori seriali di edifici, di storia... Loro, invece, vivono la vita con più leggerezza e sanno liberarsi di ciò che poi, col tempo, rischia di divenire un peso, una "palla al piede".
E infatti anche Carl Icahn si liberò dell'ex albergo dei Coking: non con l'esplosivo (non c'era bisogno) ma con una semplice ruspa, che in un paio di giorni demolì il sogno di Vera e Rymond Coking.
Oggi, al 127 di South Colombia Place, al posto della Casa di Vera, c'è un grande prato con una decina di alberi e un parcheggio pubblico a 10 dollari al giorno.
E senza più l'incombente vicino Trump Plaza Hotel & Casino.
Sono certo che quando per televisione Vera Coking vide la demolizione dell'albergone del suo ex vicino di casa, un sorriso le sarà scappato.
Fu, in fondo, la vendetta del suo "Sea Shell Rooms".
La romantica vendetta di Vera.
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RispondiEliminaMa grazie!
EliminaChe bravo zio, bellissima storia!
RispondiEliminaGrazie, Davide!
EliminaFatti un giro da queste parti!