PERSONE CHE HANNO LETTO O CURIOSATO

giovedì 30 novembre 2023

Già, sono arrivati prima loro...

Che si correggano i libri di storia. 

Mi spiace per l'amico genovese Cristoforo Colombo, navigatore coraggioso e visionario, ma una cosa ormai appare certa: non fu lui ad arrivare per primo in America. 
Ormai c'è una (moderata) conferma del fatto che il continente americano venne "scoperto" almeno mezzo millennio prima del 1492.

Per la precisione, 471 anni prima. 
Il problema è che lui (Colombo) non lo sapeva, né, peraltro, poteva saperlo.

Gli studiosi, infatti, sono ormai certi che i primi europei a raggiungere le coste del "Nuovo Mondo" furono i Vichinghi, grande popolo di navigatori del nord Europa. 

Recenti studi dimostrano che a cavallo dell'anno Mille, infatti, per molte volte i Vichinghi si spinsero fino ai margini del mondo allora conosciuto.
In realtà, per loro, fu tutto abbastanza semplice: intrepidi esploratori da sempre, i vichinghi - 
come si evince dalla cartina qui sotto - seguendo le coste, da quelle atlantiche del profondo Nord Europa e della Groenlandia, navigarono verso sud arrivando a solcare il Mediterraneo, e spingendosi financo alle coste asiatiche del mar Caspio. 



Viaggi a lungo raccontati nelle tante saghe della letteratura norrena e, in tempi recenti, resi noti oggi dalla celebre serie tv "Viking". 
Che però è tutt'altro che fiction. 

Oggi, infatti, esistono prove che più di mille anni fa, - sotto la protezione dei loro dei - fra i vari margini del mondo allora conosciuto, con le loro imbarcazioni i Vichinghi raggiunsero anche le coste di un nuovo continente. 
Quello "americano".
Al tempo, ovvio, senza quel nome.

Le prime prove, i primi sospetti con le prime timide conferme, sono arrivate negli anni '60, quando archeologi e studiosi del nord Europa esaminarono con attenzione i resti di un centro abitato nell'isola di Terranova, 111 mila chilometri quadri oggi territorio canadese. 
Che è poi quella che, quando si è in viaggio in aereo diretti a Nuova York, vedendola sui video di bordo che tracciano la rotta ci dà l'impressione di essere ormai arrivati negli Usa.

Per essere più precisi, le prime conferme dirette delle sorti vichinghe nel continente americano sono infatti giunte dai resti di un antico villaggio con cimitero dell'isola di Terranova, in Canada, nella provincia di Labrador "Anse aux Meadows" ("Baia dei Prati").
L'incertezza venne eliminata grazie all'esame dei reperti rinvenuti effettuato attraverso la datazione "al carbonio 14", tecnica che permette di datare con precisione la data di un qualunque reperto archeologico.  

Un esame "esterno" aveva già peraltro dato una prima risposta: ricercatori olandesi avevano infatti verificato che alcuni resti lignei lì rinvenuti erano stati lavorati inequivocabilmente da popoli che usavano il ferro, materiale al tempo sconosciuto ai nativi americani.
Dunque prima del 1492. 

Successivamente gli stessi ricercatori sono riusciti a fissare con ancora più precisione la data della presenza vichinga in quella colonia: si trattava dell'anno
 1021
Su questo, ricercatori e storici hanno scritto libri su libri, ma la data fu determinata con questa precisione grazie alla minuziosa osservazione degli anelli di accrescimento dei tronchi lignei di quei resti, che in tutto il mondo terrestre presentano tracce provocate da una forte tempesta solare che avvenne nel 992 dopo Cristo: 
"Trovare il segnale della tempesta solare seguita da 29 anelli di crescita
ha spiegato in un articolo pubblicato dalla rivista "Nature" Margot Kuitems, ricercatrice dell'Università di Goningen, Olanda - ci ha permesso di concludere che quel legno fu tagliato una trentina di anni prima del 1021 d.C.".

Incredibile, eh?

Ovviamente non è chiaro quante spedizioni, in quei secoli, abbiano successivamente poi raggiunto ancora le coste di quel "Nuovo Mondo": quello che però per ora appare certo è che la sola colonia di L'Anse aux Meadows fu abitata da alcune migliaia di vichinghi (fra i tremila e cinquemila) almeno per una ventina di anni.
I resti di quella colonia si trovano in Canada, a sud della Groenlandia, nella parte più settentrionale dell'isola di Terranova - come da cartina qui sotto - e furono scoperti nel 1960 dall'esploratore norvegese Helge Ingstad e dalla moglie, l'archeologa Anne Stine Ingstad. 


Oggi viene ipotizzato che la colonia venne sfruttata soprattutto per far scorte di legname (ma anche di avorio di tricheco, pellame, pecore e grasso di balena) che in quel periodo in Groenlandia scarseggiavano, e di cui quelle terre vergini erano invece ricche.  
Territori che però vennero poi abbandonati a causa di alcuni decenni di gelo che resero quei luoghi umanamente invivibili.

Il loro "Cristoforo Colombo" si chiamava Bjarni Herjòlfsson, un mercante che 
intorno al primo secolo dell'anno Mille, dopo tre giorni di navigazione verso sud, raggiunse con 25 navi e 
400 coloni quelle nuove terre. 

Per la verità fu la ricerca del padre a spingerlo da quelle parti, genitore che pare lì vivesse da qualche tempo. 

A dimostrare che tutto questo non si trattava di una semplice leggenda tramandata oralmente, fu il ritrovamento nel sito archeologico di Blue Hill, nei pressi di Brooklyn, in Maine, del "Maine penny"un centesimo norvegese d'argento rinvenuto il 18 agosto del 1957 a un metro e mezzo di profondità da un archeologo dilettante, Guy Mellggren, moneta attualmente esposta presso la biblioteca di Stato ad Augusta, nel Maine.

                              

Una scoperta che è stata in grado di riscrivere la Storia. 

Si tratta, infatti, di una moneta utilizzata in Norvegia durante il regno di Olaf III°, che governò il Paese fra il 1067 e il 1093. 

La scoperta - davvero eccezionale - avvenne a Naskeag Point, negli Stati Uniti, nella Penobscot bay, nel Maine, a un centinaio di chilometri da Portland fra i resti di un villaggio abitato fra il 1180 e il 1235. 
Prova evidente degli scambi culturali e commerciali che, al tempo, erano già in corso fra l'Europa del nord e quel nuovo mondo.            

Un'altra prova degli scambi commerciali esistenti al tempo fra europei e nativi americani, è una citazione del 1347 presente negli annali d'Islanda, dove si racconta di una "imbarcazione carica di legname, con 18 uomini a bordo" proveniente dalla Groenlandia.

Si tratta, in assoluto, di una delle prime prove certe della presenza vichinga nel continente successivamente raggiunto da Cristoforo Colombo. 
E che, in qualche modo, confermano la veridicità di molte leggende tramandate dai Vichinghi e narrate abbastanza dettagliatamente, appunto, nei racconti orali di quel gruppo di popoli che dopo l'anno mille abitò le zone dell'attuale Germania e del nord Europa. 
E che confermano, in fondo, che - da che mondo è mondo - l'essere umano, si sposta, emigra, spinto dalla curiosità o dalla "semplice" esigenza di vivere meglio. 

Ridendo - come scrissero nel 1967 i ragazzi della "Scuola di Barbiana" di don Lorenzo Milani - dei "sacri confini delle patrie".



© dario celli. Tutti i diritti sono riservati 

mercoledì 11 ottobre 2023

La pietra di Gary

Lo ammetto: ne ho scritte di stupidaggini nella mia vita, per lavoro e per diletto, qui in queste pagine o altrove. Ma forse questa è una delle notizie più assurde delle quali mi sono occupato. 
Assurda, ma tutta vera. 


La storia di oggi inizia dalla California, che forse (non a caso) è lo Stato più ricco degli Usa, con i suoi 3.000.000.000.000 (tre mila miliardi!) di dollari d ricchezza. 
California che ha un tasso altissimo di imprenditorialità negli Stati Uniti. 
E infatti... 

E allora iniziamo a parlare di Gary Dahl, uomo eclettico nato in una famiglia semplice: madre cameriera, padre operaio in una segheria.
Due lavori che comunque permisero a lui di studiare fino a laurearsi alla Washington State University. 
Principalmente il suo lavoro era il pubblicitario, ma il nostro amico Gary un po' era anche "uomo d'affari". Una persona comunque sempre piena di idee. 


Come spesso succede, Gary racconta che l'idea migliore della sua vita gli venne in mente casualmente, mentre cazzeggiava al pub con alcuni suoi amici. 

Uno di loro, in particolare, raccontava che in quel periodo uno dei suoi figli lo tormentava - in modalità "martello pneumatico" -  sul fatto che desiderava, fortissimamente voleva, avere un cucciolo, un animale da custodire, curare, proteggere... 
E sapete quanto sanno essere insistenti i bambini quando deside
rano fortemente qualcosa, vero? 

Non so quante pinte di birra avesse ingurgitato il nostro amico prima che gli venisse in mente questa cosa: sta di fatto che pensò e disse ai suoi amici che ai bambini, in fondo, in questi casi va bene qualunque cosa. 
Basta solo che venga presentata loro in modo appropriato. 
Anche un pietra. 


Una pietra... 
Fammi pensare...

 
Ma certo! L'idea era perfetta: si trattava di creare una "pietra da compagnia".
Avete letto bene.

Una pietra, in fondo, "non mangia", "non sporca" e "non muore". (E semmai anche "morisse", poi è perfettamente e facilmente riciclabile...). 

Detto fatto. 

Il giorno dopo il nostro amico Gary andò in uno di quei grandi negozi "brico" che vendono prodotti per il fai da te" e vide delle pietre "da giardino" perfette per la sua idea: ciottoli, grigi o bianchi, grandi come una mano.
Ai quali era sufficiente trovare una "casa" dove essere messi, un contenitore qualunque.
Il più possibile semplice. 
 
Come quelle scatole di cartone forate, per esempio, utilizzate per vendere pulcini (veri). 

Gary dahl pet rock

L'idea gli piacque talmente, che Gary, per renderla economicamente più vantaggiosa si rivolse direttamente all'azienda messicana di Playas de Rosarito, Baja California, che estraeva quelle pietre. 

Acquistandole così "all'ingrosso".    


Per rendere poi più "credibile" il tutto, aveva deciso di allegare alla scatola un vero e proprio libretto di istruzioni ("La cura e l'educazione della tua pietra domestica" -, questo decisamente ironico) che conteneva tutte le istruzioni su come "accudire adeguatamente" la propria pietra domestica appena acquistata o ricevuta in dono. 


Lo so, starete sorridendo, o forse ridendo: ma ridendo e scherzando, quell'idea di Gary - nata in un pub con la mente forse un po' offuscata dai fiumi di birra - funzionò.

In pochi mesi, in particolare durante il periodo natalizio, negli Stati Uniti delle sue "Pet Rock", dei suoi "cuccioli di pietra", di quei suoi "sassi domestici" comprati ad un centesimo di dollaro l'uno, ne vennero venduti in tutti gli Usa, e solo il primo Natale, un milione di pezzi. 

Commercializzate al popolare prezzo di 4 dollari, fatti i conti, alla fine, le "Pet Rock" fecero guadagnare al nostro amico poco meno di 15 milioni di dollari. 
Ripeto: poco meno di QUINDICI MILIONI DI DOLLARI. Che corrispondono più o meno alla stessa cifra in €uro. 

Con i suoi guadagni, il nostro amico Gary aprì nel 1977 a Los Gatos, in California, il "Carrie Nation saloon", un bar che prende il nome dalla donna (Carrie Nation, appunto) che alla fine dell'800 era a capo di una banda di 
donne che avevano assunto come missione la distruzione letterale (a colpi di accetta e di mazze!) dei saloon dove i loro mariti erano soliti bere in abbondanza, arrivando poi a casa inesorabilmente ubriachi.  

E città dove, proprio lo stesso anno, nel 1977, è nato Netflix.


Ma queste sono altre due storie americane che prima o poi vi racconterò...
© dario celli. Tutti i diritti sono riservati 

lunedì 24 luglio 2023

Il cono di Antonio (o di Italo, o di Frank, o di Hernest, non si è capito bene...). Il cono dei tre cugini. Come un antico "m'ama, non m'ama...".

Che gli esseri umani siano geneticamente litigiosi non è una novità.
Che poi in particolare lo siano gli italiani, non ci stupisce certamente (giusto?).

Ma che anche l'invenzione del "cono" - inteso come "cono del gelato" - sia stata fonte, agli inizi del secolo scorso, di alterchi che hanno poi provocato financo cause e azioni giudiziarie, questa proprio credo che nessuno di noi potesse immaginarlo. 
Ma, appunto, quando ci sono di mezzo gli italiani sappiamo che non c'è da stupirsi troppo.
 
Come spesso succede in queste pagine, anche questa storia di Aria Fritta nasce agli inizi del 1900: per la precisione fra il 1902 e il 1903; anche se le origini della vicenda sono un po' confuse (e anche queste fonte di litigi...).

Intanto inizio a presentarvi i protagonisti di questo mio nuovo (e dolce...) raccontino: si chiamano Antonio, Italo e Frank


Antonio Valvona;
 e Italo e Frank Marchioni, questi ultimi fra loro cugini.

(Gloria eterna a loro! E nelle prossime righe capirete perché benedico la loro memoria...).

Dunque siamo agli inizi del 1900, quando nel Nuovo Mondo si era trasferito in cerca di fortuna il nostro amico Antonio, che, appunto, di cognome faceva Valvona: proveniva da Vodo di Cadore, in provincia di Belluno, dove di professione faceva il pasticcere.

 
Era pieno di idee, il nostro amico Antonio, e appena arrivò negli Usa capì immediatamente che quello era il luogo perfetto per chi in testa, di idee, ne aveva in cantiere e voleva realizzarle. 

Antonio, iniziò a produrre granite al limone, che venivano servite in piccoli bicchieri di vetro. 
Che ponevano però due problemi: il primo fu il materiale fragile, soggetto a pericolosi potenziali danneggiamenti. 
Il secondo è che sempre più spesso i clienti non li riportavano in negozio, portandoseli a casa. 
Con il guadagno che, dunque, si riduceva non poco. 

Da qui, l'idea di Marchioni: creare un contenitore sostitutivo commestibile e accostabile al gusto del gelato.
Come un biscotto, appunto. 

Il 3 giugno 1902, dunque, Antonio Valvona registrò a Nuova York il brevetto n. 701776: si trattava, dicono i registri dell'Ufficio Usa dei brevetti, di un "apparecchio necessario per la cottura di biscotti per gelato"

Qualche mese prima, giunto in America, il nostro amico Antonio aveva messo su una società con un suo compaesano, altro protagonista di questa storia: Italo Marchioni, originario di Peaio, che del comune di Vodo di Cadore è una frazione.

Anche questa, cari amici, è una storia di ragazzi, di ragazzi italiani d'altri tempi: pensate che Italo, infatti, aveva vent'anni quando dall'Italia arrivò ad Ellis Island in cerca di fortuna. 
Ve li immaginate, oggi, i nostri cocchi di mamma, emigrare in un altro continente a vent'anni? 

Italo si stabilì a Philadelphia, anche se dopo un po' di tempo si spostò a Nuova York.  

Ed era cugino di Frank Marchioni, anch'esso immigrato dalla stessa frazione del Cadore, con il quale (pare...) decise di registrare il brevetto di cui sopra.

Ora, come talvolta accade, fra i due cugini-soci iniziarono ad esserci discussioni e incomprensioni, che presto finirono in tribunale.
Frank infatti - già proprietario di una gelateria a Nuova York - accusò il cugino Italo di "violazione del brevetto". Il giudice però non gli diede ragione: rigettò il ricorso affermando che lui aveva semplicemente ri-brevettato nel dicembre del 1903 - un anno dopo, dunque - quel "biscotto a forma di cono".

Che è financo esposto al celeberrimo Moma di Nuova York.










Nella vicenda, poi, nel 1904 si inserì un terzo protagonista in questa storia: un pasticciere emigrato da Damasco, Siria, che si chiamava Hernest A. Hamwi e che vendeva dolci e biscotti alle fiere americane. 
Al quale, un giorno, proprio ad una fiera, Italo Marchioni - rimasto sprovvisto di piattini sui quali era solito vendere i suoi gelati - gli chiese aiuto: fu così che il pasticcere siriano si inventò, sul momento, uno strano "biscotto a forma di cornucopia".


Della vicenda esiste però un'altra versione, questa volta diffusa nientemeno che dall'italiana "Associazione Internazionale dei Produttori di Gelati": secondo la quale la storia dei coni gelato iniziò alla Fiera Mondiale di St. Louis (Missouri) del 1904.

Solo che le date parlano chiaro e mettono (parziale) ordine alla "vexata questio": la Fiera di St. Louis, infatti, si svolse nel 1904, mentre - come si può evincere dai registri dell'Ufficio Brevetti di Nuova York e 
come possiamo leggere nel progetto - la data di presentazione del brevetto risulta essere il 15 dicembre 1903.

brevetto del cono gelato

Ciò che ha provocato gli equivoci sulla paternità del "cono gelato" è che nel 1903, all'Ufficio Brevetti di Nuova York, Italo Marchiony (il cui cognome venne come al solito "americanizzato") presentò la domanda n. 701776 per brevettare lo stampo necessario per fabbricare coppe e cialde per gelati.
I
ndispensabile - si leggeva nella descrizione del prodotto che veniva brevettato - per "manipolare e modellare comodamente la pasta in forme insolite e finora mai create, a causa della delicatezza della sostanza e dalla difficoltà di staccare poi la sostanza dagli stampi".

Ecco dunque l'origine della controversia: il nostro Italo non brevettò tanto il cono, ma lo stampo per realizzarlo. Ma quando negli Usa ci sono di mezzo i soldi, si sa, occorre essere precisi. 

Il problema è che Frank - il cugino divenuto nel frattempo "ex socio" - si alterò comunque non poco e decise di rivolgersi alla magistratura. 
Una controversia che nel frattempo aveva coinvolto altri produttori di coni, tanto per complicare la vicenda.

Fino al 1914, quando la Corte d'Appello Federale di Philadelphia decise una volta per tutte che il brevetto di Frank Valvona "non impediva ad altri di creare differenti tipi di stampi"
Classica sentenza da Ponzio Pilato.

cono gelato

 


















Nel 1929, poi, altro brevetto, con Antony Marchiony che registrò il progetto di una
"macchina rotante" in grado di creare e produrre coni gelato "su larga scala"

La sconfitta legale subita da Italo Marchioni non ne intaccò comunque la sua fama, tanto che alla sua morte - avvenuta il 29 luglio 1954 - il quotidiano "New York Herald Tribune" definì il nostro Italo "ideatore del cono gelato"


Ma si sa, non raramente noi giornalisti, al posto di fare chiarezza, facciamo confusione.

E ora - indirizzando un deferente ed equanime pensiero agli illustri connazionali Antonio, Italo e Frank - mi alzo per andare alla gelateria qui, dietro casa, per gustarmi un bel cono gelato (che comunque non sarà mai come quelli del mio amico Stefano, che ha portato il vero gelato italiano negli Usa...).

Con ogni morso che sarà dedicato a ciascuno di loro. 
E agli Stati Uniti d'America. 
Fino a giungere all'ultimo morso, sempre foriero di verità. 

Anche se l'unica verità certa è che il gelato, poi, finisce, accidenti...


© dario celli. Tutti i diritti sono riservati 

mercoledì 19 luglio 2023

L'invenzione di Willis


La cosa che mi fa sorridere è il nome del luogo dove ha inizio questa nuova nostra piccola storia americana: Angola.

Ovviamente, cari amici di Aria Fritta, non sto parlando della nazione dell'Africa meridionale, bensì di un paesino dello Stato di New York, che si chiama proprio Angola, appunto.
Come forse saprete, negli Stati Uniti sono numerose le cittadine che alla loro fondazione vennero chiamate con nomi di nazioni o di  città presenti in altri continenti, magari proprio perché fondate da emigranti provenienti da quelle regioni.
Non è questo, però, il caso. 

 

In verità negli Stati Uniti esistono due città con questo nome: una è nell'Indiana, l'altra (quella dove vi porto con questo raccontino e della quale ho trovato la foto di qui sopra) è nello Stato di New York. 
Dico subito che non ci sono mai stato, ma dalle immagini che ho potuto vedere in rete mi pare proprio una cittadina carina.

La nostra Angola, NY, fu fondata lungo la "Us Route 9" nel 1873 da 225 coloni giunti in quegli anni dall'Europa.
Oggi - o meglio, al censimento del 2000 - conta invece 2266 abitanti che vivono in 
844 famiglie. 
In realtà, in questo caso, pare che il nome sia stato scelto perché durante gli anni della sua fondazione la gente del luogo - cristiani protestanti "quaccheri" - sosteneva gli sforzi di missionari che da lì erano partiti per avviare la loro opera di evangelizzazione nello Stato africano dell'Angola, appunto. 

Come spesso è successo negli Stati Uniti, la svolta demografica, per la piccola Angola, avvenne contemporaneamente al passaggio della linea ferroviaria nel suo territorio, sulle bellissime rive del lago Erie. 

Ed è qui che, nel 1876, nacque il nostro nuovo amico di oggi: Willis Haviland Carrier

E che, soprattutto in questi giorni, dovrebbe essere santificato. 

Bisogna dire che il nostro amico, fin da ragazzino, amava la matematica, anche se - narrano le sue biografie - poi ereditò dalla madre la passione per la meccanica: pare che il giovane Willis si divertisse, infatti, a riparare e a rimettere in funzione, orologi, macchine da cucire ed elettrodomestici vari.


All'inizio del secolo scorso, nel 1901, dopo aver vinto una borsa di studio sei anni prima, si laureò infatti alla Cornell University (che possiamo vedere nella foto qui sotto) proprio in "Ingegneria meccanica"

Fu dopo la laurea che il nostro Willis iniziò a lavorare per la "Buffalo Forge Company", azienda che produceva fucine da fabbro, ma anche perforatrici, motori a vapore e pompe; lì, lui, progettava in particolare sistemi di riscaldamento per l'asciugatura di legname e caffè.

Pensate, cari amici: la sua prima invenzione importante lui la concepì a 25 anni: si trattava di un sistema di raffreddamento per controllare (badate, io non capisco una cippa in materia...) "calore e umidità nei processi di stampa"

E anche se Latimer Lewis - inventore e scienziato afroamericano del Massachusetts - nel 1886 presentò la prima domanda di brevetto di un macchinario "atto a raffreddare l'aria", il nostro Willis Haviland Carrier insieme ad alcuni colleghi, nel 1906 brevettarono un vero e proprio sistema di aria condizionata che installarono in un gigantesco stabilimento tipografico, lo "Sackett&Wilhelms", di Gran Street a Brooklyn, Nuova York. 
Il primo posto di lavoro della storia dotato, nel mondo, di aria condizionata.

Lui raccontò che ebbe l'intuizione osservando nella stazione ferroviaria di Pittsburg i treni che passavano nella nebbia e fra il vapore, da loro stessi provocato.


Fu lì che il nostro genio intuì - osservando appunto il vapore dei treni che saliva dai binari - che (anche qui semplifico...) si sarebbe potuto "seccare" la nebbia facendola passare "attraverso" l'acqua. 
Intuì che sarebbe anche stato in grado di controllare umidità e temperatura, se solo avesse trovato il modo di "comprimere l'aria fino allo stato liquido raffreddandola e rivaporizzandola" così da poterla poi distribuire in un ambiente chiuso.
Fattore che avrebbe ridotto sia la temperatura della stanza, che il suo grado di umidità. 
Salvando così i lavori e la produttività dello stabilimento. 

Vabbé: mai una intuizione fu così geniale! 

La vera svolta avvenne però nel 1914, quando Willis Carrier installò il primo impianto per aria condizionata in un'abitazione privata di Minneapolis, in Minnesota, (un affare che gli fruttò ben 35mila dollari!) e dopo che la sua invenzione venne installata prima negli ospedali pubblici americani e poi, piano piano, nelle abitazioni civili.  

Fu a quel punto che Carrier e altri sei colleghi ingegneri fondarono in New Jersey - era il 1915 - la "Carrier Engineering Corporation". Che successivamente installò i suoi impianti di refrigerazione anche (ma solo vari decenni dopo) nelle sedi del Senato e della Camera dei Rappresentanti di Washington, il Parlamento americano.

Impianti di climatizzazione che, piano piano, vennero introdotti nei luoghi di lavoro, favorendo tra l'altro un deciso aumento della produzione, rendendo così il lavoro in estate più sopportabile e umano. 
E nei teatri, a partire dal Memorial Day del 1925; quando il Rivoli Theatre di Midtown Manhattan, primo a Nuova York, lo adottò: e fu una idea geniale, perché prima di allora restava chiuso in estate, così come tutte le
sale cinematografiche.
Fu un successo, con i cinema che durante le torride estati di Nuova York si riempivano di spettatori paganti alla ricerca (anche) di un luogo fresco. 
Poi gli impianti si diffusero nelle abitazioni e negli appartamenti dei condomini americani. E poi nei negozi e nei ristoranti, con il loro utilizzo che a noi italiani forse appare un po' smodato ed eccessivo.

Nel 1930 il grande salto verso Oriente, con la "Carrier Engineering Corporation" che aprì filiali in Giappone e in Corea del Sud. 

E proprio in Giappone, nel 1937 venne la volta della prima nave: fu la Koan Maru, ad essere la prima imbarcazione completamente climatizzata al mondo.  

Oggi la Carrier Corporation è la più grande società al mondo che 
produce impianti di ventilazione e condizionamento, con 51 stabilimenti, 53 mila dipendenti, 39 centri di ricerca e progettazione, in più di 180 Paesi.
E' leader nella refrigerazione commerciale, con un fatturato, nel 2022, di 20 miliardi e 42 milioni di dollari. 

Il nostro 
Willis Haviland Carrier morì nel 1950 a Nuova York.

La rivista americana Time lo ha inserito tra i primi venti scienziati americani nella storia degli Stati Uniti
E non a torto, mi sento di dire. 

Oggi si calcola che l'87% delle abitazioni americane siano dotate di aria condizionata.

Secondo una ricerca del prof. Michael Sivak dell'Università del Michigan, gli americani preferiscono una temperatura media intorno al 21° centigradi, condizione termica ritenuta invece troppo bassa dagli europei. 
E lo sappiamo bene ogni qualvolta mettiamo piede negli Usa. Con il collega Gwyn Prins, dell'Università di Cambridge che a proposito dell'amore degli americani verso l'aria condizionata ha parlato di una "epidemia pervasiva e inconsapevole".

Secondo i dati dell'Agenzia internazionale dell'energia, oggi, nel mondo, sono in funzione più o meno due miliardi di condizionatori d'aria.
Senza tenere conto, ovviamente, di quelli montati sugli autoveicoli. 
Secondo l'Istat - l'Istituto italiano di Statistica - in Italia, invece, soltanto la metà delle famiglie italiane dispone di un apparecchio per il condizionamento dell'aria in casa. 

Naturalmente c'è chi critica l'uso e l'esistenza dell'aria condizionata: ci sono coloro che ricordano che i gas refrigeranti che vengono utilizzati (Cfc e Hcfc) contengono cloro che favorirebbero il "buco nell'ozono", che però si starebbe chiudendo, secondo recenti ricerche.
Poi ci sono coloro che ricordano che gli Hfc utilizzati sono gas serra che contribuirebbero al "riscaldamento terrestre". 

E' anche vero che durante le ondate di calore - come quella che ci sta investendo in questi giorni - l'aria condizionata è un vero e proprio "salvavita", in particolare fra gli ultra 65enni: con le statistiche dimostrano che favorisce il 17% di ricoveri in meno per coloro che sono affetti da patologie cardiovascolari e respiratorie, rispetto alle comunità che utilizzano meno condizionatori. 

Recentemente in Florida, per esempio, 4 giorni di rottura dell'impianto dell'aria condizionata in una casa di riposo (con la temperatura interna che è salita a 31°) 21 pazienti su 89 sono stati investiti da "colpi di calore" con febbri oltre i 38°, provocando la morte di 5 anziani.

Guardo il termometro di casa e mi rendo conto che in questo momento all'esterno ci sono 41,2°, mentre in casa la temperatura è 26,8°, certamente più gradevole. 

E tutto grazie all'invenzione di Willis.

Al quale - come ha detto proprio ora, Mary Cacciola di Radio Capital che mi tiene compagnia mentre scrivo - dovrebbe essere assegnato quanto meno un bel Premio Nobel alla memoria.

Che Dio lo abbia in gloria.


© dario celli. Tutti i diritti sono riservati

giovedì 15 giugno 2023

La banca di Amadeo

 

Cari fedeli amici di Aria Fritta,
questa storia, inizia da un minuscolo paesino dell'Appennino ligure: Favale di Màlvaro. 

Siamo in provincia di Genova e il piccolo centro incastrato a 300 metri di altitudine prende il nome dal torrente Màlvaro. Oggi conta 427 abitanti: e pensare che nel 1869 Favale di Màlvaro di abitanti ne aveva ben 2167. 


Ma quelli di fine ottocento erano anni di grande fame anche nel nord Italia:

dunque, decennio dopo decennio, gli abitanti poco per volta abbandonarono il paese della Val Fontanabuona in cerca di fortuna altrove.
Nel 1881 ci abitavano 1968 persone, vent'anni dopo, 1509.

E poi sempre di meno: 1223 nel 1911, 1148 nel 1921, 840 nel 1951 e 670 dieci anni dopo. 
Fino a ridursi a 480 abitanti nel 2001. 
E oggi ancor meno...

Una diaspora provocata dalla miseria ma anche dal conflitto religioso fra i seguaci - non pochi in quelle valli - di Pietro Valdo, fondatore della Chiesa cristiana evangelica Valdese, altrimenti chiamato Valdo di Lione. Che pur dichiarandosi fedeli all'allora papa Alessandro III si allontanarono dalla Chiesa  (semplifico volutamente un po'...) in quanto Roma non condivideva la loro decisione di far predicare il Vangelo anche dai laici e - pensate un po' - dalle donne.

Non sono però in grado di dirvi se alla base della decisione del nostro protagonista di oggi di lasciarsi alle spalle Favale di Màlvaro ci siano state anche ragioni religiose.
L'unico dato certo è che a partire dai primi anni del 1900 il paese letteralmente si svuotò: con molte delle sue famiglie che superarono l'Appennino ligure per raggiungere Genova, da dove sarebbero poi salpati alla volta del Nuovo Mondo.


Fra i 459 favalesi che fra il 1881 e il 1901 lasciarono la "Val Fontanabuona" c'erano Luigi Giannini - 29 anni, agricoltore - e la sua giovanissima moglie Virginia Demartini, 14 anni. Che nel 1869 si imbarcarono in uno dei tanti bastimenti a vapore che partivano da Genova diretti nelle Americhe.
Anzi, in California, negli Stati Uniti d'America, dove in quegli anni a migliaia giungevano da tutto il mondo emigranti affamati di lavoro e anche attirati dalla possibilità di svoltare la vita scoprendo magari un giacimento d'oro di cui quelle terre erano ricche.

Ma non era il loro mestiere, quello, e a San José - nella contea di Santa Clara - Luigi e Virginia Giannini ricominciarono da zero praticando la sola cosa che sapevano fare: coltivare la terra 
Con i soldi che avevano da parte riuscirono a comprarsi un terreno con una casetta, che loro trasformarono in pensione. Una piccola locanda con 
20 posti letto praticamente uno attaccato all'altro.

Nel frattempo coltivavano il terreno intorno - 40 acri, poco più di 16 ettari - che grazie al loro sudore divenne piano piano una piccola azienda. Con i loro dipendenti che dormivano nella vicina locanda. 
Ed è lì che, il 6 maggio 1870, nacque Amadeo Pietro: o meglio, "Amadeo Peter", come venne registrato all'anagrafe di San Josè.

Come immaginerete erano anni difficili quelli, per i nostri emigranti: complicati, spesso drammatici.
Pensate: Luigi, il padre del nostro protagonista di oggi,
 un giorno ebbe una discussione con uno dei suoi dipendenti che gli rimproverava di aver ricevuto un dollaro in meno di quanto loro avessero pattuito. Una discussione tutto sommato banale, che però finì con una coltellata. Che uccise il padre del piccolo Amadeo, che lo soccorse inutilmente.  
Fu così che  il nostro Amadeo Peter - chiamato dagli amici sinteticamente "Appi", dalla fusione delle sue iniziali - a sette anni rimase orfano di padre. 

Possiamo immaginare il trauma per lui e per la giovanissima mamma Virginia.
Che aveva solo 22 anni, due figli con un terzo in arrivo. E che dunque e non aveva molto tempo per piangere: era il 1876 e lei doveva continuare a tenere in piedi la piccola azienda agricola. 
Di tornare in Italia non se ne parlava nemmeno... 
A fare cosa, poi? 

Così finiti i dodici mesi di lutto, decise di accettare il discreto  corteggiamento di un amico di famiglia, Lorenzo Scatena: che si offrì non solo di adottare Amadeo e i suoi due fratelli, ma che in dote portò a casa se stesso, le sue braccia, ma soprattutto un carro.
Che sarebbe stato utilissimo - financo fondamentale - per portare i loro ortaggi fino al porto di San Francisco. 

Amadeo intanto va a scuola, continuando contemporaneamente a lavorare nell'impresa agricola di famiglia. Era un ragazzino sveglio, e lo dimostra già a 14 anni, quando intuì una cosa banale ma fondamentale: e cioè che la frutta era meglio raccoglierla non completamente matura per evitare che arrivasse nei negozi inevitabilmente marcia.

Poi a lui, 14enne, venne in mente che era necessario far conoscere a più persone possibili l'esistenza della loro piccola azienda. Dunque iniziò a chiedere in giro i nomi di altri italiani che abitavano nelle cittadine vicine, ricopiando a mano - per cento volte (cento!) - una lettera scritta di suo pugno in cui proponeva a potenziali clienti italiani i servizi e i prodotti della campagna della famiglia Giannini. 
Si era fatto, insomma, una "mailing list" ante litteram: una lista di cento clienti che da "potenziali" divennero quasi tutti clienti "stabili".

Poi, altra idea: decise che doveva rivolgersi non solo agli italiani, ma anche alle altre comunità di immigrati. E dunque scrisse, di volta in volta, volantini e manifesti nelle relative lingue.

Fu un successo commerciale. 

Era sveglio, il nostro Amadeo: nel 1892 conobbe la 23enne Clorinda Agnes Cuneo, figlia di un importante banchiere di San Francisco, il cui istituto - la Columbus Savings&Loan bank - lavorava principalmente con la comunità italiana. Certo, il suocero era assai perplesso di quella relazione: lui, banchiere, per la figlia si aspettava un buon partito e non è che fosse entusiasta di quel corteggiatore della sua bambina. 
Pensate che (non proprio elegantemente, suvvia...) una volta arrivò a riferirsi lui definendolo "Quel verduraio italiano".


Ma l'amore dei due ragazzi, alla fine, fu più forte: soprattutto il nostro Amadeo accettò di divenire genero di quell'ingombrante futuro suocero, s
e non altro perché così avrebbe imparato il mestiere di banchiere.

Che infatti apprese bene in pochissimo tempo. 

Capì immediatamente che le banche del Nuovo Mondo, con la loro secolare altezzosità, trascuravano un'importante fetta di potenziali clienti: gli immigrati.


Così, a 34 anni, si licenziò e prese in affitto un ex saloon di San Francisco, facendone sede della sua banca: che sarebbe stata più moderna, più aperta, meno burocratica e che avrebbe garantito più facilmente l'accesso al credito agli immigrati, che gli altri istituti bancari invece trattavano con prudenza e diffidenza. 
 
"Si chiamerà Bank of Italy - decise - e sarà ad azionariato diffuso": nessun socio - per statuto - avrebbe potuto cioè possedere la maggioranza assoluta, o relativa, dell'azionariato. Ma al massimo 
quote inferiori al 5%.

Era il 17 ottobre 1904. 

Fu un successo: con il solo passaparola degli italiani, nella sua Bank of Italy di Jackson Square a San Francisco, nel primo giorno di attività vennero depositati 8.780 dollari.
Così, sulla fiducia.

La fortuna di Bank of Italy, in un certo senso, fu il disastroso terremoto di San Francisco del 18 aprile 1906 che, passando per Los Angeles, colpì l'intera costa ovest degli Stati Uniti, dall'Oregon al Nevada: un sisma che provocò tremila morti lasciando 400mila persone senza casa


Dopo la grande scossa - e prima che si scatenasse il terrificante incendio che distrusse gran parte di San Francisco - il nostro Amadeo riuscì a raggiungere la sua banca portando in salvo, lontano dal devastante fuoco che in quelle ore avrebbe distrutto la città, tutti i contanti e i depositi dei propri correntisti.

Il giorno dopo riorganizzò il suo istituto su un banco da verduraio - un'asse appoggiato a due botti - dove aveva piazzato un lenzuolo con la scritta  "business as usual", "affari come al solito", continuando dunque a concedere prestiti e contanti a chi ne aveva bisogno per ricostruire. Soprattutto a piccoli artigiani e commercianti - in particolare di origine italiana - ai quali nessun'altra banca dava credito o finanziamenti.

Tre anni dopo la banca venne ribattezzata "Banca d'America e d'Italia", che poi sarebbe diventata "Bank of America". Parlando ad una assemblea di banchieri, Giannini pronunciò un discorso che rimase celebre nell'ambiante finanziario americano di allora: "I clienti di Bank of America sono quelli che voi avete sempre rifiutato. Faremo prestiti, anche di importi modesti, alle nuove imprese, agli immigrati, e anche a chi non può dare garanzie ma ha buone idee e voglia di lavorare.
Le banche devono avere una funzione sociale, guidare lo sviluppo, creare opportunità, diventare la forza su cui chi fa impresa può fare conto"


Fu così che Bank of America cominciò a praticare il microcredito ("25 dollari" agli immigrati italiani), e poi in generale agli immigrati senza contratto, e poi ancora a tutti coloro che facevano parte di comunità marginalizzate. 
E ad applicare solo il 3% di commissione per far arrivare in Italia le "rimesse" (l'invio di denaro dall'estero) dei nostri emigranti. 
"Consideriamo il salariato o il piccolo imprenditore che deposita regolarmente i propri risparmi, per quanto piccoli, il cliente più prezioso che la nostra banca possa avere", era solito dire. 

Bank of America fu la prima banca americana ad accettare dai clienti analfabeti la semplice "X" a mo' di firma, o addirittura una ancor più semplice stretta di mano a suggello del contratto di adesione.
In realtà era un piccolo "trucco" di Amadeo Giannini: se chi si trovava di fronte non sapeva scrivere, lui gli stringeva la mano per sentire se il potenziale cliente avesse i calli, garanzia che lavorasse sul serio. 
E fu una fiducia ben riposta, la sua, visto che i prestiti a questa clientela "speciale" furono restituiti nel 95% dei casi. 
Una filosofia bancaria che rimase immutata nei decenni: in tempi recenti, negli anni 2000, Bank of America fu la prima banca Usa disponibile all'apertura dei conto correnti - e al conseguente rilascio di bancomat e carta di credito - anche agli immigrati irregolari, quelli che sono negli Stati Uniti senza documenti e visto, senza permesso di soggiorno, e che in Italia qualcuno oggi chiama ancora "clandestini"

Fu l'autorevole quotidiano finanziario americano Wall Street Journal a raccontare il fenomeno nel corso di un'inchiesta di qualche anno fa. Interrogato a proposito, Lance Weaver - capo della divisione "Servizi internazionali" di Bank of America - non negò la cosa rimanendo però sul vago, e limitandosi a dichiarare che la sua banca aveva soltanto avviato un'iniziativa "specificamente orientata verso coloro che hanno una storia creditizia inesistente o esigua".

Che è poi proprio il profilo dell'immigrato "illegale", "clandestino".
C
he negli Stati Uniti lavora, produce, guadagna, ma che si è sempre ben guardato dall'entrare in una banca, tenendo i suoi dollari sotto al materasso o affidandoli magari a chissà chi. 
E siccome, secondo i dati ufficiali (presumibilmente...) si tratta di dieci milioni di persone, è facile intuire quale sia la posta in gioco per le banche americane. 

Quando Bank of America aprì l'universo delle carte di credito e dei conti bancari agli "illegal", l'iniziativa finì presto nel mirino dell'Usics, l'Us Citizenship and Immigration Service, l'Ufficio Federale dell'Immigrazione Usa, sollecitato dalla "Federation for American Immigration Reform" - associazione americana che vede l'immigrazione clandestina come "fumo negli occhi" - che chiese immediatamente il severo intervento delle autorità, definendo l'iniziativa della banca "azione che aiuta a violare la legge".

Con Brian Tuite, capo della divisione carte di credito di Bank of America, che rispose semplicemente: "Vi state riferendo a nostri clienti che lavorano e che hanno scelto gli Stati Uniti per migliorare la propria qualità della vita. Noi riteniamo che sia giusto dare a tutti una possibilità"

Aggiungendo poi che, così come l'Ufficio Federale dell'Immigrazione fa il suo mestiere, anche gli istituti di credito fanno il loro: che è quello di acquisire i risparmi di più clienti possibili.
Evitando così, tra l'altro, che questo denaro lasci gli Stati Uniti andando chissà dove e chissà in che modo. 


Stop.
Fine della discussione. 

Nel mondo degli istituti di credito, Amadeo Giannini fu considerato l'inventore delle moderne pratiche bancarie, ma contemporaneamente fu anche un grande visionario.
E' stato, per esempio, il primo banchiere a scommettere sull'industria del cinema: 
"E' il futuro dell'intrattenimento", disse nel 1921. 
E così finanziò "The kid",
"Il monello", film muto dell'allora sconosciuto Charlie Chaplin.

Al quale non chiese interessi sul prestito ma semplicemente il 20% degli incassi del film.
E ci vide lungo, Giannini, visto che il film - finanziato con 250 mila dollari - ne incassò poi due milioni e mezzo

Non solo: da bambini avrete visto, immagino, il film a cartoni animati "Biancaneve e i sette nani"...
















Ebbene: fu lui, il nostro Amadeo Giannini, a finanziarlo nel 1937, anticipando a Walt Disney 
il milione e mezzo di dollari dei costi.
Con il film che poi, di milioni di dollari, ne incassò sei e mezzo

Due anni dopo, stessa operazione con "Via col vento"


Al regista Victor Fleming e al produttore David O. Selznick costò 
una cifra record, quasi 4 milioni di dollari che vennero  interamente anticipati dalla banca di Amadeo Peter Giannini.
Con il f
ilm che poi vinse otto Premi Oscar (al tempo, un record) e che di milioni di dollari ne incassò ben 3.300

Tremila trecento milioni.
Di dollari


Cinema, ma naturalmente non solo: negli Stati Uniti, dal 1933 al 1937, Amadeo Giannini finanziò anche la costruzione di navi e aerei, che risultarono poi fondamentali per la sconfitta di Hitler, Mussolini e Hirohito. 

Pensate che fu lui, Amadeo Giannini, il primo ad assumere donne nelle banche, e questo prima ancora che la legge americana permettesse loro di votare: "E' uno spreco che le donne non possano fare lavori di concetto", disse nel 1910. Con dieci anni di anticipo rispetto al XIX° emendamento della Costituzione americana, che avrebbe esteso negli Stati Uniti il diritto di voto a tutte le donne.   

Tornò diverse volte in Italia, Amadeo Giannini: memorabile fu il suo viaggio del 1912, quando organizzò un pranzo in piazza per tutti gli abitanti della sua Favale di Màlvaro. "Anche se veniamo dall'altra parte del mondo - disse il nostro Amadeo - il nostro cuore è sempre qui, in questa piazza, con voi".
 
Naturalmente "Cosa Nostra" tentò di avvicinarlo, con lui che respinse le loro lusinghe bluffando: "Guardate che sono italiano, e i federali tengono d'occhio 24 ore su 24 me, la mia famiglia e le mie banche, che sono disseminate di loro agenti".

Contemporaneamente Amadeo Giannini decise di pagare lui gli studi fino all'università ai figli di tutti i suoi dipendenti, mentre lui già finanziava l'Università californiana di Stanford.

Poi arrivò il 1932, quando un giorno si presentò nel suo ufficio un ingegnere: "Lei non mi conosce - gli disse -: il mio nome è Joseph Baermann Strauss, progetto ponti e da dieci anni ne sto studiando uno che rivoluzionerà il traffico di San Francisco. Ma ora ho finito tutti i miei soldi e sono ad un passo dal rinunciare. Lei è la mia unica, ultima, speranza...".

Mi sembra di vederlo, il nostro amico Amadeo mentre scrutava quell'ingegnere negli occhi.
Si limitò a chiedergli: "E mi dica un po': quanto durerà questo ponte?". 

La risposta ("Per sempre!"), lo conquistò e lo convinse.
Fu così che nacque il "Golden Gate": ma al posto di dare all'ing. Strauss i 32 milioni di dollari richiesti, Giannini
 ne aggiunse 3 in più. 
Per sicurezza. 

Fu un progetto ambizioso, pazzesco: quando nel 1937 fu realizzato, era il ponte sospeso più lungo del mondo. 
A pedaggio, ovviamente. 
Che oggi (i dati più aggiornati sono del 2020) viene attraversato da quasi 32 milioni e mezzo di auto all'anno, che si traducono in 125.401.000 di dollari in pedaggi.
Ma il record è del 2017, quando sul ponte finanziato dal nostro Amadeo ci passarono 41.184.000 veicoli. 

E del quale ho raccontato tempo fa un'altra storia che lo riguarda, in queste pagine. QUI.

Una figura davvero leggendaria, quella di Amadeo Giannini: raccontano le cronache che lui, dopo aver salvato la Chrysler dal fallimento, rifiutò come regalo una delle loro auto: "Guardate, a malapena accetterei una bottiglia di grappa...". Con lui che invece pretese che il valore di quell'auto fosse dato in beneficienza.
E che la notizia venisse diffusa dai giornali.

Per lui l'unico brutto momento fu il periodo della Seconda Guerra Mondiale, quando l'Italia fascista si alleò ai nazisti e ai giapponesi contro americani, sovietici e inglesi. Furono anni, quelli, in cui gli americani di origine italiana comprensibilmente non erano molto benvisti negli Stati Uniti.

Italo-americani che, quanto meno, venivano trattati con distacco e diffidenza. Sorte che toccò anche a lui, pur non avendo mai avuto nulla a che fare con Mussolini e i suoi scherani. 
Così dopo la Liberazione, quando giapponesi e nazifascisti ne uscirono sconfitti e la guerra finì, lui ordinò che ad ogni finestra di tutte le sue banche venisse esposta una bandiera italiana: "Perché per noi - dichiarò pubblicamente - questo è un giorno di festa".

Nello stesso anno, in occasione dei suoi 75 anni, fondò la "Giannini Family Foundation", ente benefico che ancor oggi ha come scopo la promozione e il finanziamento della ricerca medica.

Morì quattro anni dopo, nel 1949, lasciando moglie e sette figli. Una delle quali, Claire Giannini Hoffman - prima donna a far parte del Consiglio di Amministrazione di Bank Of America - fino al 1986 amava trascorrere una settimana di vacanza a Rapallo o a Forte dei Marmi. 

Nulla sapevo di tutto questo, né tantomeno potevo immaginarlo, quando da ragazzo, ogni giorno per andare al Quinto, il mio liceo di Torino, passavo in via Garibaldi davanti ad una sua banca, la "Banca d'America e d'Italia", succursale italiana di "Bank of America", che nel 1993 arrivò a detenere in Italia ben 149 sportelli. 

Una avventura che si concluse nel 1994, quando la Banca d'America e di Italia fu assorbita dalla tedesca Deutsche Bank.

Qualche anno fa, ad un amico vincitore di Green Card che si trasferì negli Stati Uniti e che aveva proprio vicino casa una Bank of America, suggerii di chiedere all'impiegato allo sportello se la banca offriva ancora condizioni particolarmente favorevoli ai nuovi clienti italiani, proprio in virtù delle analoghe origini del  fondatore.
Al quale negli anni il settimanale americano Time dedicò peraltro più di una copertina.
     

                          

L'impiegato, stupito e assai perplesso, chiese allora istruzioni al suo capo, e tornò poi allo sportello con un sorriso trionfante: "Ma lo sa che non lo sapevo che questa banca fu fondata da un italiano?" 

Non solo: nel 1973, le poste americane dedicarono al nostro amico un francobollo. 

                                            
Roba d'altri tempi, appunto.
Mentre le Poste Italiane si svegliarono solo nel 2020, definendolo "Banchiere per il popolo".

Meglio tardi che mai...

                         

Ma lo spirito di Amadeo Pietro Giannini, nato da Virginia Demartini Giannini e Luigi Giannini, aleggia - sono certo - ancora fra gli sportelli di quella banca. Anche se - non si capisce il perché - nel sito internet di Bank of America, oggi, si legge soltanto che "le parti più antiche della nostra azienda risalgano a 240 anni fa", senza fare nessun accenno ad Amadeo Giannini. Il fondatore. 

Vabbè...

La sua casa in pietra di Favale - o meglio, quella dei suoi genitori, dove venne concepito - è ancora lì, e oggi è diventata Museo dell'Emigrante

Ecco qui.
Infine mi piace osservare che c'è un paradosso, in questa storia: anzi una sorta di sorprendente correlazione, se ci si riflette, una sorta di positiva legge del contrappasso.
Oggi, nel 2023, Favale di Màlvaro - il piccolo paese arrampicato nell'Appennino ligure dal quale erano partiti i genitori del nostro amico Amadeo, 
Luigi Giannini e la sua giovanissima moglie Virginia Demartini Giannini - conta una discreta presenza di immigrati stranieri. 

Sono quasi il 10% dei suoi 520 abitanti: che per pura fortuna - ma molto più probabilmente per puro caso - sono capitati lì facendo i soliti mille mestieri dei migranti di oggi in Italia: muratori, ambulanti, badanti. 
E sono romeni, polacchi, albanesi, ma anche sudafricani e vietnamiti. 

Che a Favale di Màlvaro, provincia di Genova, hanno trovato, in fondo, la loro (minuscola) America.

Mi piacerebbe che qualcuno leggesse loro questa storia... 

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