PERSONE CHE HANNO LETTO O CURIOSATO

venerdì 24 luglio 2015

L'America (a noi) incomprensibile

C'è qualcosa, dell'America, che a noi è incomprensibile.
E non solo a chi di noi si reca negli Usa per turismo, per qualche settimana o, chi è più fortunato, per qualche mese.

Ma anche per gli italiani che ci sono andati ad abitare.

Qualcosa che sbalordisce, stordisce, fa sorridere, fa piangere allo stesso tempo.

La prima volta che ho sentito quest'insieme confuso di sensazioni fu nel corso del mio primo viaggio negli Stati Uniti. Eravamo a Cody, in Wyoming, il paese di William Cody, generale in pensione conosciuto meglio, poi, con il nome di Buffalo Bill.
Che poi si diede al circo (grande Paese, l'America, e grandi gli americani! Ma voi ve lo vedete un generale dell'esercito italiano che, andato in pensione, mette su un circo e gira il mondo? Venne anche in Italia, a Perugia, se non sbaglio, Buffalo Bill...).

Era il mio primo viaggio, dunque non sapevo che ogni incontro sportivo, negli Stati Uniti, si apre allo stesso modo.

Eravamo a vedere un rodeo (siamo in Wyoming, mica cotiche!) e poco prima di iniziare si spensero le luci per riaccendersi due secondi dopo.
Due secondi durante i quali pensavo fossimo in mezzo ad un black out.
E invece...

E invece, quasi quello fosse stato un segnale (lo era, ma non lo sapevo ancora!) tutti gli spettatori si alzarono.
Fra i cavalli e i cowboy spuntò una ragazzina con un microfono in mano.
Venne presentata.
E questa iniziò a cantare.

Era l'inno americano, "The Star-Spangled Banner".
Onestamente - la prima volta per noi - non sapevamo cosa fare. Rimanemmo un po' stupiti, un po' imbarazzati.
Dopo le prime note, ci alzammo anche noi.
E mentre l'arena di Cody cantava, in piedi mi guardai intorno.

Ed è in quel momento che ho capito il vero segreto dell'America.

Intorno a me avevo bambini, giovani, adulti, anziani, in piedi che cantavano, con la mano sul cuore, la maggior parte.
Uomini, donne, ma soprattutto americani bianchi, d'origine europea, neri, d'origine africana, e poi americani d'origine asiatica, d'origine araba e nativi americani...

Tutti lì, in piedi, a cantare un inno che li univa.
Un inno che faceva sentire davvero un solo corpo di una  Nazione.


Pensai al nostro inno, a quella marcetta che il maestro Novaro scrisse nella sua casa di via XX Settembre a Torino, all'angolo con via Barbaroux.
Pensai a come mi era sempre stato estraneo il mito della "patria", della Nazione: a me che cantavo spesso le parole "La mia patria è il mondo intero, il mio motto è 'Libertà!'...".
Noi che viviamo in un Paese dove, spesso, l'inno d'Italia è stato contrapposto ai tanti canti della libertà popolari.
Noi che di "inni nazionali" ne abbiamo cambiati almeno tre da 150 anni a questa parte.
Un inno che farà anche venire i brividi, ok, ma che bellissimo non è, dai, e che gli italiani cantano solo prima degli incontri della Nazionale di calcio.

Pensavo al significato differente che invece aveva, che doveva avere per forza, l'inno americano per quel migliaio di persone che avevo intorno.

Rimasi impietrito in quei tre minuti.
A dirmi che dovevo capire.
E che davvero, prima di allora (era il mio primo viaggio, ripeto), dell'America non avevo capito un'emerita cippa.

Continuai a guardarmi intorno e ad osservare un afroamericano con in braccio la figlia, e al suo fianco di un anziano, bianco
e un nativo americano fiero, con i suoi capelli lunghi e corvini; 
una signora che con i suoi capelli bianchi perfettamente cotonati sembrava uscita da un film;
e un gruppo di ragazzi con i capelli lunghi e colorati a fianco a due soldati in uniforme;
e una coppia d'origine asiatica accanto a un gruppo di tatuatissimi "bikers" con le loro barbe lunghe, i tatuaggi vistosi sui bicipiti e la bandana in testa.
Tutti lì a cantare le stesse parole.

Ecco, in quei momenti capii che dovevo essere più umile e che dovevo sforzarmi di capire.
E di conoscerla meglio quell'America.

Un'America che davvero doveva essere stata la "Terra dell'Opportunità" per quelle persone, e per i loro genitori, e per i loro nonni...
Un'America che nonostante le loro differenze, tutto sommato, li faceva sentire "uno".


Cari amici, oggi vi porto a Louisville, in Kentucky. 
E precisamente allo Hyatt Regency Hotel, moderno ed enorme albergo da 18 piani. 

Fra i clienti, sono ospiti svariate centinaia di studenti delle scuole superiori che vi soggiornano senza sfasciare le sue 393 camere.
Sono lì ogni anno, in occasione dell'incontro della "Kentucky Music Educators Association".


Centinaia di ragazzi: stessa età di quelli che hanno assistito alla morte - comunque sia andata... - del loro compagno in gita scolastica a Milano.
E dei quali nemmeno uno è andato poi al suo funerale.
Che schifo di Paese è mai questo, dannazione?

Sono le 11 di sera.
I ragazzi della "Kentucky Music Educators Association" a quell'ora escono dalle loro stanze e si affacciano tutti insieme alla balconata.
Saranno centinaia, giudicherete voi.
L'ascensore sale fino in cima: sentirete il "bip" che suona ad ogni piano.

Un brusio, il classico "ssshhh" per invitare al silenzio, e poi...

Sì, l'America, forse, non la capiremo mai.



Ah, alla fine dell'inno - quella sera a Cody, in Wyoming - un signore al mio fianco mi chiese da dove venissimo.
E quando lo sentì, mi disse: "Vi ringrazio per esservi alzati anche voi...".






© dario celli. Tutti i diritti sono riservati


venerdì 17 luglio 2015

Cosa c'è da vedere...

Ho reagito d'istinto.

Mi è capitato di leggere le righe di una persona che chiedeva consiglio su "cosa ci fosse da vedere" nel tragitto fra il Parco di Yellowstone e il Mount Rushmore.
"Perché è una tratta piuttosto lunga e se dovesse saltare Bonneville potremmo dimezzare le tratte e vedere qualcosa nel tragitto".

Lo so: ognuno ha i suoi gusti, ognuno ha "la sua America".
Ma confesso che quando ho letto la domanda ho avuto un fremito (e sì che era mattino e mi ero appena svegliato!).
Un vero e proprio sussulto.

Come sarebbe, "cosa c'è da vedere"???

C'è da "vivere la strada".
Strade che ti concedono di entrare in spazi immensi. 


Immense ed incontaminate praterie dove mandrie di bisonti liberi pascolano pigre.

O dove puoi incrociare gruppi di cavalli selvaggi, discendenti dei Mustang portati dall'Europa dai primi pionieri nel '700 e nell'800, negli anni scappati da qualche allevamento.

Cavalli selvaggi ora diventati "specie protetta" e che a pieno diritto galoppano liberi fra uno Stato e l'altro dell'Ovest americano.
(Fra le incazzature dei coltivatori...).


C'è da vedere un cielo immenso, che non ha fine.
Un cielo immenso che sembra dipinto.
Un cielo attraversato da strade dove non passa nessuno
Tranne tu e la tua auto.

Strade che ti invitano ad andare forte, sempre più forte. Per raggiungere l'orizzonte, un qualsiasi orizzonte.
Ma che, nello stesso tempo, ti chiedono di ad andare piano, per ammirare con calma quel fantastico nulla che hai intorno. 

Strade che fanno sentire liberi come non mai.
Strade dove quando ti fermi, magari per fare un foto, automobilisti sconosciuti si fermano e ti chiedono se"hai bisogno di aiuto", se per caso "hai bisogno di benzina"...
"Do you need the gaaas???"


Strade percorse dai nuovi cowboy, che da est a ovest o da nord a sud corrono sui loro tir con tre rimorchi...



E allora, aspetta.
Aspetta e fermati.

Fermati e spegni il motore.

Fermati in una piazzola qualunque e guardati attorno.
Guarda e respira.

Respira e ascolta.

Ascolta il "rumore del silenzio"
Il rumore del cuore dell'America. E respiralo a pieni polmoni.



Guarda quell'aria trasparente.
Guarda fin dove il tuo sguardo riesce ad arrivare... 


Ci sono da guardare le aquile che volano sopra di te, incuranti di tutto.
Guarda i cerchi che fanno nel cielo.

E c'è da vedere quel cielo, il più grande cielo che c'è sul pianeta Terra.

"The big sky", così come dice il motto del Montana.


C'è da conoscere il gestore del drugstore con pompa di benzina che incontrerai dopo 400 chilometri di strada dritta e deserta.
Quell'uomo che ti sorriderà e ti chiederà tutto contento "Ehi, amico, da dove vieni?".
Perché in America tutti sono arrivati da altrove.

Là dove tutto sembra (tutto è!) lontano: Washington, la politica, il resto del mondo...

E c'è da vedere il suo stupore, la sua infantile meraviglia, quando sentirà che vieni dall'Europa, dall'Italia.


"Italy? Europe?? But really???"
Ma davvero??
(A Roma direbbero "Ma che, davero??").



C'è da sentirsi liberi a ripartire per percorrere altre ore (e ore...) di auto in mezzo a cotanta meraviglia, con il motore che galoppa placido e l'autoradio che sembra dare il ritmo alle ruote, radio bloccata su qualche stazione Country.

Scivolando su strade che tagliano praterie, montagne...

E poi ancora pianure e montagne...


Ci sono da salutare i camionisti (e che rispondono sempre con le loro trombe!);

i motociclisti in Harley che sorpassi...


Moderni cowboy che dopo galoppate di centinaia e centinaia 
di chilometri si dovranno pur riposare un po', no?



 
Perché poi devono ripartire.


E poi ancora ripartire...
C'è da fermarsi solo quando si è davvero stanchi, quando tutta quella meraviglia che hai respirato, ingoiato, ti costringe a riposarti.
Fermarsi in uno di quei motel a un solo piano, con quei bellissimi nomi al neon colorato: "Frontier Cabins", "Sturdast Motel", "Silver Dollar Motel", "Rocket Motel"...


Quei motel dove prima di dormire leggi, a letto, qualche riga di "On the road" di Jack Karouac, e dove chiuderai gli occhi sorridendo, con le parole di quel dialogo che ti rimbomberanno in testa per tutta la vita:

"Sal, dobbiamo andare e non fermarci più finché non arriviamo...

- Per andare dove, amico?

Non lo so, ma dobbiamo andare...".


Quei motel dove la sera prima hai parcheggiato l'auto davanti alla tua camera, perché così, l'indomani, fosse pronta a ripartire dopo una notte di riposo.

Per una nuova, lunghissima cavalcata. 



E quando al mattino riparti, sai benissimo che la vita quotidiana è altro.
Ma intanto non ci vuoi, giustamente, pensare.

C'è da fare una robusta colazione insieme a farmers della zona, a qualche pensionato in viaggio (quanto viaggiano i pensionati americani!!), insieme ai camionisti di passaggio che alle otto del mattino sbranano una bistecca, e ai poliziotti di pattuglia, che ti salutano sfiorando con l'indice e il medio della mano destra il loro cappello da cowboy.

C'è da rispondere al saluto della cameriera che lavora lì da una vita, e che ti accoglie con un bellissimo "What do you want, honey?", "Cosa desideri, dolcezza?".

Che quando sente che arrivi dall'Italia sgrana gli occhi e sogna.
E che allora ti porta un piatto più grande degli altri, quasi come se dall'Italia ci fossi arrivato a piedi, un piatto capace di nutrirti fino a sera...

C'è da rimanere senza parole quando scopri che il tuo vicino di tavolo con il quale avevi scambiato tre parole messe in croce, contento di aver parlato con un italiano ("Italian? Very italian? Really???") ti ha pagato il conto senza che tu te ne accorgessi.

E senza poterlo ringraziare, perché ormai, chissà in quale altro angolo d'America sarà...

C'è da rimanere sbalorditi ad ogni angolo, in America.
Sbalorditi dalla potenza della natura, rispettata da tutti.


E sbalorditi anche dalle piccole cose.

Come quando sono restato paralizzato vedendo in una cittadina qualunque un cartello stradale come questo.

Che ti dice di essere prudente, di fare più attenzione, perché in quella zona vive una persona non vedente.
Non credevo ai miei occhi, e allora ho fermato l'auto, sono sceso e l'ho fotografato, quel cartello.
Quel simbolo di grande civiltà.
Inimmaginabile, in Italia... 


Oh sì, prima di esserci stato, non avevo proprio capito niente dell'America...

E poi c'è da scoprire la bellezza di come ci si sente bene ad essere lontani.
Senza giornali, senza telegiornali, senza l'Italia dalle notizie sempre uguali.

Da anni.
Da decenni.

Lontani dalla vecchia, litigiosa, Europa.
Dalla nostra Italia piena di Storia, sì. Ma di Storia trascurata.

Lontani dal nostro bellissimo Paese perduto.


Ecco cosa c'è da vedere, là, nell'Ovest americano.





© dario celli. Tutti i diritti sono riservati

sabato 11 luglio 2015

Il biglietto di Duane


E' uno dei "pilastri" degli Stati Uniti.
Anche al tempo della posta elettronica, gli americani continuano ad usare (e ad affidarsi) alle normali Poste, al  servizio postale ordinario, all'United States Postal Service.

Un traffico gigantesco: gli ultimi dati che ho potuto trovare dicono che la Posta americana distribuisce ogni anno un paio di centinaia di miliardi (miliardi, avete letto bene!) di cartoline, lettere o pacchi. 
Per la precisione, nel 2006 - i dati più aggiornati che ho trovato - 213 MILIARDI 137 milioni e 700 mila

Il servizio postale degli Stati Uniti d'America è nato nel 1775 su iniziativa di Benjamin Franklin e oggi, grazie ai suoi 260mila mezzi, garantisce, se non erro, il recapito della corrispondenza all'interno degli Usa (continentali) entro 24 ore dalla spedizione.
Ore che diventano 48 per la posta spedita da o per i territori americani fuori dal continente.

Insomma, l'Usps è l'ente che è fra i primi posti nelle classifiche dell'affidabilità negli Usa, secondo i consumatori americani.

Prima di arrivare nelle case, cartoline e lettere percorrono migliaia di chilometri. E quando arrivano, il postino non suona affatto. Né una né due volte.
Questi si limita, infatti, a infilare la corrispondenza nella cassetta delle lettere davanti a casa e ad alzare la piccola "bandierina" di metallo (normalmente rossa), per avvertire che è arrivata posta. 
(Grazie all'amico Marcello Sgarlato!)
Segnale che usa anche l'utente, per avvertire il postino che deve ritirare qualcosa da spedire, portandola (lui) all'ufficio postale.
Nei condomini, invece, "il segnale" che c'è qualcosa da ritirare (o per il postino da spedire) è una piccola striscia di metallo che fuoriesce dalla cassetta.
Tutta questa premessa, cari amici di Aria Fritta, per portarvi a Lynchburg, Virginia.
Poco più di 27.600 abitazioni occupate da 65.300 abitanti.
Fra questi troviamo Duane Schrock, pensionato di 87 anni. Che non è che dia molto lavoro ai postini.
Nella sua cassetta arriva qualche giornale ogni tanto, ma niente più. 
Capirete: alla sua età non è che gli capiti ricevere posta frequentemente. 
                           
Ogni giorno, all'ora del passaggio del postino, sente il rumore del motore del suo mezzo e, più che altro per abitudine, lui si limita dopo qualche minuto ad avvicinarsi alla finestra del pianterreno della sua villetta e "a buttare un occhio" alla cassetta delle lettere, per vedere se per caso la "bandierina" è su.
Per caso.
Ma niente.
Non arriva mai niente.
E ormai, anche qui, lui ci ha fatto l'abitudine.

Vive solo, il nostro buon vecchio Duane, e non ha nessuno.
Vedovo, ha avuto sì un figlio che si chiamava come lui, Duane Schrock jr, ma l'aveva "perso" ormai da tempo.
Anzi, per la verità riteneva di averlo perso due volte.
La prima quando il ragazzo gli disse che era gay e che non aveva alcuna intenzione di "sforzarsi" di essere o di apparire eterosessuale. Fu un duro colpo per il vecchio Duane, quando lo seppe. Che a quel tempo, peraltro, tanto vecchio non era, visto che si tratta di vicende risalenti a più di 26 anni fa. Ma anche allora lui era un uomo timorato di Dio, di saldi principi: e nell'etica cristiana non c'è molto spazio per chi ama una persona del proprio sesso.
Che Dio lo perdoni.

Dopo quel "coming out", dopo quella confessione, i rapporti fra padre e figlio si raffreddarono, diventando via via sempre più gelidi.
Diciamola tutta: Duane padre, non fece molto per evitare che il proprio figlio scomparisse dalla sua vita.

Fino a quando il vecchio Duane perse il figlio una seconda volta. 

Quando, nel 1995, Duane jr morì.
A 45 anni.
Di Aids.
Perché così aveva voluto il buon Dio.

Come spesso succede, il vecchio Duane pensava, ogni tanto, al suo ragazzo. E a ciò che la vita aveva riservato a loro. 
A lui, che non ebbe mai la gioia di far giocare sulle proprie ginocchia dei nipotini.
E al figlio, morto così giovane, fra le sofferenze.

E pensava, ogni tanto, anche al fatto che quando suo figlio era ancora in vita, non erano mai riusciti a "parlarsi" bene, a "capirsi", a venirsi incontro un po'.

E anche se erano passati vent'anni dalla morte, lui, ogni tanto, si ritrovava a pensare che sì, che forse aveva sbagliato ad essere stato così duro.
Che forse aveva sbagliato a reagire in quel modo di fronte alla sua omosessualità.
E che forse, in fondo, era amore anche quello.
Forse.
In fondo.

Ci pensava, ogni tanto, ma ormai Duane Schrock senior aspettava soltanto di andarsene pure lui.
A 87 anni non è che uno abbia aspettative poi tanto diverse.

E, magari, chissà... Da qualche parte, in qualche al di là, lo avrebbe anche incontrato il suo junior. 
E magari si sarebbero riconosciuti.
E magari avrebbero parlato.
E magari avrebbero ancora discusso.
E magari avrebbero chiarito.
Ritrovandosi.
Magari...

Quattro mesi fa, una mattina di fine marzo, il vecchio Duane era a casa, e come ogni mattina alla stessa ora sentì il solito rumore di un motore. 
Ogni giorno, stessa ora, stesso rumore.
Sì, doveva essere il postino che metteva posta nella buca dei vicini. 
Perché tanto a me chi scrive...

Quattro mesi fa, una mattina di fine marzo, Duane si avvicinò alla finestra, scostò leggermente la tenda e buttò uno sguardo distratto. 
Tanto l'asta sarà giù.
Tanto a me...

E invece, quella mattina l'asta rossa era su.
Inequivocabilmente su.
Ed era la sua.

"Quel cretino di postino si sarà sbagliato", pensava Duane senior mentre attraversava il giardino davanti a casa.
E anche piuttosto seccato all'idea di dover portare ai veri destinatari quello che era stato infilato per sbaglio nella sua cassetta di posta.

E invece...

E invece si stupì quando vide che era una busta indirizzata proprio a lui.

E strizzò un po' gli occhi mentre leggeva e rileggeva per essere sicuro il suo nome, scritto a mano, lì sulla busta.
Busta che era un po' pasticciata, piena di timbri e di scritte a mano "di servizio", tracciate da altri postini: "Trasferito", c'era scritto, e ancora "Destinatario sconosciuto", "Trasferito" e ancora  "Trasferito"...

Quando aprì la busta, Duane non capiva.

Era un biglietto d'auguri.

Un biglietto d'auguri che raffigurava un panda.
Un panda che abbracciava il suo cucciolo.


Boh...

E' stato quando ha aperto il biglietto, che a Duane quasi venne un infarto.


Era un biglietto d'auguri per il "Father's Day", la Festa del Papà.

Un biglietto d'auguri di suo figlio Duane jr. 

Un biglietto d'auguri che il figlio gli aveva spedito sei anni prima di morire, nel 1989.

Un biglietto d'auguri di 26 anni fa. 

Indirizzato a lui.
E che non aveva mai ricevuto. 
Un biglietto mai arrivato a destinazione... 



"Caro Papà,
non siamo stati molto in contatto ultimamente...
Io sto bene, e sono molto felice a Richmond.
Mi piacerebbe avere tue notizie.
Tanti auguri per la Festa del Papà.

Con amore,
Duane".

...

Che volete che vi dica, cari amici...
Io mi vedo quel pover'uomo leggere queste righe - quel giorno di fine marzo di quest'anno - prima incredulo, poi rimanendo senza fiato.
Per poi piangere a dirotto.

Per i sensi di colpa che avrà sentito.

Per non aver potuto rispondere a quell'appello mai ricevuto del figlio, a quel "Mi piacerebbe avere tue notizie". 
Per non aver mai potuto rispondere che anche lui, dannazione!, gli voleva bene.

E quanto ti voglio bene, figlio mio...


Ha vagato per anni, quella busta, in giro per gli Stati Uniti.
Che tornava sempre indietro, all'ufficio postale della città di partenza.
Ma per i postini americani, fare il portalettere è un mestiere dannatamente serio. 
Dunque, in quei 26 anni, devono essere stati a decine i postini che hanno portato quella busta ora a questo, ora a quell'altro indirizzo.
E devono essere stati altrettanti gli impiegati della Poste che ogni volta che quel biglietto d'auguri tornava indietro, si davano da fare per trovare l'indirizzo corretto e aggiornato di mr. Duane Schrock sr.
Che in quei 26 anni aveva cambiato non so quante città, rimbalzando da uno Stato all'altro degli States.

Ma ve lo ricordate il fattorino Tom Hanks, nel film Cast Away, naufrago in un'isola deserta con un pacco che avrebbe dovuto consegnare, pacco che custodì per tutti gli anni del suo naufragio e che riuscì a consegnare solo dopo che su una zattera di fortuna venne ripescato poi in mare aperto?
Ecco: un postino americano non considera veramente compiuta la sua "missione" fino a quando la corrispondenza affidatagli non arriva a destinazione.

O forse, chissà, il giovane Duane aveva chiesto l'intercessione a San Rufo martire, il protettore dei postini.
Che alla fine ce la fece a far trovare Duane Schorck senior a Lynchburg, in Virginia. 
Dove, ora - ne siamo certi - Duane padre conserva quel biglietto come la cosa più preziosa del mondo.

"Non smetto di commuovermi, quando ci penso..."

E come può essere diversamente se si riceve un messaggio di quel genere, con quelle parole.
Una lettera che tuo figlio ti manda dall'aldilà.

"Non sarò mai grato abbastanza alle persone che hanno fatto di tutto per recapitarmi questa lettera.
Avevo chiesto tante volte a mio figlio se avesse fatto pace con Dio, perché volevo vederlo in Cielo.
E questo è sicuramente un segno dal Cielo... 
E' un modo per dirmi che mio figlio sta bene, e che è in Paradiso".

Perché, come cantava Fabrizio De André, "non c'è l'inferno nel mondo del buon Dio...".




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