PERSONE CHE HANNO LETTO O CURIOSATO

lunedì 4 febbraio 2013

Rosa Louise, che provocò una rivoluzione restando seduta


Erano anni odiosi, quelli delle discriminazioni razziali, negli Stati Uniti.
Oggi, dopo che alla guida del Paese c'è stato un afro-americano, quei tempi possono apparire lontani anni luce; ma aggressioni, linciaggi e omicidi di neri da parte dei bianchi del Ku Klux Klan erano all'ordine del giorno.
E poi c'era la Polizia - spalleggiata dalle leggi di allora - che spesso strizzava volentieri l’occhio ai razzisti.

Nel 1924, per esempio, il Parlamento della Virginia aveva varato un'incredibile legge che vietava espressamente in quello Stato “matrimoni fra persone di razze diverse”. Un ordinamento odioso che nel 1958 venne sfidato da due ragazzi, Richard Perry Loving, 24 anni, muratore, bianco, e la sua giovane fidanzata Mildred Dolores Jeter, 18 anni, afro-americana.
  

La straordinaria incoscienza tipica dei giovani, l’amore degli innamorati e l’incrollabile fede dei militanti - i due giovani erano entrambi iscritti al Partito Democratico - li portò ad affrontare la legge del loro Stato pur di sposarsi. 
Dovettero però andare nel District of Columbia, nella vicina Washington, per poter coronare il loro sogno. 

Ma una volta tornati a casa - proprio in virtù della legge in vigore in Virginia - i due ragazzi vennero arrestati, processati e condannati.

Un anno di prigione: un anno di carcere perché si amavano. 
Una sentenza che li costrinse a fuggire, rifugiandosi di nuovo nella Capitale Washington.
Mildred e Richard Loving non si fecero però per nulla intimorire: contro quel verdetto che ritenevano ingiusto, assurdo e inumano, presentarono un ricorso che, passando dalle varie Corti statali, nove anni dopo giunse finalmente alla Corte Suprema degli Stati Uniti d’America

E nel 1967, la sentenza del procedimento “Loving versus Virginia” stabilì finalmente che il matrimonio fra Mildred e Richard era da considerarsi “legittimo”, e che dunque l’odiosa legge dello Stato della Virginia doveva essere cancellata perché "contraria ai princìpi di uguaglianza scritti nella Costituzione americana".


Una piccola grande battaglia vinta, in una guerra che per la popolazione afro-americana sembrava non avere fine.

Ma erano numerosi i "piccoli Richard e Mildred" che, solitari, come tanti piccoli Davide, sfidavano negli Usa in modo nonviolento, il gigante Golia.


Un’altra di queste persone si chiamava Rosa Parks.

Rosa Louise McCauley Parks era una rammendatrice di 42 anni di Montgomery, Alabama, figlia di una maestra e di un muratore. 
Il 1° dicembre 1955, mentre tornava a casa in autobus dopo una faticosa giornata di lavoro, decise che era venuto il momento di sedersi in uno dei posti della fila centrale

Cosa c’è di strano, vi chiederete? 

C’è che le regole della “segregazione razziale” in vigore allora nello stato americano dell’Alabama erano rigidissime: sui mezzi pubblici, per esempio, i primi dieci posti erano rigorosamente riservati ai bianchi, mentre gli afro-americani potevano “liberamente” scegliere di sedersi solo in uno dei 10 posti delle ultime file

Ma la cosa, oltre che ingiusta, era assai complicata.

Perché tutti gli afro-americani (ma SOLO loro) dovevano obbligatoriamente salire dalla porta davanti per fare il biglietto dal conducente, poi scendere dal mezzo per poi risalire dalle porte posteriori, quelle che portavano alla loro “sezione”. 

Con molti autisti bianchi che si divertivano a lasciare a terra passeggeri afro-americani con il biglietto vidimato in mano mentre correvano per cercar di salire dalle porte dietro. 
Buttando poi via, dunque, il biglietto.

Sugli autobus c’era però una sorta di “zona franca”: quella dei 16 sedili centrali, dove comunque avevano sempre la precedenza di scelta i passeggeri dalla pelle bianca.
Una scelta che non si poteva discutere, non appellabile.
  Rosa Parks con Nicholas C. Chriss, reporter dell'agenzia Upi

E fu proprio in uno di questi posti che Rosa Parks decise di sedersi quel 1° dicembre, visto che la parte posteriore del bus era piena come un uovo e c'erano tanti posti vuoti, nella zona centrale. E lei, dopo una giornata di lavoro, aveva dolori ai piedi. 

Ma proprio quel giorno, accadde ciò che lei temeva: un passeggero bianco, infatti, le si piazzò davanti ringhiando che lui - anche se ve n’erano altri liberi - esigeva proprio “quel” posto, proprio quello dove era seduta lei. 

Ma proprio quel giorno - stanca di quelle sopraffazioni insensate - la piccola rammendatrice di Montgomery decise che era venuto il momento di dire “no”, di dire "basta"

Anzi, lei non degnò quell'uomo nemmeno di uno sguardo, e non gli rispose.
Così come subito dopo si rifiutò di obbedire al conducente che a quel punto aveva addirittura fermato l’autobus per ordinarle di alzarsi.


“Sentivo di avere il diritto di essere trattata come tutti gli altri passeggeri - avrebbe poi ricordato in un’intervista del 1992 -. Noi neri avevamo sopportato troppo a lungo”.

Il resto è “storia”: Rosa Parks, fra gli insulti dagli altri passeggeri bianchi, venne trascinata fuori dall'autobus dal solerte autista bianco, che le mise le mani addosso, la strattonò a forza in strada, chiamando poi a gran voce la polizia. 

Che, arrivata, la arrestò all’istante.

Che sguardo per nulla impaurito aveva Rosa Parks  mentre fissava l’obiettivo della macchina fotografica del carcere per la foto segnaletica: elegante, capelli raccolti dietro la nuca, reggeva con orgoglio il cartello con il numero di matricola 7053.

Anzi, addirittura le sue labbra sembravano quasi accennare un sorriso ironico, di sfida, che sembravano dire "Ma non vi rendete conto che sarete sconfitti dalla Storia?".
Dopo aver passato una notte in cella, la donna fu condannata a pagare una multa di 10 dollari, più altri 4 di spese processuali. 

Una volta libera, come se non fosse stato sufficiente, lei e il marito Raymond, barbiere, vennero licenziati senza motivo dai rispettivi datori di lavoro. 

Pura rappresaglia, insomma.

Soltanto l’anno prima, una sentenza della
Corte Suprema degli Stati Uniti aveva stabilito che la “segregazione razziale” in vigore in alcuni Stati del sud fin dal termine della Guerra Civile del 1865, “non era in contrasto con la Costituzione”, e che bianchi e neri, in quegli Stati, avrebbero potuto vivere “separati ed uguali”.

Rispettando, secondo la Corte Suprema, ognuno gli spazi degli altri. 

Dunque i neri non potevano occupare  luoghi e posti riservati ai bianchi (che ovviamente erano sempre i “migliori”, i più comodi e sempre meglio curati); e questo sia negli autobus, ma anche in tutti gli edifici pubblici: scuole, ospedali, ristoranti, bar, cinema, sale da ballo financo, ovviamente, alle toilettes.     
                        
Ora, dovete sapere che, proprio a Montgomery, nella chiesa Battista di Dexter Avenue, predicava un giovane e fin’allora sconosciuto Pastore. 

Il suo nome era Martin Luther King
Rosa Parks e Martin Luther King
La domenica dopo l’arresto di Rosa Parks, il Reverendo King proprio non si trattenne, e parlando dal pulpito spronò gli afro-americani della città - ma anche tutti i bianchi “di buona volontà” - ad avviare una “sacra e santa protesta nonviolenta: il boicottaggio ad oltranza della compagnia comunale dei trasporti".
Fu così che nella piccola, e fino ad allora sconosciuta e quasi insignificante Montgomery, iniziò lo sciopero dei mezzi pubblici da parte dei passeggeri neri, ai quali si unì uno sparuto manipolo di bianchi subito definiti “sovversivi”.

E’ la protesta che ancor oggi negli Stati Uniti viene considerata come l’inizio del moderno Movimento per i Diritti Civili americano.
E che favorì una mobilitazione solidale di tutti i cittadini afro-americani (ma non solo) di Montgomery.

Che iniziarono a condividere le loro auto per andare al lavoro o usavano collettivamente taxi di proprietà di neri
o che, più semplicemente, percorrevano chilometri a piedi per recarsi al lavoro, a scuola, a fare la spesa.

Anche in questo caso le rappresaglie non si fecero attendere: il Reverendo Martin Luther King venne malmenato e arrestato con un pretesto (eccesso di velocità!) dai poliziotti bianchi;
                                      
mentre la sua casa, così come quelle di altri attivisti afro-americani, venne incendiata dai soliti anonimi incappucciati.

Rappresaglie che non servirono a nulla, perché per più di un anno, a Montgomery, i mezzi pubblici viaggiarono praticamente a vuoto, con a bordo solo un paio di passeggeri bianchi a corsa.
Fu un salasso per l’amministrazione comunale, che testardamente - per 382 giorni - fece viaggiare ugualmente i suoi autobus nonostante i conti restassero per tutto quel tempo in "profondo rosso".

Il 13 novembre 1956 il “caso Rosa Parks” - patrocinato dal Naacp, l’“Associazione nazionale per l’emancipazione delle persone di colore” - arrivò alla Corte Suprema degli Stati Uniti: che, a sorpresa, decretò “non costituzionali” le norme sulla separazione razziale in vigore nei mezzi di trasporto pubblico di alcune città americane. 

Il sindaco di Montgomery fu dunque costretto formalmente a cedere, anche se stava ugualmente gettando la spugna visto che la protesta - con i suoi tremila dollari al giorno (del 1956) di mancati incassi - aveva ormai collassato l’azienda di trasporti e ridotto sul lastrico l’intero bilancio della città.

Ralph Abernathy e Martin Luther King
Il 21 dicembre 1956, di buon mattino - con i giornalisti che annotavano sui loro taccuini lo storico avvenimento e i fotografi che immortalavano la scena - Rosa Parks, Martin Luther King e Ralph Abernathy, altro pastore nero della città, pagarono regolarmente il loro biglietto e salirono sul primo autobus della giornata di Montgomery, il primo “integrato” per legge, sedendosi finalmente dove accidenti volevano.

Così come da quel giorno doveva accadere in tutte le altre città degli Stati Uniti d'America. 



Sette anni dopo - era il 28 agosto 1963 - a Washington, ai piedi del monumento dedicato ad Abramo Lincoln, un milione e forse più di cittadini afro-americani insieme a americani bianchi "di buona volontà" manifestarono chiedendo a gran voce la definitiva fine delle discriminazioni razziali in tutti gli Stati Uniti d'America.

Un' imponente manifestazione che si concluse con il più famoso discorso di Martin Luther King: “I Have a Dream”… 

Parole che entrarono nella Storia.



“… E perciò, amici miei, vi dico che anche se dovrete affrontare le asperità di oggi e di domani, io ho sempre davanti a me un sogno; ed è un sogno profondamente radicato nello stesso sogno americano.

So
gno che un giorno questa Nazione si alzerà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: ‘noi riteniamo indubitabile questa verità - disse Martin Luther King citando testualmente la Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti del 1776 -: che tutti gli uomini sono stati creati uguali’.

Io ho un sogno: che un giorno, sulle rosse colline della Georgia, i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza.


Io ho un sogno: che un giorno perfino lo Stato del Mississippi, uno Stato colmo dell’arroganza dell’ingiustizia, colmo dell’arroganza dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia.

Io ho un sogno: che i miei quattro figli piccoli, vivranno un giorno in una Nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere.

Ho davanti a me questo sogno, oggi!

(…) Con questa fede saremo in grado di strappare alla montagna della disperazione una pietra di speranza.  Con questa fede saremo in grado di trasformare le stridenti discordie della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fratellanza.

Con questa fede saremo in grado di lavorare insieme, di pregare insieme, di lottare insieme, di andare insieme in carcere, di difendere insieme la libertà, sapendo che un giorno saremo liberi.

(…) E un giorno sentiremo risuonare le campane della libertà, le sentiremo risuonare in ogni villaggio e in ogni borgo, in ogni Stato e in ogni città.
Facciamo in modo che quel giorno venga prima possibile, il giorno in cui tutti i figli di Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili, cattolici e protestanti, sapranno unire le mani e cantare le parole di quel nostro vecchio spiritual:

‘Liberi finalmente, 
liberi finalmente! 
Grazie, Dio Onnipotente!
Siamo liberi, finalmente!’”.

Il 14 ottobre del 1964, Martin Luther King ricevette il Premio Nobel per la Pace.

Un anno dopo, il 6 agosto 1965, si realizzò il primo embrione di quel sogno: il presidente Lyndon Johnson - già vice di John F. Kennedy e a lui subentrato dopo l’assassinio di Dallas - firmò il “Voting Rights Act”, la legge che finalmente stabiliva la formale ed assoluta uguaglianza fra bianchi e neri in tutti gli Stati Uniti d’America.

Una legge che, finalmente, dichiarava illegali quegli esami di lettura e scrittura ai quali gli afro-americani di molti Stati del Sud (ma solo loro) erano costretti a sottoporsi per poter chiedere di votare.

                           
                             Henry Ford Museum, Dearborn, Minnesota


 L'autobus su cui Rosa Parks cambiò gli Stati Uniti d'America e viene oggi considerato un vero e proprio "pezzo di Storia americana" e in quanto tale è conservato ed esposto in un museo, l'Henry Ford Museum di Dearborn, Minnesota. 
                 

A Montgomery una targa è stata poi posta sul punto in cui la donna fu costretta a scendere dall’autobus per venire arrestata, mentre nella stessa cittadina, al numero 252 di Montgomery St - che oggi si trova all’interno del campus della Troy University - c’è il Rosa Parks Museum

La casa al numero 620-638 di Cleveland Court, dove la donna abitava con il marito nei giorni dell’arresto, è stata inserita nel National Register of Historic Place e dichiarata monumento nazionale, e la stessa via, Cleveland Court, oggi si chiama Rosa L. Parks Avenue.

Nel 1996, Rosa Louise McCauley Parks - la donna che provocò una rivoluzione restando seduta - venne insignita dal Presidente americano Bill Clinton della "Medaglia d'oro alla Libertà" - riconoscimento che equivale alla nostra "Medaglia d'oro al valor civile" - mentre nel 1999 ricevette dal Parlamento Usa la “Medaglia d’Onore del Congresso degli Stati Uniti d’America”.


Due anni dopo fu il presidente George W. Bush a volerla incontrare, ma lei - che per tutta la vita rimase un’incrollabile attivista del Partito democratico e una delle voci più ascoltate del movimento dei diritti civili americano - declinò educatamente l’invito presentatole dall'esponente repubblicano.

Morì il 24 ottobre 2005, e proprio oggi avrebbe compiuto cento anni.
                              
Sette anni dopo, il 18 aprile del 2012, in visita a Montgomery, il Presidente americano Barack H. Obama volle rendere  omaggio a quella piccola grande donna afro-americana recandosi all'Henry Ford Museum di Dearbord, vicino a Detroit (Michigan) dove oggi è esposto quell'autobus.

Ci salì semplicemente, sedendosi allo stesso posto che a Rosa Parks costò l'arresto.


A pensarci bene fu proprio lì, a quel sedile d'autobus, che in fondo iniziò la rivoluzione
 che avrebbe portato un afroamericano alla Casa Bianca.

E, una volta seduto a quel posto, il Presidente Obama lì restò, in silenzio a pensare.
Forse a pensare proprio a questo.


© dario celli. Tutti i diritti sono riservati.

15 commenti:

  1. Purtroppo l'ignoranza e l'odio razziale e' ancora fin troppo diffuso pero'.

    La prima volta che visitai Buffalo (NY), finii per errore in una zona davvero poverissima, in cui le sole facce che si vedevano in giro erano nere, in cui non c'era una casa che non cadesse a pezzi. Capii subito di essere finita in un ghetto (ne' piu', ne' meno). Provai molta tristezza nel constatare che ancora molte (troppe) cose non sono cambiate. Provai ancora piu' tristezza quando sullo shuttle che portava all'universita' (la SUNY Buffalo) c'era un cartello con l'immagine di uno studente di colore seguita da una frase che diceva qualcosa come "siamo tutti uguali, anch'io posso studiare alla SUNY". Se davvero ci fosse parita', cartelli come quello non avrebbero ragione di esistere.
    Molto si e' fatto (grazie al cielo!), ma ancora molto c'e' da fare.

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  2. * l'ignoranza e l'odio razziale SONO (magari uso il plurale!) ;D

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  3. Dario,
    bellissimo articolo! L'ho letto con il sorriso stampato in viso, nonostante l'argomento, perchè mia figlia, Alice, ha preparato la tesina di terza media, lo scorso anno, su Rosa Parks e M.L.King.

    Non smettiamo di parlarne! MAI

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  4. Io, qui tra le rosse colline della Georgia, ho l'onore di vedere il frutto del civil rights movement quando mio figlio a scuola letteralmente si siede a tavola con qualche amichetto nero.

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    1. Thank you for your kind words!
      I write only what I believe...

      d.

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  6. Risposte
    1. E' la stessa commozione che mi ha portato a scriverlo...
      Grazie ancora!

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  7. Mi hai fatto commuovere.
    Interessante, come ogni argomento che tratti.
    Lo condividerò oggi stesso con i miei alunni. Grazie.

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    1. Sei tu, prof, che commuovi me.
      E se venissi nella tua classe a parlare un po' con loro di queste e altre cose?
      Un abbraccio a te e ai tuoi ragazzi.
      Io ero (davvero) come loro...

      d.

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    2. E perché no? Faresti davvero 600 km?

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    3. Prof, cercami su fb e parliamone!

      d.

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